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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Novembre 1999


FILM Novembre 1999
Prima parte

Onegin {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Ralph Fiennes – Liv Tyler Sceneggiatura tratta dall’originale diAlksandr Puskin Regia Martha Fiennes Distribuzione IIF Durata 90’

Interessante scarnificazione del testo di Puskin operata dai fratelli Martha e Ralph Fiennes Onegin porta con sé una moderna riflessione sulla passione e sulla grana dei sentimenti che la accompagnano. Onegin è una pellicola molto originale in cui l’opera in versi del poeta russo di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita, trova la sua consacrazione in un film stilisticamente perfetto e che ha due uniche incertezze: quella di usare l’inglese e non il russo nella lettera che Tatiana scrive a Onegin e quella che è l’inespressività tipica di Liv Tyler ad accompagnare uno dei personaggi più importanti della letteratura russa. Un film interessante e ricco di immaginazione in cui l’opera di Puskin conquista l’afflato archetipico grazie a una revisione del testo in chiave molto moderna. Un film essenziale, ma anche denso di ambientazioni intense e di espressioni profonde. Una piccola perla del cinema contemporaneo.

Judas Kiss {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Emma Thompson – Carla Gugino – Alan Rickman Sceneggiatura e Regia Sebastian Gutierrez Anno di produzione 1999 Distribuzione IIF Durata 90’

Non lasciatevi ingannare dai titoli di testa: la partecipazione di Emma Thompson a questo film è ridotta e insignificante. La vera protagonista della pellicola è Carla Gugino, prorompente e sexy attrice già vista in Omicidio in diretta di Brian De Palma. In questo senso Judas Kiss potrebbe costituire una vera ‘sola’ per un pubblico abituato alle interpretazioni straordinarie della Thompson, accompagnata dall’amico e regista Alan Rickman: con questa storia noir con cui i due interpreti britannici sembrano non avere nulla da spartire e la loro partecipazione al film è ridotta davvero a pochi momenti. A parte una buona regia, a parte il fisico della Gugino, a parte una storia intrigante e post – Pulp Judas Kiss non ha niente di veramente eccezionale e convincente. Dialoghi fasulli che sembrano venire fuori dal cinema americano anni Settanta, accompagnati da personaggi al limite della stilizzazione appesantiscono irrimediabilmente il film che spreca le sue buone potenzialità in luoghi comuni qualsiasi peraltro anche male interpretati dai suoi attori. Inspiegabile è la partecipazione di Emma Thompson che non fa altro che sbevazzare caffè per tutta la storia, lasciandosi peraltro fotografare malissimo al punto da sembrare quasi ‘racchia’. Una pellicola strana, ma innocua: un noir dall’andamento abbastanza classico, impreziosito, però, da qualche riuscita variazione sul tema e dalla simpatia molto fisica ispirata dalla recitazione della Gugino.

Amore a prima vista {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Vincenzo Salemme – Mandala Tayde – Carlo Buccirosso – Maurizio Casagrande Sceneggiatura e Regia Vincenzo Salemme Anno di produzione 1999 Durata 90’

