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Ducati: sì!

Il rosso è un colore che porta bene nel mondo delle competizioni motoristiche, anzi, diciamola tutta, porta molto bene se chi lo indossa è italiano. Dai tempi in cui Enzo Ferrari metteva in campo il puro genio delle sue rosse creazioni e questa scelta cromatica rappresentava l’Italia nei Gran Premi per Nazioni, tutto ciò che fa accomunare il nostro pensiero alla velocità e spesso alla vittoria, ha un alone inconfondibile, che va dal carminio al rubino. Nel prologo del campionato MotoGp la Desmosedici Ducati non si sottrae alla tradizione, facendo letteralmente impazzire i suoi tifosi, sostenitori di questa che potremmo definire la “nazionale rossa a due ruote”, prendendo a prestito l’etimologia dei prototipi di Maranello.

Loris Capirossi, bolognese di un talento che viene dal cuore, e la sua moto, bolognese di una scultura che viene dall’estro e dall’intuito, a sorpresa volano sulla pista di Barcellona lasciando tutti a bocca aperta, distanziando beffardamente i bolidi giapponesi super-miliardari, la loro elettronica sontuosa, i loro telai a stampo unico presso-fuso, i loro motori potentissimi che farebbero invidia ai più nobili orologiai svizzeri.

Un propulsore anticonformista quello Ducati, artigianale, un desmodromico con comando a cascata di ingranaggi ovvero, in parole povere, un complicarsi la vita per non seguire una strada già tracciata e difficilmente superabile con i mezzi a disposizione a Borgo Panigale, ma diretto discendente di un motore vincente in Superbike, che di dispiaceri agli avversari ne ha regalati, quelli sì, in quantità industriale. Un telaio assurdo per i padri della massiccia produzione di serie, fatto di tubi e tralicci saldati uno ad uno, inconcepibile perdita di tempo e spreco di fantasia ingegneristica per chi sforna nel 2003 un prototipo, avendo già pronti i disegni di 150 tecnici per il suo omologo del 2004, del 2005 e forse del 2006.

Una squadra in cui il vecchio slogan del “tutti per uno….” non è vuota retorica, ma un modo di intendere la competizione, un metodo di lavoro ove ogni singolo componente fa parte di una coreografia vincente, piloti compresi: paradossalmente l’applicazione perfetta di un concetto filosofico orientale, condito da molte tagliatelle e Sangiovese e da un rispetto particolare per gli appassionati.

Le prove IRTA sono cosa seria, introducono il campionato, sono l’antipasto che dà l’idea del ristorante che ci ospita: tutti in pista, sulla stessa pista, sei gomme uguali per tutti, con una Bmw da 40.000 Euro in premio al giro più veloce.

Diritti televisivi venduti a mezzo mondo, sponsor in ghingheri, voglia di dimostrare che il lavoro svolto in inverno pagherà, in questo incontro-scontro, in questa unica possibilità di riscontro tra la propria velocità e quella degli altri.

Loris Capirossi quindi, su Ducati, vince la bella Bmw rifilando mezzo secondo ad Alex Barros su Yamaha, otto decimi a Valentino Rossi su Honda ed a Max Biaggi su Honda; il premio come promesso dal pilota di Borgo Rivola, viene regalato a tutti i meccanici, i ragazzi del box che hanno lavorato duramente per portare ai massimi livelli una moto che nessuno si aspettava di trovare al vertice già a Barcellona.

Pochi si aspettavano anche la ex squadra di Max Biaggi al secondo posto, viste le lamentele del pilota l’anno scorso: Barros e la sua decennale esperienza hanno gestito rinnovamenti rilevanti sul progetto M1 e sulla sua scia anche un ottimo debutto di Marco Meandri sempre su Yamaha, fa sperare gli eterni secondi in un risultato finalmente diverso.

I due grandi sconfitti, i due favoriti al titolo, Rossi e Biaggi, paiono comunque tranquilli anche se alle prese con diverse problematiche, in vista della prima gara: Valentino sembra sicuro del fatto suo, ma in rottura progressiva con la squadra giapponese, del cui quadro dirigente ed il modo “robotico” di vivere le corse da esso impostogli, non ha certo buona stima; Max invece cerca di ottimizzare la sua moto chiedendo per ora senza esito le evoluzioni ufficiali, che non gli spetterebbero per contratto, ma che sono ad appannaggio del suo compagno di squadra Ukawa, ingaggiato e messo in pista dalla Honda grazie…..ai quattrini del suo sponsor!

Sembra una battuta, invece è l’ingiustizia del business gestito dalla casa motociclistica più potente del mondo e non è la sola, dato che identica situazione la vive lo spagnolo Sete Gibernau il cui sponsor, Telefonica, paga il mezzo ufficiale a Daijiro Kato con tutte le innovazioni, mentre per l’iberico è disponibile solo la versione 2002 perché Honda altro non gli vuol dare.

Lontani gli altri, mestamente indietro Aprilia e le sue stelle Superbike, Edwards e Haga; inguardabili Kawasaki e Suzuki, smarrite con i loro piloti nei meandri di progetti sbagliati e Proton, con il “guru dell’elettronica” John Barnard in cerca della perfezione ed un lavoro in ritardo di mesi.

Oltre, ben oltre tutti gli appunti possibili sulla giornata sportiva una nota importante: ignorando avvertimenti e “consigli” a favore di un comportamento consono all’avvenimento mediatico e soprattutto defilato da qualsiasi atto dimostrativo, Valentino Rossi ha fatto quello che sentiva, quello che giudicava giusto facesse il numero uno del motociclismo mondiale, quello che il suo carattere gli permette di fare, mandando al diavolo convenzioni e compromessi imposti, prendendosi responsabilità che non lo aiuteranno nei rapporti futuri con la sua dirigenza.

Si è presentato al giro d’avvio delle prove con un casco dal numero 7, in onore dello scomparso campione Barry Sheene, e con impressi i colori dell’iride a larghe bande ed una scritta ben visibile:

”PACE - Fate l’amore, non fate la guerra”.

Che dire: l’uomo Valentino è sicuramente da pole position.

Maurizio Ottomano

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