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redarrowleft.GIF (53 byte) Letture ottobre 2003  
 

Sarà vero impero? 

C’era quello romano, accettato perché il più forte ma anche rispettato. Poi quello culturale Europeo, che pensa che il Vecchio Continente sia l’unico depositario della verità. Anche e soprattutto nei confronti degli Usa, che invece sono oggi l’Impero dei più ricchi (e armati). Ma c’è anche chi dice che l’unica “superpotenza” rimasta sia la globalizzazione. Ne parlano due libri, di Toni Negri e Jean François Revel. Che abbiamo letto per voi

L’idea di Impero è ritornata di moda. E’ un parola facile da capire e che richiama in tutti, pavlovianamente, l’Impero par excellence, quello romano.

Con la caduta del muro di Berlino del 9 di novembre ’89, la fine della barbarie del socialismo reale (parafrasando una nota rivista di Cornelius Castoriadis intitolata “Socialisme ou barbarie”) lo scenario politico internazionale si è semplificato: in campo è rimasta una sola Superpotenza, anzi l’Hyperpuissance per usare un termine introdotto di recente nell’agone politico da Hubert Vèdrine, ministro degli esteri francese. E’ perciò chiaro che l’accostamento fra le due lontanissime epoche storiche sia apparso facile ai più. Talmente semplice, da dare vita all’attuale proliferazione di saggi, più o meno validi, più o meno basati su un’analisi scientifica della società e della sua struttura economica e sovrastruttura politica, per usare una terminologia marxista oggi passata di moda.

A dare il là alle danze è stato Antonio Negri. Il professore di Dottrina dello Stato nella movimentata facoltà di Scienze Politiche degli anni settanta ha dato alle stampe il suo Empire, scritto a quattro mani con Michael Hardt, e da allora, specie dopo il suo ritorno in Italia, non ha smesso per un secondo di scrivere. Negli ultimi tempi Feltrinelli, Manifestolibri, DeriveeApprodi e Castelvecchio hanno persino incominciato a ripubblicare i suoi libri maledetti, quelli del rogo, che servirono, fra le altre cose, al magistrato Calogero per imbastire le accuse nello storico processo del 7 aprile. Negri è un filosofo illuminato che guarda, ‘rara avis’, al marxismo come strumento di analisi degli scenari futuri, più che come rigida e imbalsamata ortodossia del passato. L‘idea di Impero che emerge dal suo massiccio testo è peraltro ben diversa da quella che si possono immaginare quanti, mi immagino tanti, non hanno fatto lo sforzo intellettuale di leggere il libro, e magari si attengono puramente all’enfatico titolo. L’Impero di Toni Negri non sono gli Usa, ma è il nuovo ordine della globalizzazione, quel complesso potere sovrano che governa il mondo di oggi, che ingloba tutti i settori della vita sociale, politica, economica, in una parola, che riecheggia un vecchio concetto di Foucault, la complessa produzione biopolitica.

“Né gli Usa né alcuno stato nazionale”, dice con tono asseverativo Negri, costituiscono il centro di un nuovo progetto imperialista. D’altronde l’imperialismo, e Negri lo spiega acutamente in un parte storica appositamente dedicata al tema, è qualcosa di superato, di ancorato al vecchio colonialismo di inizio secolo. L’Impero rappresenta già una fase post-imperialista, che si estende nell’intero pianeta,  non conosce barriere, né confini territoriali. Gli stessi vecchi stati nazione vengono travolti e sono totalmente inadeguati ad affrontare la trasformazione in corso. Unica forza in grado di riportare questo processo, che è per Negri in sé positivo e in un certo senso rappresenta il coronamento delle lotte proletarie dei due secoli passati, su un terreno più democratico, usando il concetto in senso assoluto e radicale, cioè spinoziano, è la Multitudo, la forza di resistenza chiamata a costruire un nuovo potere costituente (e qui Negri si riferisce a un suo altro libro, particolarmente interessante, di cui però non avrò modo di parlare in questa sede ).

