[Attualità]
MACARONÌ  e
VU' CUMPRA'


STORIE CHE SI RIPETONO

L'illusione della temporaneità e i germi del cambiamento

Le radici sociali dell'emigrazione

Lo sviluppo della rivoluzione industriale e la trasformazione capitalistica dell'economia mondiale, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, provocano in tutta Europa movimenti migratori di massa.

Nelle campagne povere del vecchio continente l'eccedenza della popolazione cerca e trova sbocco occupazionale nelle aree più bisognose di manodopera agricola e operaia del mondo sviluppato o in via di rapido sviluppo.

L'emigrazione italiana conserva tra le sue mete principali alcuni paesi europei confinanti o più vicini quali la Francia e la Germania.

Qui, per motivi di economicità del viaggio, si portano soprattutto i numerosi emigranti "temporanei" del nord della Penisola.

In cento anni escono dai confini nazionali, con una emigrazione per lo più temporanea, 27 milioni di persone, grosso modo l'ammontare della popolazione italiana all'epoca dell'unificazione, nel 1861.

Il primato quantitativo tocca costantemente all'esodo cosiddetto europeo, ma vi sono momenti, specie tra la fine del secolo XIX e la grande guerra, in cui si fanno assai robuste anche le correnti dirette oltreoceano.

Di qui nasceranno molte comunità etniche, negli USA, in Brasile, in Argentina, ecc., destinate a costituire, ancor oggi, la parte più consistente della "presenza italiana" nel mondo.


Le migrazioni interne tra le due guerre

Mentre si veniva svolgendo il grande movimento emigratorio verso l'estero, non si arrestarono però i flussi che, soprattutto durante il Novecento, rimescolarono all'interno dell'Italia le popolazioni urbane e rurali in cerca di lavoro.

Tra le migrazioni interne di corto raggio già ai primi del secolo divennero evidenti quelle delle operaie che nelle regioni del Nord facevano la spola tra le campagne native e gli stabilimenti tessili o, ancora, quelle delle donne ingaggiate per la monda del riso.

Gli spostamenti interni di popolazioni rimasero intensi anche durante il ventennio fascista, a dispetto dei provvedimenti del regime che cercò invano di frenare e di impedire questa mobilità.

Particolare rilievo assunse la cosiddetta "colonizzazione interna", potenziata anche per motivi propagandistici durante il fascismo con la politica di ripopolamento delle terre bonificate.

La creazione di "città nuove" negli agri romano e pontino, ma anche in Maremma e in Sardegna, comportò infatti un notevole fenomeno di emigrazione interna di coloni, per lo più d'origine settentrionale (veneti ed emiliani), verso le nuove realtà agricole, ancora difficili anche sul piano sanitario.

E i "bonificatori" spartirono così con le mondine, oltre alla durezza di un lavoro defatigante, i miasmi dell'acqua di palude e le febbri malariche.


L'emigrazione al femminile

L'emigrazione, che alle sue origini è essenzialmente maschile e che si svolge in forma individuale, trasformandosi in fenomeno di massa finisce per interessare un numero crescente di donne che seguono i capifamiglia.

Tuttavia già prima dell'avvio dell'emigrazione transoceanica di massa esistono rilevanti esempi di mobilità femminile interna attraverso trasferimenti periodici (dalle campagne alle città o da un punto all'altro del paese) determinati dalle pratiche del baliatico e del lavoro domestico salariato.

Inoltre a fine secolo risulta consolidata, specie nel nord del Paese, la tendenza di donne e ragazze ad occuparsi all'estero (in Francia, in Germania, in Svizzera, ecc.) e in Italia in stabilimenti tessili distanti da casa (e questo implica la permanenza in convitti allestiti dai padroni o da organizzazioni filantropiche e religiose).

Ma dai primi del Novecento si registra nelle Americhe una crescente e marcata presenza femminile italiana organizzata: le donne lavorano svolgendo funzioni di supporto nella famiglia, o gestiscono pensioni e camere in affitto per connazionali, e sempre più spesso trovano impiego nelle varie attività produttive domestiche e di fabbrica.


