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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Dicembre 1999


FILM Dicembre/Gennaio 1999-2000

American Beauty {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}  (capolavoro)

Regia: Sam Mendes; Sceneggiatura: Alan Ball; Fotografia: Conrad L. Hall; Montaggio: Tariq Anwar, Christopher Greenbury; Musica: Thomas Newman; Interpreti: Kevin Spacey (Lester Burnham), Annette Bening (Carolyn Burnham), Thora Birch (Jane Burnham), Wes Bentley (Ricky Fitts);Produzione: Alan Ball, Bruce Cohen; USA 1999 – Colore – 121 minuti

Una busta di plastica volteggia tra le foglie cadute di fronte al garage di una villetta monofamiliare. Altre costruzioni praticamente identiche costellano la strada. Altre  strade si intersecano tra loro. Dall’alto una visione di insieme ci fa dimenticare le solitudini, i dolori, le incomprensioni, i dubbi e le ipocrisie. Dall’alto anche la busta di plastica abbandonata non si riesce più a scorgere. In un mondo di dolorosa violenza: quella busta costituisce la cosa più bella mai vista da un ragazzo di quel vicinato. Il suo danzare tra le foglie gialle di un autunno triste come tanti altri è la “bellezza americana” che il regista teatrale Sam Mendes ci propone nel suo esordio cinematografico American Beauty. Una pellicola prodotta dalla Dreamworks di Steven Spielberg e che in poco più di un mese ha incassato circa un milione di dollari al giorno negli USA. Un film durissimo, un ritratto sconvolgente e perfetto dal punto di vista stilistico della famiglia americana medio borghese. Lui (Kevin Spacey) è un padre di famiglia che non riesce a comunicare con la figlia adolescente, un giornalista sull’orlo del licenziamento che sogna un’altra vita. Lei (Annette Bening) è una donna in carriera che tra tecniche di rilassamento e corsi di autostima tradisce il marito con il miglior venditore di case della città. La figlia è una adolescente dubbiosa come tante, con un’amica che gioca a fare la ragazzetta facile con tutti. Il vicino di casa è un marine con una moglie con cui non parla più da anni. Il loro figlio è un maniaco della telecamera vittima della violenza del padre fanatico e militarista, spaccia droga per conquistare una vita lontano dalla sua famiglia. I dirimpettai sono una coppia di yuppies gay. Gli unici personaggi positivi, in un mondo dove la commedia umana di Balzac viene attualizzata e raccontata in maniera molto moderna. American Beauty è un capolavoro. Forse, il film migliore che si poteva sperare da una fine di millennio in cui sono rimasti in pochi coloro che vogliono analizzare accuratamente la nostra società. Mendes ci riesce perfettamente con una pellicola inquietante, dai toni poetici e onirici che pur parlando di storie familiari, inchioda il pubblico alla poltrona come se fosse un thriller. Un’ironia amara, una visione del mondo realistica fin nei minimi dettagli, un film d’autore prodotto da una grande casa di distribuzione per raggiungere il pubblico di tutto il mondo con un messaggio moderno, ma anche molto antico. Scriveva Orazio ne Il Satyricon La vita non è nulla, mentre ti volti già si fa notte.” Questo è più o meno il senso del film in cui l’agitarsi per il lavoro, gli scontri tra persone che si dovrebbero invece amare, il dolore e l’incomprensione gratuiti sono solo un modo stupido per dimenticare quello che davvero conta. E che Kevin Spacey scopre proprio quando non c’è più nulla da fare per salvare. Un film indimenticabile e imperdibile. L’ultimo grande capolavoro di questo decennio.

007 il mondo non basta (The world is not enough) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Pierce Brosnan – Sophie Marceau – Denise Richards – Robert Carlyle – Maria Grazia Cucinotta Regia Michael Apted Anno di produzione 1999 Distribuzione UIP durata 120’