La simpatia di Vincenzo Salemme e il suo talento sono innegabili. Dopo L’amico del cuore, dove era un malato posto di fronte al rischio di morire durante un’operazione dall’esito incerto, l’attore napoletano cresciuto artisticamente alla corte di Eduardo De Filippo torna in una divertente commedia in cui è il figlio di un boss della camorra innamoratosi nientedimeno che di un maggiore dei carabinieri. E se nel film precedente era il tema dell’amicizia a dominare la storia, in questa nuova pellicola è l’amore, con la sua follia e il suo cancellare ogni certezza, l’argomento principale. La moglie di un valente ufficiale della Benemerita, perdutamente innamorata del marito, rimane uccisa in un incidente e le sue cornee vengono trapiantate nel giovane malavitoso "camorrista" e "sciupafemmine" che deve sposarsi con la figlia di un Padrino della Cupola siciliana. L’accordo sancirà la pace tra le due famiglie e darà vita a una delle più potenti organizzazioni criminali che la storia del crimine ricordi. Tutto sembra andare bene: le belle donne non mancano, il matrimonio assicurerà al giovane un ruolo chiave nella Mafia del futuro, i soldi scorrono a fiumi, quando - facendo jogging una bella mattina - "il colpo di fulmine" riporta l’antico sguardo della donna morta negli occhi del delinquente, che si innamora all’istante del carabiniere. Di lì una serie di equivoci esilaranti, e un intelligente gioco di humour e ironia sui tanti luoghi comuni che circondano virilità e omosessualità, danno vita a una pellicola irresistibile e molto riuscita. Anche se dobbiamo dire che per molti versi Amore a prima vista risulta inferiore al precedente lavoro di Salemme. Un po’ perché il fascino esplosivo ed ingenuo di Eva Herzigova ha ceduto il passo a una deludente e bamboleggiante Mandala Taide già vista in Fuochi d’artificio di Leonardo Pieraccioni, un po’ perché il grande caratterista Nando Paone è poco convincente e sfruttato male nella parte di un romano vicino di casa scocciatore del carabiniere e un po’ perché i dialoghi serratissimi, ricchi di inventiva e di verve de L’amico del cuore hanno lasciato spazio a qualcosa di meno originale e convincente. Probabilmente ossessionato dalle critiche di coloro che consideravano troppo teatrale il film precedente, Salemme ha voluto puntare l’accento su altri aspetti comici, che, purtroppo rientrano, però, in un cliché. E questo costituisce un errore fatale, perché il comico napoletano riesce meglio quando le sue tipizzazioni della realtà ci fanno sentire più vicina una cinematografia che nasce dalla sua profonda umanità e che parla con i toni civili del cuore di un uomo intelligente. Salemme rimane probabilmente l’ultimo sognatore del nostro cinema comico, e la sua ironia raggiunge il culmine quando sono i sentimenti a costringere i suoi personaggi ad agire in maniera ridicola e a dire battute degne della Commedia dell’arte. Sebbene questo film sia più efficace dal punto di vista strettamente cinematografico, mostrandoci anche il livello raggiunto dalla preparazione registica dello stesso autore, il giocare eccessivamente con maschere e ruoli abusati, già visti più volte nella storia del cinema, ne limita comunque l’originalità. Questo non toglie che il lavoro di Vincenzo Salemme insieme a quello dei suoi inseparabili compagni di avventure Carlo Buccirosso, Maurizio Casagrande e Biagio Izzo sia una delle più belle realtà del nostro cinema. Uno stile assai particolare, una contaminazione tra la commedia e l’incanto sociale della poesia, rende il lavoro di Salemme assolutamente unico, anche in virtù di una sponda teatrale che fa da laboratorio per nuove idee e sperimentazioni artistiche. Speriamo solo che il regista napoletano – in futuro – riesca a rendere le sue storie con la freschezza e l’originalità di chi va dritto per la sua strada, dimenticandosi di chi vorrebbe fargli strizzare l’occhio al cinema "dei nuovi comici". Salemme, infatti, la sa lunga, sono gli altri che dovrebbero imitarlo…

Gli ultimi giorni (Last Days) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Documentario prodotto da Steven Spielberg, Regia e Montaggio James Moll Anno di produzione 1999 Distribuzione MIKADO Durata 80’