Il mito dell'Italia

Rispetto agli "antichi" emigranti italiani che si figuravano l'America come "paese di Cuccagna", per molti degli immigrati potenziali del Terzo Mondo il mito dell'Italia si è propagato attraverso la ricezione dei programmi televisivi italiani o attraverso i viaggi dei turisti occidentali o i racconti "edulcorati" dei loro connazionali (un fenomeno definito "socializzazione anticipatoria"), che veicolano dell'Italia un'idea di paese felice e ricco, aperto e disponibile. La vicenda degli albanesi insegna...


Integrazione e immigrati

Il dibattito sul significato di "assimilazione" e/o di "integrazione" è ancora aperto.

In ogni caso l'assimilazione non dovrebbe essere un obiettivo da perseguire con rozzezza e con intenti discriminatori.

Essa prevede gradi intermedi non ancora realizzati fra noi: accoglienza, accettazione, adattamento e integrazione, e richiede azioni positive nei confronti sia degli autoctoni sia degli stessi stranieri.

Il primo segno tangibile di un tale processo in corso è fornito dai casi in cui l'immigrato si fa raggiungere dalle famiglie.

Segno e contemporaneamente strumento attivo di inserimento e socializzazione sono inoltre la scuola e la frequenza dei corsi di lingua, in particolare per le donne, che sono spesso escluse a causa dell'attività lavorativa svolta.


Le lettere degli emigranti

Nell'emigrazione, un ruolo assai importante è svolto dalle forme della comunicazione tra chi parte e chi rimane.

I rapporti degli emigranti con familiari, parenti ed amici sono di norma intensi.

Il bisogno comprensibilissimo di comunicare e di rimanere in contatto col "mondo di prima" spinge a una "conversazione" realizzata soprattutto attraverso lo scambio di lettere. E proprio questa trama epistolare finisce per avere conseguenze dirette sulla diramazione e destinazione dei flussi migratori.

Nel trasmettere notizie di sé e del proprio nuovo stato, gli emigranti infatti influenzano le scelte di quanti decideranno di imitarli oppure no.

Assieme a questa funzione diretta, testimoniata da un vero fiume di corrispondenze epistolari, la posta è spesso utilizzata per la trasmissione di danaro.

L'accesso crescente alla scrittura di un numero cospicuo di emigranti e la "voglia" di raccontare e di raccontarsi (magari affidata alla penna di compagni più istruiti) apre poi spiragli avvincenti sul vissuto di quanti sperimentano in prima persona la realtà multiforme dell'immigrazione.

Frasi sgrammaticate e descrizioni stilisticamente rozze tracciano racconti attendibili e rischiarano orizzonti di sacrificio e d'intelligenza, consentendo oggi di conoscere aspetti importanti del mondo emotivo e delle reazioni mentali degli immigrati.


La rete delle solidarietà

La realtà urbana e l'emigrante

I principali insediamenti dell'emigrazione italiana, nonostante la sua prevalente estrazione rurale, sono quelli delle città, dove si addensano fabbriche e attività produttive capaci di dar lavoro.

Ma le condizioni di vita sono spesso insoddisfacenti.

Un problema, sopra gli altri, fa spicco: quello della casa o del ricovero collettivo, in cui dare inizio a un primo faticoso processo di ambientamento.

La tendenza prevalente spinge a ricreare all'interno delle città straniere angoli o quartieri che in qualche modo ricordino le caratteristiche di quotidianità dei luoghi di origine.

Nascono così le Little Italies nordamericane e i quartieri etnici italiani lungo vie e strade che spesso riproducono o rispecchiano la composizione regionale e paesana dei principali flussi immigratori.

E vengono così anticipate esperienze che saranno poi ripetute in tempi recenti da nuove generazioni di nostri lavoratori espatriati (nei centri industriali della Germania, nei centri carboniferi del Belgio, in Francia, ecc.).

Ovunque e per tutti, assieme alle esigenze di autodifesa dall'intolleranza dei movimenti xenofobi, alle difficoltà di un processo di progressiva assimilazione e alla durezza del lavoro, le città e gli ambienti urbani prospettano il problema cruciale della vivibilità (affollamento, malattie endemiche, ecc.) e del costo delle abitazioni, che solo dopo molti decenni, e attraverso frequentissimi spostamenti interni, verrà in qualche modo risolto dai figli e dai nipoti.