Il diciannovesimo capitolo della saga cinematografica occidentale più lunga della storia del cinema (solo Godzilla vanta ventiquattro film), terzo con protagonista Pierce Brosnan pur rimanendo sostanzialmente fedele agli ai suoi predecessori porta alcuni elementi abbastanza innovativi nella serie. Innanzitutto non sappiamo chi sia il vero nemico di Bond e seguendo un thriller un po’annacquato solo a metà film veniamo a conoscenza della sua identità. Qualcosa di molto diverso dal solito dove tutto veniva rivelato sin dall’inzio. Inoltre, la trama del film è decisamente meno banale e più articolata di quanto ci potremmo attendere sulla carta e in tal senso la regia di Michael Apted dà un buon ritmo all’intera pellicola. Il cast del film – inoltre – è adeguato a raccontare una storia ricca di personaggi e di situazioni diversificate. Mentre le Bond girl sono le splendide Sophie Marceau (l’ambigua Elektra), Maria Grazia Cucinotta (imperdibile la sua recitazione rigida e con un accento tremendo quando parla inglese nella versione originale…) e Denise Richards, il pericoloso nemico di Bond ha il volto e il talento di uno straordinario Robert Carlyle. Al cast dei membri del Servizio Segreto britannico oltre alla fresca di Oscar per la regina di Shakespeare in Love Judi Dench nel ruolo del capo di Bond e di Samantha Bond (il nome è pura coincidenza…)nei panni di Moneypenny si aggiunge l’ex Monthy Python e protagonista de Il pesce di nome Wanda John Cleese.  Sua la parte di R, l’uomo che deve sostituire Q in età di pensionamento, il geniale inventore dei fenomenali gadgets bondiani, interpretato da Desmond Lleweyn unico attore presente in tutte le diciannove pellicole. Un film divertente e convincente in cui Brosnan è pienamente a suo agio nei panni di Bond, rendendolo in maniera adeguata all’arrivo del nuovo millennio. Continuando inoltre a tentare di raccontare il personaggio di 007 in maniera più dark e quindi più vicina alle origini dei romanzi di Fleming. Anche se non beve troppo e non fuma mai, il James Bobd di Brosnan non è eccessivamente ‘politicamente corretto’. Ama, uccide e combatte come sempre per la regina e l’Inghilterra, ma anche per la pioggia di miliardi che sicuramente incasserà in tutto il mondo.

La figlia del generale (The genral’s daughter) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

John Travolta – Madeleine Stowe – James Cromwell Sceneggiatura Christopher Bertolini e William Goldman Regia Simon West Anno di produzione 1999 Distribuzione UIP Durata 116’

Ispirato a una storia vera, La figlia del generale è un thriller molto particolare. Innanzitutto, perché a differenza di tante altre pellicole appartenenti allo stesso genere cinematografico risulta essere tutt’altro che scontato. In secondo luogo, perché i suoi protagonisti principali John Travolta e Madeleine Stowe costituiscono una coppia atipica e di grande classe. Duro e dinamico il primo, sexy e seducente anche per la sua intelligenza la seconda, Travolta e la Stowe rappresentano il duo ideale per confrontarsi con le grettezze di un mondo militare in cui l’omicidio di una donna capitano, figlia di un generale dalle grandi aspirazioni politiche dovrebbe passare in secondo piano, al punto di venire insabbiato per motivi di sicurezza, di segretezza e soprattutto di convenienza. Con James Cromwell (Star Trek Primo Contatto, Deep Impact) nei panni di un granitico generale dell’esercito degli Stati Uniti e una serie di ottimi attori in ruoli secondari (da Timothy Hutton a James Woods) La figlia del generale è una pellicola profondamente antimilitarista, che al di là delle stellette, delle bandiere e degli slogan vuole raccontare senza mezzi termini la difficile vita delle donne soldato in mezzo a commilitoni maschi che spesso si sentono autorizzati a tutto, senza un briciolo di ragione. Palpeggiamenti, stupri, insulti e prevaricazione nel lavoro sono, infatti, il minimo che un ufficiale donna di bella presenza e di grande intelligenza tattica può aspettarsi dai suoi colleghi maschi secondo la storia del film che ispirata a fatti veri, sconvolge con un finale talmente rocambolesco come solo la realtà sa e può offrire. Dopo Il coraggio della verità con Meg Ryan e Denzel Washington ecco un’altra pellicola shock sull’altra faccia della retorica militare dietro alla bandiera a stelle e strisce. Mostrata senza troppi pudori e con molta astuzia in una pellicola dal gran ritmo e dalla regia assolutamente  appassionante come è nello stilea del regista Simon West, già autore dell’esplosivo Con Air.

