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[RULE] [SPECIALE] [RULE] Il Voto del 21 Aprile al microscopio
[RULE]
[CARTA1] In altri tempi alla domanda: chi ha vinto? La risposta era scontata: hanno vinto tutti. Oggi, dopo il voto del 21 aprile e alla seconda esperienza elettorale
con un sistema in buona parte maggioritario, la domanda
si ripropone ma per altri motivi, dal momento
che vi sono notevoli incertezze sull'esito del confronto.


Premessa

Sartori, sul Corriere del 6 maggio, criticando quanti hanno affermato che questa volta il sistema elettorale ha funzionato, ha ricordato che è vero che il maggioritario riesce quasi sempre a creare una maggioranza, ma ha anche precisato che il fabbricare una maggioranza parlamentare diversa dalla maggioranza elettorale non è una delle cose che il maggioritario dovrebbe fare, anche se è una delle cose che può fare. Se nei paesi uninominali succede spesso che una maggioranza dei voti si traduce in una minoranza dei seggi, questo non è un pregio, semmai un difetto dei sistemi maggioritari, il cui intento è di rinforzare una maggioranza elettorale e non di capovolgerla.

Ma, allora, come sono andate le cose? Partiamo dai dati: grazie alle pubblicazioni, davvero tempestive, dell'Ufficio studi elettorali del Ministero dell'Interno (il merito va ad Antonio Agosta), disponiamo dei dati per collegio. E' stato quindi possibile realizzare una carta a colori dei risultati per l'elezione della Camera dei Deputati, che evidenzia le liste vincenti in ogni collegio.

L'effetto cromatico d'assieme conferma il risultato politico, cioè che ha vinto l'Ulivo: il `rosso' dell'Ulivo è senza dubbio più esteso del `blu' del Polo. Se però teniamo conto, oltre che del numero dei collegi (seggi), anche del totale dei voti sia nella parte maggioritaria sia in quella proporzionale, la situazione appare più complicata.

Effetti del maggioritario

La Tab. 1 evidenzia lo scarto tra i risultati degli schieramenti e delle singole forze politiche, nella parte maggioritaria (uninominale) e in quella proporzionale: è l'Ulivo ad aver ottenuto più voti come alleanza elettorale rispetto alla sommatoria delle sue componenti. Al contrario, il Polo per le libertà ha meno voti come alleanza che come singoli partiti. Persino la Lega ottiene quasi 250 mila voti in più nell'uninominale che nel proporzionale.

La Tab. 2 consente il confronto tra il voto proporzionale del 1994 e quello del 1996 e mostra chiaramente che il cartello del centro-sinistra, compresa Rifondazione Comunista, è arretrato in voti e in percentuale, mentre il cartello della destra ha guadagnato in voti e in percentuale, così come la Lega Nord. Il tutto in presenza di un ulteriore aumento del non voto, che in questo modo si conferma come il `primo partito' con il 23% del corpo elettorale.

All'obiezione, più che legittima, che i rapporti di forza si misurano con il risultato del voto della parte uninominale, si può rispondere che dipende da cosa si vuole davvero misurare con il voto. Se il consenso ai partiti, agli schieramenti, alle alleanze o se invece il risultato in termini di maggioranze, così come sono prodotte da un meccanismo elettorale che è costruito apposta per distorcere il rapporto voti/seggi e che quindi avvantaggia la coalizione che sa costruire gli accordi elettorali più ampi, non necessariamente quelli più stabili e duraturi.

Se è il consenso reale ciò che interessa, non meno degli equilibri parlamentari, si deve guardare al risultato della parte proporzionale e riconoscere che la vittoria dell'Ulivo è merito, certamente non voluto, di Bossi che, scegliendo di correre da solo, ha fatto scattare l'effetto del maggioritario, nei termini che ricordava sopra Sartori. In una situazione di elevata variabilità delle alleanze, nonché di fluidità estrema nei comportamenti di voto, non si può prescindere dal consenso alle singole forze politiche: e questo si misura con il voto nella parte proporzionale.

Se fossero rimasti dei dubbi, si può vedere come sono andate le cose in Veneto: infatti, se c'è un'area del paese dove il sistema maggioritario mostra gli effetti paradossali a cui può portare, questa è il Veneto.