Gli immigrati e la metropoli

Spesso il primo anno in Italia viene trascorso nei grandi agglomerati urbani, poi ci si sposta gradualmente sul restante territorio nazionale nei luoghi di stabilizzazione.

È la città che comunque offre maggiori risorse lavorative, ma impone anche grandi sacrifici e determina situazioni di particolare insicurezza.

Il problema abitativo è anche oggi quello più drammaticamente sentito dagli immigrati: il mercato delle abitazioni nelle grandi metropoli costringe molto spesso gli stranieri a vivere in condizioni di estrema precarietà, incolpati perciò di stili di vita poco decorosi e non igienici.

Costretti a vivere in molti in una stanza per far fronte agli affitti esorbitanti, costretti a ripari di fortuna in molti casi, gli stranieri soggiacciono anche per questo aspetto a forme di sfruttamento che ne rendono difficile l'esistenza.


Emigrazione: il primo impatto

Come il momento del distacco, anche quello del primo contatto con le nuove terre di destinazione è carico di sensazioni ed emozioni che difficilmente la fotografia riesce a rendere nella loro pienezza.

Problemi pratici (il recupero dei bagagli, l'ignoranza di quale sarà il primo ricovero, ecc.) si accompagnano a problemi spesso non previsti alla partenza, come le visite mediche di controllo e, da un certo momento in avanti (in USA dopo il 1917), le prove sul livello di alfabetizzazione.

Per molti anni anche i paesi più rigorosi, tuttavia, si accontentano di un esame abbastanza sommario della capacità lavorativa e intellettuale dei nuovi arrivati, sorvolando sull'analfabetismo, assai elevato nell'emigrazione meridionale italiana.


Il problema dell'accoglienza

Non esiste al momento in Italia un servizio pubblico di ricevimento degli stranieri sotto giurisdizione governativa, come in altri paesi.

Esistono bensì alle frontiere sbarramenti per chi non fosse in regola con la normativa.

La prima assistenza è assai carente ed è lasciata alla buona volontà di agenzie pubbliche e private, o di matrice religiosa o sindacale.

Nessuna grande struttura, ad ogni modo, agisce da filtro o da luogo di ricovero o si prende cura elementare degli immigrati al primo arrivo.

In alcune città (Bologna, Modena, Milano, Bergamo, Brescia, Torino, ecc.) le Amministrazioni hanno creato Uffici e/o Servizi per gli stranieri e Centri di prima accoglienza che, con il mutare dell'orientamento politico delle diverse giunte comunali, sono stati smantellati o trasformati in meri centri che si occupano dell'assegnazione dei posti letto.

Lentamente alcuni servizi sociali, sanitari ed educativi si stanno aprendo all'utenza straniera, ma ancora una volta tutto è lasciato alla buona volontà degli operatori.


Immigrati e strutture assistenziali

Scarsa e poco incisiva risulta l'azione di tutela svolta dallo Stato italiano e fino alla metà degli anni Ottanta l'azione delle forze assistenziali private sia di matrice ecclesiastica sia sindacale ha costituito il principale punto di riferimento.

A tutti è nota l'opera svolta dal volontariato cattolico e dalla Caritas, e quanto per conto proprio vanno facendo molte parrocchie e gruppi d'ispirazione religiosa.

Meno conosciuto, ma non meno reale, è l'impegno soprattutto al Nord delle Camere del Lavoro e dei sindacati, che si occupano anche dell'istruzione e dell'apprendimento linguistico dell'italiano.

Anche gli enti locali in alcune regioni (Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, ecc.) hanno creato Servizi specifici per gli immigrati (Uffici e Centri Stranieri) e strutture sanitarie aperte anche agli stranieri.


Lamerica
Sogni, sconfitte e ... "rivincite"

Verso l'America: la partenza

La decisione di partire verso paesi lontani, di lingua e cultura diverse dalla propria, è per l'emigrante un atto di intraprendenza e di coraggio.

La partenza, se compiuta per non più tornare, presuppone non solo l'abbandono della patria, ma anche, talvolta, la vendita delle poche cose di proprietà e l'allestimento di un elementare bagaglio.

Più sbrigativi e allenati appaiono gli emigranti temporanei che a piedi o in ferrovia si spingono attraverso l'Europa, portando con sé una sacca o una valigia sdrucita e di cartone, che sarà a lungo, sin dentro agli anni Cinquanta del Novecento, l'immagine standard del lavoratore italiano diretto all'estero.