East is East {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Om Puri – Linda Bassett Sceneggiatura Ayub Khan Din Regia Damien O’ Donnell Anno di produzione 1999 Distribuzione LUCE Durata 100’

L’integrazione mostrata attraverso il punto di vista di coloro che si devono integrare è il nodo di East is East, pellicola britannica che racconta la storia di una famiglia con padre pakistano e madre inglese nei sobborghi di Londra nei primi anni Settanta. Un film dall’umorismo agrodolce incentrato interamente su il gap generazionale che separa il padre dai sette figli. L’uomo che ha ancora un’altra moglie in Pakistan è devotamente e cocciutamente pakistano, perché sa bene di non potere essere inglese. I figli rispettosi dell’educazione paterna e del suo retaggio, guardano a un futuro più ampio in cui i matrimoni non sono contratti dai genitori e in cui ognuno si veste come gli pare. Una pellicola interessante East is east, perché oltre a offrire una prospettiva originale e privilegiata su una realtà spesso trascurata dalla cinematografia europea come quella dell’integrazione delle minoranze asiatiche e africane nella cultura occidentale, presenta un mondo di caseggiati tutti uguali e di periferie cariche di bambini in maniera tutt’altro che banale o scontata. East is east non è solo una commedia. E’, invece, uno spaccato anche morale di un mondo che adesso è stato scavalcato di una generazione e che – perdendo la sua ingenuità originaria – ha conquistato una prima forma di integrazione culturale. Oggi i protagonisti di quella pellicola non ci sono più e i problemi che trenta anni fa potevano incontrare gli immigrati pakistani in Gran Bretagna sono diventati altri. In tal senso il gioco commovente a metà tra l’innocente amarcord e il divertito insistere su vizi e mode di quell’epoca rendono East is east qualcosa di più di una semplice commedia ambientata tra gli immigrati. Questo film che vede protagonista il grande Om Puri in un ruolo complesso e articolato come quello del padre attaccato alla tradizione, è un documento storico su un’epoca di rottura come gli anni Settanta, vissuta da coloro per i quali una rottura con il passato significava anche doversi separare con una tradizione che li legava idealmente con le proprie radici. Un film da non perdere, perché di rara sottigliezza e intelligenza.

Kirikù e la strega Karabà {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Cartoni Animati – Sceneggiatura e Regia Michel Ochelot Anno di produzione 1999 Distribuzione MIKADO Durata 80’

Il cinema d’animazione, soprattutto quello che riguarda i più piccoli, da sempre viene confuso con quello di Walt Disney. In realtà negli ultimi anni, un numero sempre maggiore di produzioni non solo americane, ma anche europee si misura ‘a mani nude’ contro gli eroi di cartone hollywoodiani, spesso come nel caso de La gabbianella e il gatto di Enzo D’Alò riuscendo anche a vincere la sfida con il lungometraggio miliardario disneyano. Quest’anno ad affrontare l’ottimo Tarzan è un altro eroe africano: Kirikù. Bambino di un villaggio che decide di liberare i suoi compaesani dalla schiavitù nei confronti della perfida strega Karabà. Ispirato ai racconti dell’Africa occidentale, la storia del piccolo bimbo nero che si reca dal saggio della montagna per chidergli aiuto contro la malvagia fattucchiera è un modello di intelligenza stilistica e di sensibilità. Con disegni molto particolari che non tradiscono, né tantomeno sviliscono l’anima ‘terzomondista’ della pellicola, Kirikù e la strega Karabà risulta essere – nel suo genere – un vero e proprio gioiello. Accompagnato dalla stupenda musica di Youssou N’Dour, il film ci fa viaggiare verso un universo culturale mitico e di sogno. Un mondo delle favole, lontano dal nostro retaggio occidentale, che ci porta a sfiorare una dimensione quasi archetipica dei personaggi con Kirikù che diventa simile a tanti eroi della letteratura antica da Gilgamesh fino ad arrivare ai ‘nostri’ Hansel e Gretel. Una pellicola non solo per bambini che consolida la speranza di una terza via (magari africana…) per il cinema d’animazione dopo quella americana e quella esclusivamente europea. Con storie come questa contemporaneamente affascinanti e decisamente originali.