Al contrario di Negri, di cui ho riassunto in modo indegno ben 430 pagine di illuminanti analisi, altri autori che gravitano nella galassia No-Global sono soliti dipingere a tinte fosche gli Usa, rappresentandoli come il Male Assoluto. Comunque la si pensi non c‘è dubbio che il ruolo che gli Usa hanno svolto sia andato oltre il dovuto e che specie sotto questa amministrazione l’unilateralismo abbia ricevuto un forte impulso. Sia diventato in un certo senso il nuovo ‘modus operandi’, la Weltanschauung della politica made in Usa. Anche in una pubblicazione non estremista come ‘Limes’ l’idea della guerra infinita per corrompere il mondo con il seme democratico è vista con una certa preoccupazione. Dopo Afghanistan e Iraq, toccherà ad esempio anche agli altri stati canaglia alzare bandiera bianca di fronte al ciclone Bush, cioè a  quello che lo stesso Negri ha definito ‘il 18 brumaio di George W.Bush’. L’Iran degli ayatollah eredi di Khomeini,  la Siria accusata di aiutare i terroristi di Hezbollah, i diavoli del male che superano persino Al Qaeda nella classifica della malvagità. Bush sembra in effetti un infante che spalanca gli occhi di fronte al mondo così come faceva il romagnolo Farini quando venne inviato da Cavour nel 1860 a visitare il Sud Italia: “Che barbari! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civili”. E dopo Iran, Siria, Corea, a chi toccherà?

In questo momento, dopo aver superato con fatica, ma anche godimento, i testi di Negri, sono alle prese con un libro di tutt’altro indirizzo ideologico, che mi ha effettivamente sorpreso. Mi sono accostato a Jean François Revel infatti per una ragione che solo a dirlo divento rosso: qualcuno mi ha detto che la figlia del filosofo francese è l’attuale compagna proprio del pluricitato, e ormai settantenne (che forza!) Toni Negri. La sorpresa è stata scoprire un autore a dir poco di destra. Un reazionario che nel suo agile pamphlet  “L’ossessione antiamericana” smonta tutti i, a suo dire incomprensibili, miti che attanagliano l’Europa e la rendono un continente atavico, lontano dalla modernità made in Usa. Se proprio di Impero si deve parlare, fa capire Revel, allora lo si deve fare riferendosi alla cultura europea, in particolar modo francesizzante, che crede di essere unica depositaria della verità e che invece ha come unico suo scopo la demonizzazione di quella che ormai è ‘notre maire à tout’. Insomma ‘guai ai vinti’ e all’infame di volteriana memoria.

Resta da vedere che ruolo giocherà l’Europa nel futuro del mondo. Sempre più succube degli Usa o sempre più alleata partecipe di una partnership paritaria? Il dibattito è più acceso che mai a proposito, e in Italia non è certo una novità importata dalla globalizzazione. Se ne possono rintracciare i prodromi almeno da quel lontano gennaio del ’47 quando, di ritorno da un illuminante viaggio in terra americana, De Gasperi licenziò Togliatti dall’esecutivo e aprì il lungo enigma tutto italiano della gauche di governo.

La guerra all’Iraq ha messo in evidenza come l’Ue sia in realtà frammentata da mille diverse sensibilità e che l’idea di una politica estera comune, aspettando le decisioni di Giscard e compagni, è ben lungi dal materializzarsi,  a meno che  ci si accontenti di Javier Solana nei panni di mister Pesc per tutta la vita. Un fatto è però certo: mentre l’Impero romano, con cui avevo iniziato questa piccola dissertazione, aveva la sua legittimazione derivante da sé stesso e dagli avversari stessi che difficilmente ne mettevano in dubbio l’autorità o ne contestavano la leadership, oggi sono in molti a non accettare di pari grado la nuova Superpotenza e le sue regole politically correct. E l’egemonia, è il piccolo e gobbo Gramsci ad insegnarlo non il superganzo G.W.B., si conquista innanzitutto da un punto di vista culturale. La si ha cioè quando ti viene riconosciuta e  nella sostanza accettata. Altrimenti gli Usa dovranno accontentarsi per sempre di pensarla come Giancarlo Pajetta, il politico più antiamericano del panorama italiano: “Finalmente ho capito cos’è il pluralismo: il fatto che tutti la pensino come me”.

Giuliano Tardivo

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