Tab. 3
Tab. 4

Alcune cifre sono molto eloquenti: nel 1994 il centro-sinistra(Progressisti + Patto per l'Italia) nel voto uninominale della Camera ottenne il 41,1% e 1 seggio (su 37), mentre il 21 aprile con il 33,8% ha conquistato 15 seggi. Nel 1994 lo schieramento di centro-destra (Forza Italia + Lega, ma senza Alleanza Nazionale)con il 47,9% dei voti ebbe 36 seggi su 37, mentre il 21 aprile la destra (senza la Lega) ha ottenuto il 32.3% dei voti e 7 seggi. La Lega con il 32.8% ha preso 15 seggi su 37.

Dalle urne del 21 aprile l'elettorato veneto esce diviso in tre blocchi contrapposti, praticamente equivalenti come ampiezza, anche se la localizzazione del voto sul terreno segnala da subito profili che appaiono caratterizzarsi in modo specifico. Basti il dato relativo alla distribuzione del voto per classi di ampiezza demografica dei comuni (Tab. 5): nei 553 comuni fino a 20.000 abitanti (62,6% della popolazione) è la Lega Nord a prevalere nel maggioritario. Nei 27 comuni con più di 20.000 abitanti è l'Ulivo a sopravanzare Polo e Lega. Ne emerge così il profilo disegnato dalla Figura con il grafico a barre: Lega e Ulivo si caratterizzano per un impianto elettorale che tende rispettivamente verso il polo rurale e quello urbano, secondo la vecchia distinzione cara ai geografi, mentre il Polo per le libertà appare meno sensibile a questa distinzione.

Tab. 6
Carta 7

Per concludere sul maggioritario, si può dire che l'esito del voto, anche in Veneto, assume un segno inconfondibile: il centro-sinistra può giustamente rivendicare la sua vittoria politica alle elezioni, ma il suo consenso elettorale, comunque lo si misuri, è sceso dal 43% del 1994 al 33% di quest'anno.

Una specie di prova generale di quello che sarebbe accaduto con un cambio di alleanze elettorali vi era stata alle elezioni regionali del 23 aprile 1995, quando la destra senza la Lega ottenne 35 seggi su 54 in Consiglio regionale, grazie al premio di maggioranza; anche nelle elezioni provinciali la destra ottenne solo 55 seggi su 228, contro i 76 del centro-sinistra e i 49 della Lega.

Attore strategico, quindi, della competizione è stata la Lega: con il cambio di alleanze ha modificato radicalmente l'esito del confronto elettorale. Basti pensare che nel 1994 il valore medio della soglia per l'elezione nei 37 collegi uninominali della Camera è stato del 47.9%, con uno scarto tra il primo e il secondo di ben 23.5 punti percentuali, mentre il 21 aprile la soglia è scesa al 40.6%, con uno scarto di appena 7.9 punti percentuali tra primo e secondo. Nel 1994 vi fu un solo collegio marginale, cioè con uno scarto non superiore ai 5 punti, e ben 25 collegi con scarti superiori a 20 punti; quest'anno, sono stati 18 i collegi marginali e appena due quelli con scarti superiori a 20 punti.

E' chiaro, però, che in questo modo la Lega si trova ora a farei conti con la contraddizione del 21 aprile: come ha efficacemente argomentato Petracca sul Corriere dell'8 maggio, «la Lega ha ottenuto un risultato più che brillante, ma proprio il suo successo è stato uno dei fattori - tutto sommato il più rilevante- per cui non è uscito dalle urne quel pareggio sul quale Bossi contava alla scopo di assumersi un ruolo di protagonista; e allora, visto che non ha spazi di manovra politica, Bossi mira a continuare la campagna elettorale con altri mezzi, in modo da assicurarsi almeno la parte dell'antagonista».

Il voto di lista
E' il voto di lista, dunque, che può fornire indicazioni sulla transizione partitica e sull'evoluzione delle fedeltà elettorali, e quindi sulla risposta dell'elettore alle novità dell'offerta politica. La profonda ristrutturazione subita dal sistema dei partiti in Veneto assume il profilo di un passaggio epocale, significa la scomparsa della DC, un evento che però non sembra aver provocato grandi emozioni nell'opinione pubblica. Possono bastare l'effetto Tangentopoli e il fascino di Berlusconi a spiegare l'indifferenza per un evento così clamoroso? O piuttosto è prevalsa nell'elettorato moderato la percezione che vi era una sostanziale continuità politica di fondo tra il vecchio quadro politico e il `nuovo'?