Comedian Harmonists {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Ben Becker – Heino Ferch – Ulrich Noethen – Heinrich Schafmeister Sceneggiatura Jurgen Buscher e Klaus Richter Regia Joseph Vilsmaier Anno di produzione 1997 Distribuzione FILMAURO Durata 107’

Dopo Spielberg, dopo il Radu Mihalleanu di Train de vie, dopo il grande cinema degli anni Settanta è difficile fare film realmente significativi sul nazismo. Non perché l’argomento non sia vasto da esplorare attraverso il mezzo cinematografico, bensì per colpa di una difficoltà di fondo a evitare il cliché e lo scontato. Questo fortunatamente non è il caso di Comedian Harmonists, pellicola che presenta invece il vantaggioso pregio di raccontare la follia e il degrado morale del regime hitleriano in maniera del tutto nuova e originale, attraverso fatti piccoli, apparentemente marginali che toccarono i Comedian Harmonists, gruppo canoro realmente esistito a cavallo nei primi anni Trenta dall’enorme successo in tutta Europa. Illuminato da una fotografia straordinaria, questo film lontano dall’essere un  documentario, racconta la storia di sei persone che – ai loro tempi – raggiunsero le vette della popolarità grazie a uno stile ironico, che seguiva le orme dei gruppi soul americani. L’importazione in Germania del modello canoro statunitense, l’adattamento allo spirito e allo humour tedesco fu compiuto da Harry Fromermann, l’ebreo ideatore e leader del gruppo, il primo a presentire i veri intenti del regime nazista. Tagliato di quasi cinquanta minuti rispetto alla versione tedesca, Comedian Harmonists esce sfortunatamente in Italia con due anni di ritardo, raccontandoci il nazismo attraverso le piccole ipocrisie e le grandi crudeltà subite da dei cantanti. Per motivi ideologici, infatti, quegli stessi che fino a solo poco tempo prima erano esaltati e acclamati come dei divi, in breve tempo furono costretti a smettere di cantare per sottostare alle leggi razziste promulgate a Norimberga nel 1934. Partendo dalla considerazione fatta dall’unico sopravvissuto del quintetto, Roman Cycowski (‘Se non fossimo stati costretti a separarci, oggi saremmo più conosciuti dei Beatles) la storia dei Comedian Harmonists, gruppo vocale maschile tedesco composto da cinque voci e un pianoforte, che conquistò il cuore del pubblico, è una cartina di tornasole per offrire un nuovo punto di vista su un momento storico esplosivo e pieno di dolore. Una visione resa ancora più originale dal contrasto stridente tra la follia ideologica e l’alone della fama raggiunta dal gruppo, tra le minacce e i mazzi di fiori, tra i sogni di una vita tranquilla e la dura realtà piena di avversità e timori. Nei sei e poco più anni di attività dei Comedian Harmonists, questi riuscirono a fondere lo spirito della musica popolare tedesca al lato più emozionante dell’anima yiddish. Un momento magico che durò fino a quando i tre componenti ebrei furono costretti a scappare in America dove non conobbero mai più la fortuna avuta in patria. La caratteristica più affascinante del film dedicato a questo gruppo di musica leggera le cui affinità con il nostro presente sono troppo evidenti per essere citate, è quella di una sobrietà assoluta che lo percorre. Un film in cui non vengono narrate le atrocità assolute dei campi di concentramento, ma le piccole mostruosità cui erano sottoposti delle vere e proprie star come quella del nazista che dopo avere negato al gruppo per motivi razziali la possibilità di iscriversi alla camera di Commercio del Reich è lo stesso a chiedere loro un autografo per il nipote. La vergogna raccontata in questo film non è quella assoluta ed enorme della Shoah, bensì quella di piccoli orrori quotidiani. Un piccolo capolavoro impreziosito dai dialoghi tradotti e adattati da Moni Ovaia, un mediatore colto e raffinato che riesce a trasmettere nelle parole pronunciate dai protagonisti l’eco lontana di un’anima ebraica che fa di questa pellicola non solo un omaggio a uno dei fenomeni musicali del Novecento più interessanti e meno conosciuti, ma un monito sottile affinché le tristi vicissitudini subite dai protagonisti non si ripetano mai più.

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Marco Spagnoli

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