Cariche di suggestione sono poi le immagini della prima emigrazione transoceanica.

I porti più celebri e battuti, in Italia, sono quelli di Napoli e di Genova, dove, prima dell'imbarco, i partenti consumano alcuni giorni di attesa, di solito penosa e sfruttata da albergatori e bettolieri.

Saliti a bordo, gli emigranti e le loro famiglie, ritratti dai pionieri dell'arte fotografica, tradiscono tutta la drammaticità e l'eccezionalità del momento e della situazione: molti viaggi saranno senza ritorno, altri verranno funestati da naufragi e incidenti, ad altri ancora farà seguito un tardivo rientro in patria dopo anni o decenni di lontananza e di emarginazione.


Le Navi di Lazzaro

Per molti decenni il viaggio verso l'America, meta principale dell'emigrazione italiana, si svolge a bordo di navi (inizialmente a vela e poi a vapore), che rappresentano già da sole un aspetto non secondario del grande business emigratorio.

La traversata oceanica a bordo di vascelli poco adatti (solo all'inizio del Novecento cominciarono ad entrare in funzione i transatlantici meglio attrezzati) è come il simbolo del passaggio geografico e di status a cui gli emigranti aspirano.

Ma non è quasi mai un passaggio indolore: incidenti e naufragi sono costantemente in agguato, non sempre le condizioni igieniche e sanitarie risultano soddisfacenti, e nell'arco di poche settimane o pochi giorni (le traversate durano, come recita una famosa canzone popolare, fino a "30 giorni di nave a vapore") sono in agguato la malattia e la morte.

"Navi di Lazzaro", non a caso, vengono chiamate molte navi di emigranti. E questo sia nell'andata, quando il viaggio può concludersi per molti - respinti dalle autorità - con l'obbligo di tornare in patria o con defatiganti quarantene precauzionali, e sia nel ritorno, quando rimpatriano lavoratori ammalati (malaria, tracoma, turbe mentali) o debilitati da anni di permanenza all'estero in situazioni esistenziali di gravissimo disagio.


Storie dimenticate

La storia dell'emigrazione italiana non si esaurisce all'interno delle cornici più note dell'Europa e dell'America fra Otto e Novecento.

Per mille rivoli, infatti, l'emigrazione raggiunse con alcuni suoi protagonisti luoghi impensati e non toccati dall'esodo di massa; oppure, in certi periodi, intersecò il suo cammino con quello delle strategie dei governi.

A volte furono lo spirito avventuroso, come agli albori della colonizzazione dell'Australia, o l'aspirazione a una rapida fortuna individuale a spingere gruppi di emigranti a "cercar fortuna" in Africa e nell'Estremo Oriente.

In altre occasioni si trattò invece dell'adeguamento dei singoli a situazioni favorevoli che sembravano essersi dischiuse grazie a un intervento delle autorità.

Agli italiani che già a fine secolo XIX risultarono presenti dall'Egitto al Ghana e che all'inizio di quello successivo si spinsero sin dentro i territori asiatici dell'impero zarista o in Cina, si affiancarono, tra le due guerre, gli operai e i contadini messi in movimento con scopi popolazionisti o produttivistici dalla politica imperialistica e di potenza dell'Italia e dell'Asse.

Gli emigrati affluirono abbastanza numerosi nei territori conquistati dall'imperialismo fascista. Ma né nelle colonie africane o in Albania, né altrove (ad esempio in Austria e in Germania) la loro esistenza di emigranti/coloni o di emigranti/militarizzati si rivelerà più facile e meno irta di difficoltà di quella dei loro compagni.


L'emigrazione nella cultura popolare

Prima di diventare un fatto quasi fisiologico e normale, l'atto di emigrare ebbe enormi risonanze emotive e diede vita a interpretazioni e rielaborazioni espresse attraverso gli schemi della cultura popolare.

Nella mentalità degli operai e soprattutto dei contadini l'emigrazione all'estero venne letta col filtro di visioni un po' fatalistiche e intinte, comprensibilmente, di pessimismo e, talora, di sarcasmo classista e di amara autoironia.