La persecuzione da parte dei nazisti di cinque ebrei ungheresi e le loro sofferenze atroci vengono raccontate dai protagonisti in questo film documentario prodotto da Steven Spielberg. Intramezzato da immagini di repertorio e ricostruito nei minimi dettagli, dall’invasione tedesca dell’Ungheria fino ad arrivare alla liberazione dei campi di concentramento da parte dell’esercito alleato, Gli ultimi giorni è una testimonianza e un monito per non dimenticare quello che è accaduto in luoghi dai nomi carichi di dolore come Auschwitz, Buchenwald, Dachau e Bergen Belsen. Partendo dalla tesi che i nazisti avrebbero potuto prolungare la guerra se non avessero speso tante risorse nello sterminio degli ebrei, tutto il film tende a dimostrare in maniera convincente e senza lasciare alcuna ombra di dubbio l’allucinante considerazione che a Hitler interessava più uccidere ogni singolo ebreo che vincere la guerra. Ed è alla luce di questa agghiacciante consapevolezza che tramite le piccole storie dei cinque sopravvissuti all’Olocausto, lo spettatore arriva a conoscere ancora di più le atrocità commesse dalle SS durante la Seconda Guerra Mondiale. Neonati squartati vivi, esseri umani come cavie per esperimenti di laboratorio, assassini, sterilizzazioni seguite a stupri di massa, omicidi, violenze morali e fisiche, bambini picchiati a sangue e scaraventati contro lastre di acciaio e ancora un’enciclopedia di vigliaccheria mista a mostruosità di ogni genere costituiscono la grana del racconto di queste persone, supportato da documenti storici inconfutabili.

L’amante perduto (The lost lover) {Sostituisci con chiocciola}

Ciaran Hinds – Juliet Aubrey Sceneggiatura Sandro Petraglia e Roberto Faenza Regia Roberto Faenza Anno di produzione 1999 Distribuzione MIKADO Durata 110’

Roberto Faenza negli ultimi anni ha subito la maledizione di diventare una sorta di Re Mida al contrario. Il suo tocco tramuta l’oro in qualcosa di grigio e di poco brillante. Era successo per Sostiene Pereira, accade oggi per L’amante perduto tratto dal romanzo dell’israeliano Abraham Yehoshua. Se non fosse, infatti, per le straordinarie musiche composte dal maestro Paolo Buonvino, che donano corpo a una storia tessuta di fragili dialoghi e di situazioni inspiegabili, il film scadrebbe rapidamente nel più facile torpore. Archiviata la regia molto mediocre e ignorata la forzosa ricostruzione storica della vita nell’Israele dei giorni nostri, L’amante perduto è uno spiacevole rimescolio di temi e di situazioni diversi da cui emerge – miracolosamente – la storia dei due ragazzi (lei ebrea, lui arabo) che si innamorano perdutamente all’ombra delle stramberie e delle patetiche evoluzioni sentimentali dei genitori di lei. Il confronto tra i due adolescenti sarebbe stato l’orizzonte su cui strutturare l’intera pellicola, lasciando quasi perdere le disperate ricerche del marito di una donna, inspiegabilmente innamorata di un fragile francese costretto a entrare nell’esercito israeliano. L’ironica freschezza e la tenera relazione dei giovani fa da contraltare al farraginoso e luttuoso rapporto tra moglie e marito che non sanno più cosa dirsi e che riscoprono in maniera feticista, l’amore e il dialogo durante la ricerca dell’amante perduto di lei. Una storia troppo bella e troppo delicatamente civile da raccontare con i toni usati da Faenza e che avrebbe avuto bisogno di una recitazione rarefatta che non scadesse a facili conclusioni politiche con in più le sgradevoli macchiette tipiche di un vaudeville di quart’ordine.

Yellow Submarine {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Cartoni Animati Sceneggiatura Al Brodax – Jack Mendhelson Regia Charles Durning Anno di produzione 1968 Distribuzione UIP Durata 90’

Arriva finalmente nelle sale, anche se con una distribuzione limitata ai cinema d’essai, Yellow Submarine psichedelico cartone animato realizzato nel 1968 e restaurato più di trenta anni dopo per riportare alla luminosità originale gli sfolgoranti colori realizzati per fare da sfondo alla storia ideata sulle canzoni dei Beatles. Un film che come tutti i classici non ha perso lo smalto dell’idea originale e soprattutto una pellicola il cui messaggio – nonostante tutto in maniera molto sorprendente – risulta assolutamente attuale e ancora importante. Le istanze di pace e amore, accompagnate dalla favolosa colonna sonora composta dal gruppo di John Lennon e Paul Mc Cartney sono ancora attuali, nonostante le citazioni più o meno velate agli avvenimenti di trenta anni fa e nonostante il mondo stesso abbia seguito il corso del tempo. Forse, infatti, alcuni riferimenti marcatamente psichedelici agli anni Sessanta potranno fare sorridere, ma quello che è al di fuori di ogni dubbio Yellow Submarine è un film ancora pienamente godibile per quel senso di profonda universalità che si respira al suo interno e per quel sentimento di affascinato rispetto che si prova nei confronti di un vero e proprio monumento della storia della musica pop.