Insomma, la DC era già morta da tempo, anche se nessuno ne aveva ancora proclamato il decesso; e questo perché la delega alla DC si era progressivamente svuotata, in una prima fase indebolendosi le componenti ideologiche della delega, poi perdendo di efficacia anche quelle strumentali. Ma, «morta la DC, viva i democristiani», visto che mai come dopo la fine della "balena bianca" i suoi esponenti, anche quelli di seconda e terza fila, sono stati tanto corteggiati e rivalutati.

Questo porta a interrogarci su un altro elemento importante che emerge dalle elezioni degli ultimi tre anni: il ricambio del ceto politico. La vera novità delle elezioni del marzo 1994 nel Nord-Est fu rappresentata dal profondo e radicale ricambio del personale politico veneto inviato in Parlamento, con la prevalenza di figure sociali espressione di quel lavoro autonomo che costituisce il nucleo portante del cosiddetto modello veneto di sviluppo. Nelle elezioni amministrative dell'anno scorso non si è verificato nulla del genere: vi è stata, invece, scarsa disponibilità di molti esponenti della società civile a impegnarsi in politica o, più precisamente, il ritorno al peggio della stagione politica precedente. Per poter presentare le liste si è arrivati a riciclare personale politico sopravvissuto a Tangentopoli.

Quest'ultima tendenza sembra si sia accentuata con le elezioni del 21 aprile, se sono fondate le indicazioni fornite dalla rivista di Macaluso, Le ragioni del socialismo, cioè di 366 candidati provenienti dalle file della DC (186 con il Polo, 180 con l'Ulivo), di cui 26 su 54 nei collegi del Veneto. Ma su questo aspetto, le modalità del ricambio del ceto politico, a mio avviso assolutamente sottovalutato dalle forze del centro-sinistra, ho incorso di elaborazione i primi risultati di un'indagine sui candidati del Triveneto.

Torniamo alle novità dell'offerta politica e cerchiamo di capire il voto in Veneto, scegliendo come chiave di lettura dei comportamenti elettorali in questa area la dimensione territoriale: si analizzerà, quindi, la distribuzione del voto sul territorio (parte proporzionale), servendosi della cartografia a colori e confrontando le percentuali di voto nelle diverse classi di ampiezza demografica dei comuni.

Tab. 5
Lega Nord

La carta a colori con i risultati della Lega Nord nel proporzionale, rende bene il profilo del suo impianto elettorale sul territorio. A conferma di quanto ha già segnalato Diamanti nelle sue analisi, si può precisare che la crescita tra il 1994 e il 1996 (+7,7%) è piuttosto localizzata come indica la tipologia dei comuni, poiché l'aumento è superiore al 10% nei comuni fino a10.000 abitanti (sono 496 comuni, dove la Lega ha una media del 35%), ma tende a ridursi nei comuni più grandi, fino a un modesto incremento del 2,6% nei capoluoghi di provincia (dove comunque è virtualmente il primo partito).

Carta 6
Questo evidenzia che la Lega si impone come formazione politica capace di performance elettorali impressionanti (60 comuni in cui ottiene percentuali superiori al 50%; 200 comuni con > 40%), a livelli che solo la DC negli anni migliori aveva saputo raggiungere e tendenzialmente anche nelle stesse aree (la correlazione tra voto alla Lega e voto alla DC nel 1948 è infatti alta: +0.59). Le caratteristiche socioeconomiche di questi comuni sono quelle tipiche delle aree della piccola impresa. Bastino due dati: gli indicatori censuari (1991) più correlati con il voto alla Lega sono, in positivo, il tasso di attività industriale(+0.53) e, in negativo, il tasso di disoccupazione giovanile(-0.57).

Gli eredi della DC?
Il successo della Lega ha fatto passare in secondo piano altri risultati rilevanti: in particolare il dimezzamento dei voti al PPI, solo in parte compensato da un risultato peraltro modesto delle altre due formazioni eredi della DC, il CCD-CDU. La cartografia evidenzia un aspetto che si era manifestato già con il voto del 1994: le formazioni, eredi della DC, stanno perdendo il profilo del vecchio impianto territoriale democristiano. Infatti, non solo la Lega le ha scalzate dalle provincie del quadrilatero(VI, VR, PD, TV), ma queste formazioni non presentano più l'andamento tipico del voto alla DC: fortissima nelle zone rurali, debole nella aree urbane. Oggi, il voto alla lista dei Popolari+Prodi non risente della dimensione dei comuni; solo il CCD-CDU si presenta ancora un po' più forte nei comuni minori.