Gli uomini e le donne che abbandonavano i paesi natali si affidarono alle risorse della tradizione folklorica adattandone i temi con canti in cui campeggiavano sogni e aspettative, ma anche presentimenti di morte, più spesso con l'ausilio di testi divulgati da cantastorie.

Assieme alle rivendicazioni di una propria identità connotata anche politicamente, che furono il leit-motiv della stampa operaia anarchica e socialista, s'imposero reazioni culturali intrecciate spesso con la profonda religiosità dei partenti. Gli ex voto per grazia ricevuta e gli invii di oboli per soccorrere le parrocchie o per far costruire chiese non furono meno numerosi, quindi, delle sottoscrizioni alla stampa socialista o delle contribuzioni volontarie a partiti e sindacati della sinistra nei momenti di più dura repressione in patria e all'estero.


Guide e letteratura

L'emigrazione popolare italiana, soprattutto se diretta in America, diede luogo al fiorire di una letteratura di "accompagnamento" e di supporto, espressione all'inizio dei timori e delle classi dirigenti. Essa però era anche segno dell'importanza via via riconosciuta al fenomeno in seno alla società di provenienza.

Dagli anni Sessanta dell'Ottocento e sino agli anni Trenta del Novecento, furono pubblicati guide e manuali per emigranti.

Nella produzione di testi esplicativi si distinsero associazioni patronali cattoliche e laiche e, tra l'età giolittiana e il fascismo, lo stesso Commissariato della Emigrazione sorto nel 1901.

Fu però nella letteratura che l'emigrazione ebbe maggiore risonanza. Tema di grandi letterati, da Zanella a Pascoli, l'emigrazione trovò i suoi cantori in poeti politicizzati, come Pietro Gori, e in scrittori di secondo piano (Mantegazza, Marazzi, Brenna, ecc.). Ma in questa produzione spiccò per efficacia e attendibilità "Sull'Oceano" di Edmondo De Amicis, uscito nel 1889 e molte volte ristampato anche in edizione illustrata con le celebri tavole di Arnaldo Ferraguti.

Innumerevoli sono gli studi dedicati alla storia dell'emigrazione italiana.


L'identità culturale dell'immigrato

Lo straniero è chiamato continuamente a costruirsi un'identità di volta in volta "flessibile" al diverso contesto, ma per farlo ha bisogno dei propri punti di riferimento e di continuità. Sono generalmente le donne, che adattandosi al nuovo contesto, mantengono saldi i contatti con il passato e la tradizione, occupandosi ad esempio delle feste. Le feste infatti non sono solo un passatempo, ma una conferma della propria identità, in cui il senso della comunità si mantiene e si rinforza anche nella preparazione dei pranzi collettivi.

Un matrimonio combinato, un piatto tipico, il costume tradizionale, le ricorrenze ufficiali contribuiscono a tramandare la cultura di appartenenza.


Il calvario dell'emigrante: miniere e ferrovie

Stabilire una precisa gerarchia delle attività lavorative svolte dagli emigranti italiani nell'arco di cent'anni non è possibile per la varietà delle esperienze e per il fatto che essi, di tempo in tempo, risposero a sollecitazioni e ad "offerte" di tipo assai diverso.

È tuttavia possibile isolare alcune forme ricorrenti d'impiego tra le più rischiose e pesanti.

Così in America, come in altre parti del mondo, per decenni lo scavo in miniera e la costruzione di linee ferroviarie, che furono caratteristici d'una intera fase dell'evoluzione dell'economia capitalistica, assorbirono a lungo una quota parte qualificata (ma anche assai spesso non qualificata) di emigranti. E anzi in Europa il lavoro nelle miniere continuò a interessare la forza lavoro costretta a uscire dal nostro Paese, sin dentro agli anni Cinquanta e con esiti a volte altamente drammatici. Particolarmente tragica fu la sciagura del 1956 a Marcinelle (Belgio) dove perirono 136 italiani su 262 minatori rimasti vittime di un'esplosione.


I razzismi del lavoro

Il calvario dell'emigrante: miniere e ferrovie

Stabilire una precisa gerarchia delle attività lavorative svolte dagli emigranti italiani nell'arco di cent'anni non è possibile per la varietà delle esperienze e per il fatto che essi, di tempo in tempo, risposero a sollecitazioni e ad "offerte" di tipo assai diverso.