Bowfinger {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Steve Martin – Eddie Murphy – Heather Graham Sceneggiatura Steve Martin Regia Frank Oz Anno di produzione 1999 Distribuzione UIP Durata 98’

Bowfinger è una parodia acida del mondo delle case di produzione hollywoodiane. Se da un lato c’è il regista produttore ambizioso, ma sfortunato come Steve Martin, dall’altro c’è la star bizzosa, sempre sull’orlo di una crisi di nervi interpretata da Eddie Murphy. Dipendente da una setta religiosa come molte celebrità hollywoodiane (chiari i riferimenti a Scientology dei vari Cruise, Kidman e Travolta), Kit Ramsey vede dappertutto cospirazioni anti afroamericane e alieni in agguato. In più ha un fratello scemo (sempre interpretato da Murphy) di cui sembra vergognarsi. Poi c’è Heather Graham nei panni (pochi) della finta ingenua ragazza di provincia disponibile a tutto (proprio tutto…) per arrivare al successo. Tra la pletora di personaggi buffi e irresistibili, quelli che strappano risate una dopo l’altra sono gli appartenenti alla troupe messicana rastrellata da Bowfinger tra una pallottola e l’altra sparata dalla polizia sul confine. I tre peones diventeranno man mano degli esperti cinematografari con tanto di lettura ostentata dei Cahiers du cinema. Un film spensierato Bowfinger. Comicità pura per fare ridere gli spettatori grazie all’enorme talento dei suoi protagonisti e ad alcune trovate davvero geniali. Una pellicola che, forse, non resterà nella storia del cinema, ma nel momento in cui c’è riesce davvero a divertire.

Cielo d’ottobre (October Sky) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Jake Gyllenhall – Chris Cooper – Laura Dern Sceneggiatura Lewis Colick basata sul libro The rocket boys di Homer Hickam Jr. Regia Joe Johnston Anno di produzione 1999 Distribuzione UIP Durata 120’

Nell’Ottobre del 1957 il cielo fu attraversato dal primo Sputnik lanciato in orbita dai sovietici. Il mondo occidentale rimase choccato a sapere che quel pur rudimentale satellite girasse intorno alla Terra indisturbato allungando sul pianeta l’ombra insidiosa della cortina di ferro. Ed e’ dedicata all’atmosfera che si respirava negli anni della Guerra Fredda questa interessantissima pellicola diretta da Joe Johnston, raccontando la storia di un gruppo di ragazzi di un’oscura cittadina mineraria americana che per sfuggire al loro destino segnato di minatori tentano di vincere un concorso scientifico nazionale in grado di garantire loro una borsa di studio all’ universita’. Una pellicola commovente ispirata dall’autobiografia di uno dei responsabili del programma shuttle che ha ricordato nelle sue memorie una storia degna di classici come Furore o Come era verde la mia valle. Un film affascinante in cui i sogni e le frustrazioni di un gruppo di ragazzi si scontra con la dura realta’ in una trama dal sapore epico. La dicotomia e il contrasto insanabile tra cielo e terra, tra doveri e aspirazioni, tra speranze e timori e’ la struttura su cui si fonda questa pellicola piacevole, ricca di umorismo e intelligenza che con grande sensibilita’ racconta una storia vera e dolorosa. Un confronto che diventa anche generazionale segnando il solco tra padri e figli, tra minatori e futuri borghesi. La via delle stelle aperta dallo sputnik in un gelido ottobre di quarantadue anni fa e’ si’ un elemento reale, ma anche metaforico in cui la conquista dello spazio coincide con la soddisfazione di un’esigenza spirituale di andare oltre la propria amara realta’ di figli della working class. Un’idea che non va confusa banalmente come una mera reiterazione dell’abusato sogno americano, bensi’ come la riuscita resa cinematografica di un sogno che appartiene agli adolescenti di tutte le epoche a tutte le latitudini: quello di riuscire a sfuggire la propria realta’, non seguendo piu’ le orme dei padri, magari andando a toccare il cielo non con un dito, bensi’ con un razzo rudimentale che attraverso’ il cielo d’ottobre dell’era della guerra fredda. Cambiando per sempre - sulle orme dello Sputnik e del programma Gemini americano - il rapporto tra l’uomo e il cielo stellato.