Carta 5

La sinistra

Altro dato trascurato, l'ulteriore erosione del voto al PDS e il risultato non esaltante di Rifondazione Comunista. L'elemento che dovrebbe preoccupare i dirigenti della sinistra veneta è il permanere, a distanza di 50 anni, dello stesso profilo territoriale del voto tipico del dopoguerra: c'è una continuità impressionante tra l'impianto del voto alla sinistra nel 1948 e i risultati del PDS il 21 aprile (il coefficiente di correlazione è+0.72 e +0.73 per Rifondazione). Anche la forbice tra risultati nei comuni minori e quelli nei centri maggiori permane, a sintomo di una incapacità di penetrare nei luoghi dello sviluppo di piccola impresa.

Che la sinistra in Veneto abbia problemi storici non è una novità, ma le sue difficoltà escono confermate anche dal fatto che in due collegi delle province `rosse', Rovigo e Venezia, la desistenza non ha funzionato come negli altri collegi del centro Italia. Carta 4

La destra

La riduzione dei consensi a Forza Italia non può essere spiegata solo con la presentazione autonoma del CCD-CDU; è significativo che nel 1994 il suo impianto territoriale era piuttosto uniforme nella varie classi demografiche dei comuni, mentre il 21 aprile il calo è stato maggiore nei comuni minori, evidentemente a vantaggio della Lega.

Carta 3 Alleanza Nazionale cresce del 4%, accentuando l'impianto urbano, dove insidia il PDS in terza posizione. Carta 2

Considerazioni conclusive

E' presto per trarre conclusioni da questi primi elementi di analisi. Si può però tentare di leggere questi risultati sullo sfondo della vicenda politico-elettorale del veneto. Per più di 40 anni il Veneto è stato la `zona bianca' per eccellenza, l'emblema di un consenso alla DC che si riproduceva stabile nel tempo, nonostante gli enormi mutamenti economici (sviluppo di piccola impresa), sociali (diffusione del benessere) e culturali(secolarizzazione). In questo senso il Veneto è stato un modello particolare di relazioni tra società, istituzioni e politica, compatto e stabile, di cui la DC costituiva il riferimento più evidente.

Poi alle elezioni politiche del 1992 si è manifestato il crollo della DC (-12%), ma anche un arretramento secco del PCI e degli altri partiti tradizionali, mentre il voto difforme (nuove liste +voto autonomista) raggiungeva livelli record (34%). Si è parlato di trasformazione del Veneto da "bianco" ad `autonomista', ma si è trattato di un mutamento nella continuità, nel senso che la dimensione territoriale è rimasta, anzi si è rafforzata come ancoraggio e risorsa di identità politica.

A questo si aggiunga la trasformazione del contesto produttivo che ha favorito la diffusione delle figure sociali tipiche dell'economia diffusa (il lavoro autonomo), che vivono con frustrazione le tensioni create dalla crescente pressione fiscale e dall'inefficienza dell'apparato pubblico.

Insomma, la crisi delle identità politiche tradizionali, il formarsi di nuovi riferimenti particolaristici, il delinearsi di gruppi sociali portatori di tensioni e frustrazioni nei confronti del sistema politico e dei partiti che lo hanno gestito, hanno liberato ampi settori di elettori, rendendoli disponibili a nuove opzioni politiche.

Ma, alla fine, sembrano uscire confermati alcuni tratti di una fisionomia antica del Veneto, il basso continuo di un moderatismo che può anche dividersi tra opzioni politiche diverse, ma che è segnato da una profonda estraneità e insofferenza nei confronti di uno Stato che più di un secolo fa i veneti hanno conosciuto estraneo e ostile, di cui nel secondo dopoguerra hanno beneficiato grazie alla funzione di brokers dei politici democristiani, e che oggi percepiscono come vessatore perché inefficiente.

La tentazione di fare da soli ha radici profonde: se non si tiene conto di questo, anche le ricette autonomiste o federaliste, elaborate in chiave di sola ingegneria istituzionale, potrebbero non sortire gli effetti voluti.

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* Prima stesura di un contributo destinato al volume di G. Gangemi, G. Riccamboni (a cura di), Le elezioni della transizione, Torino, UTET, in corso di pubblicazione.

Gianni Riccamboni