È tuttavia possibile isolare alcune forme ricorrenti d'impiego tra le più rischiose e pesanti.

Così in America, come in altre parti del mondo, per decenni lo scavo in miniera e la costruzione di linee ferroviarie, che furono caratteristici d'una intera fase dell'evoluzione dell'economia capitalistica, assorbirono a lungo una quota parte qualificata) di emigranti. E anzi in Europa il lavoro nelle miniere continuò a interessare la forza lavoro costretta a uscire dal nostro Paese, sin dentro agli anni Cinquanta e con esiti a volte altamente drammatici. Particolarmente tragica fu la sciagura del 1956 a Marcinelle (Belgio) dove perirono 136 italiani su 262 minatori rimasti vittime di un'esplosione.


Linciaggi e intolleranza xenofoba

Nelle terre di arrivo gli emigranti italiani furono costretti a misurarsi, inermi e indifesi, con tutte le forme dell'intolleranza xenofoba.

Accusati dall'opinione pubblica locale - negli USA - di essere rapaci "uccelli di passaggio", di deprimere il livello dei salari e, infine, di favorire con comportamenti illegali l'incremento della criminalità, gli italiani furono i più malvisti tra gli immigrati.

La nomea di mafiosi e di camorristi finì così per essere applicata a tutti i meridionali approdati negli Stati Uniti, a causa del coinvolgimento di alcuni di loro in attività illegali.

La conseguenza fu che un po' dovunque, da Aigues Mortes in Francia all'Argentina, dal Nord America alle fazendas del Brasile, con impressionante regolarità, gli italiani si trovarono vittime di violenze gratuite, di "cacce all'uomo", di cruente ritorsioni e talora di veri e propri eccidi.

A suggellare una intera fase di questa storia di violenza subita intervennero poi le repressioni per motivi politico-ideologici negli anni fra il 1919 e il 1929, caratterizzati dalla crociata antibolscevica e dalla concomitante serrata immigratorio. E il caso di Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani incolpati di gravi reati e condannati ingiustamente a morte senza prove sicure nonostante la mobilitazione operaia internazionale, siglò in certo modo tale fase.


Emigrazione e movimento operaio e socialista

L'emigrazione all'estero creò serie difficoltà al nascente movimento operaio e socialista sia in Italia che fuori d'Italia.

Il principio dell'internazionalismo proletario, infatti, entrò presto in contrasto con la dura realtà della guerra fra poveri e con le contraddizioni provocate da un sistema che spesso costringeva gli immigrati a vestire i panni dei crumiri (strikebreakers, rompiscioperi).

I socialisti e gli anarchici cercarono di sanare tali contraddizioni e di dar vita a organismi di autodifesa di tipo etnico. Essi si sforzarono di tener fede all'estero alle idealità rivoluzionarie aderendo a scioperi, a manifestazioni e a celebrazioni (fra tutte, il 1° Maggio), e dando vita a organismi mutualistici e sindacali di ispriazione classista.

Leaders di rilievo, come Gori e Malatesta tra gli anarchici, Rondani e Serrati tra i socialisti, Rossoni e De Ambris fra i sindacalisti rivoluzionari, parteciparono, in Europa e nelle Americhe, a questa attività che aveva in Italia i suoi centri d'elaborazione più maturi negli uffici centrali e periferici della Società Umanitaria e che ricevette poi un forte incremento fra le due guerre per impulso di antifascisti e comunisti costretti all'esilio dalle persecuzioni del regime fascista.


Il sindacato tra gli immigrati

La partecipazione degli immigrati stranieri alle iniziative del movimento operaio e sindacale italiano è ancora in una fase di radicamento.

L'incontro fra le due realtà risulta difficile per l'alta percentuale di stranieri impiegati ai margini o addirittura contro le leggi che disciplinano il lavoro salariato e gli aspetti previdenziali e assicurativi.

Difficoltà linguistiche, culturali e religiose accentuano inoltre la difficoltà del processo di inserimento degli immigrati nel sindacato, che tuttavia si sta attrezzando a rappresentarli mediante organismi specifici, con l'apporto diretto di alcuni di loro in qualità di dirigenti.

Sintomatica di questo progressivo avvicinamento è stata la partecipazione, massiccia in questi ultimi anni, di lavoratori stranieri alle feste del Primo Maggio.


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