American Pie {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Jason Biggs – Chris Klein – Natasha Lyonne Sceneggiatura Adam Herz Regia Paul Weitz Anno di produzione 1999 Distribuzione FILMAURO Durata 98’

Che bravi gli americani: ci fanno sembrare sexy anche le storie di cui sembrava essere protagonista Bombolo. Campione di incassi al botteghino americano, American Pie è, infatti, una pellicola demenziale sui pruriti erotici e sulle tempeste ormonali di alcuni liceali all’ultimo anno. La missione di dovere perdere a tutti i costi la verginità prima di lasciare la scuola per il college è quella che anima tutte le situazioni pateticamente ridicole in cui vengono coinvolti i protagonisti. Una pellicola in cui l’ambientazione alto borghese costituisce la cornice dorata per raccontare le avventure, i dubbi e le speranze di ricchi adolescenti. American Pie non è certo molto migliore di analoghe pellicole italiane e pecorecce degli anni Settanta, magari con protagonista una giovanissima Gloria Guida. Soltanto che una buona regia, unita a un sapiente utilizzo di alcuni piccoli accorgimenti cinematografici (belle ragazze, tecnologie sofisticate, un ambiente lindo e sereno fuori dal tempo) aiuta il film a mantenere un livello accettabile in cui si può arrivare a dimenticare tutto quanto c’è di demenziale e di poco credibile. Non c’è molto da aspettarsi da American Pie se non la possibilità di identificarsi in un momento della vita che tutti quanti hanno attraversato. Con in più la consapevolezza di assistere a una pellicola in cui ci sono momenti davvero riusciti, nonostante l’umorismo che li sostenga sembra il più delle volte nascere dai racconti da bar e dai pettegolezzi telefonici di adolescenti.

The Acid House {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Ewen Bremmer – Kevin McKidd – Maurice Roeves Sceneggiatura Irvin Welsh Regia Paul McGuinan Anno di produzione 1999 Distribuzione FILMAURO Durata 112’

Irvin Welsh, già autore di Trainspotting, ha adattato tre suoi racconti tratti dalla raccolta The Acid House per portare nuovamente sullo schermo le gesta dell’umanità disperata e abbandonata in balia di se stessa e della droga che da sempre popola il suo immaginario letterario. Un film in cui gli acidi e il mondo legato alla tossicodipendenza è in realtà piuttosto un alibi per costruire graffianti storie surreali, ispirate a un neorealismo "acido", specchio appannato della società proletaria scozzese dei nostri giorni. Un mondo raccontato senza mezzi termini, con in più la dolorosa consapevolezza di un abbandono da parte di tutto e di tutti a una legge non scritta della giungla urbana, dove a soccombere non sono solo i più deboli. Una pellicola dai toni surreali dove uno humour drammatico e a tratti macabro serve a mitigare una tensione dolorosa. The Acid House non ha alle sue spalle il talento visionario di un regista del calibro di Danny Boyle e questo – forse – limita le potenzialità della storia dal punto di vista del suo essere dissacrante. Eppure, il film avvalendosi dell’adattamento dei racconti operato nella sceneggiatura dal suo stesso autore, riesce a parlare una lingua figlia dell’inevitabile contaminazione di fine millennio tra cinema e letteratura.

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Marco Spagnoli

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