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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Ottobre 1999


FILM Ottobre 1999
Seconda parte

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Asterix e Obelix contro Cesare {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Christian Clavier – Gerard Depardieu – Roberto Benigni – Letitia Casta Sceneggiatura Gerard Laudier e Claude Zidi Regia Claude Zidi Anno di produzione 1999 Distribuzione Cecchi Gori Durata 110’

Costato circa ottanta miliardi, Asterix e Obelix contro Cesare costituisce la produzione più costosa del cinema europeo. Soldi spesi per gli effetti speciali, ma anche per le circa 1500 comparse, per le ventuno settimane di riprese, per gli ottocento costumi utilizzati. E certo anche per gli attori: Roberto Benigni, Letitia Casta, Gerard Depardieu, Gottfried John e Christian Clavier. Tutte star del cinema internazionale e di oltralpe che seguendo le direttive del regista Claude Zidi hanno portato sullo schermo le gesta dei personaggi realizzati da Rene Goscinny e Albert Uderzo che hanno venduto circa duecentottanta milioni di copie dei trenta albi di Asterix e Obelix pubblicati in settantasette paesi e tradotti in cinquantasette lingue. Il film – come sempre capita ai lungometraggi con attori in carne e ossa costretti a replicare le gesta di figure dei fumetti – è deludente. Nonostante gli ottimi effetti speciali abbiano reso credibile anche dal punto di vista visivo, la storia che ricalca fedelmente un canovaccio distillato da differenti albi disegnati, nonostante la bravura degli attori e nonostante la cura di tutti i dettagli, non riesce a trasporre sullo schermo un umorismo di marca molto, forse troppo francese. Sebbene Benigni aggiunga un tocco molto personale, la stessa comicità che funziona benissimo sulla carta stampata, non riesce a prendere corpo sulla pellicola. Il perché non è difficile da capire: il mezzo cinematografico è diverso da quello cartaceo e quindi questo film (ma in genere nessun film si escludono quelli di Batman) non riesce a replicare il fascino dei disegni. Del resto è anche ovvio che andando dietro ad ogni più piccolo dettaglio, si rischia di perdere di vista l’idea forse troppo coraggiosa di tentare di fare qualcosa di davvero diverso e nuovo. Nonostante tutti gli sforzi, gli Asterix e Obelix in carne e ossa non funzionano come quelli di carta. Un problema che non sarà certamente sfuggito agli autori che avevano tra l’altro avuto l’esempio dei sette lungometraggi a cartoni animati, incapaci anche loro di trasporre al cinema il successo delle avventure degli irriducibili Galli contro i romani. Ma visto che questo film è puramente un’operazione commerciale di qualità e sulla scia dell’enorme successo avuto da questa pellicola in Francia e negli altri paesi europei dove è già uscita, le considerazioni riferite all’inevitabile paragone con il fumetto lasciano il tempo che trovano. La curiosità dei fans solleticata e vezzeggiata da un notevole battage pubblicitario, il fascino straordinario di Letitia Casta e la simpatia di Depardieu e Benigni (che tra l’altro è anche coproduttore della pellicola con la sua casa di produzione Melampo) faranno sì che questo film, spesso slegato e con momenti di vera noia, possa essere indirizzato più verso un pubblico di bambini (le innocenti vittime finali delle incertezze degli sceneggiatori e dei registi) che verso un pubblico di adulti. Sperando – e la storia lo lascia presagire – che a nessuno venga in mente l’idea di un seguito.

 

Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Cecilia Roth – Marisa Paredes – Penelope Cruz – Candela Pena – Antonia San Juan Sceneggiatura e Regia Pedro Almodovar Anno di produzione 1999 Distribuzione Cecchi Gori Durata 114’

Tutto su mia madre è un moderno melodramma, dove Pedro Almodovar esplora il campo minato dell’istituzione familiare alla fine del Millennio. Una riflessione dolorosa e a tratti accorata, piena di colpi di scena e densa di situazioni e avvenimenti tramite i quali, è in grado di offrire al pubblico la prospettiva di una nuova normalità. Una consuetudine rinnovata, nata sulle ceneri dell’accezione che l’aggettivo "normale" ha sempre avuto per quello che riguarda i rapporti interpersonali. Nata dalla necessità della finzione e dal rifiuto dell’incompatibilità dei caratteri, la famiglia che ci mostra Almodovar è quella dove sono sempre e comunque solo i veri sentimenti a trionfare. Lontano dai perbenismi e superati i vecchi vincoli matriarcali e patriarcali, il mondo sul cui sfondo si muovono i personaggi di Tutto su mia madre è profondamente cambiato. La polverizzazione perfino della famiglia mono nucleare ha lasciato posto a un’entità nuova e per il momento informe dove ha spazio chiunque lo voglia e in cui ognuno ha il ruolo che si sceglie. Contro l’emarginazione, il machismo e i luoghi comuni, l’utopia almodovariana in cui è solo dagli sconosciuti che ti puoi aspettare del bene, è in grado di dare vita a una pellicola indimenticabile e che si potrebbe a ragione considerare come il capolavoro per antonomasia del cineasta spagnolo. Un trionfo della civiltà in cui tutti gli elementi chiave del melodramma, in pieno contrasto con il genere telenovela, vengono riutilizzati e reinventati per proporre una nuova arte, capace di farci riflettere sul significato di parole come maternità e amore. Una pellicola riuscita sia per l’acume e la cura con cui è stata scritta dallo stesso regista la storia che ha dato vita al film, sia per la grande forza espressiva dei suoi interpreti. Tutte attrici bravissime, ottime protagoniste di una delle più belle pellicole di sempre dedicata alle donne e all’universo femminile in piena espansione nel nostro presente.

 

La guerra degli Antò {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Flavio Pistilli – Regina Orioli – Federico di Flauro Sceneggiatura Domenico Starnone – Stefano Rulli Regia Riccardo Milani Distribuzione Cecchi Gori Durata 100’

Scritto con grande umorismo dall’ex professore Domenico Starnone insieme al famoso sceneggiatore Stefano Rulli, il film riesce a mostrare con semplicità vizi, ossessioni e ideali di un gruppo di ragazzi, attori non professionisti che – sostanzialmente – interpretano loro stessi calati nei panni di quattro punk di una località marina sulla costa adriatica. Il film diretto da Riccardo Milani, già autore del sottovalutato Auguri Professore raccontando lo scherzo nei confronti di due dei ragazzi, cui viene inviata una finta cartolina di leva per partecipare alla guerra del golfo del 1991, si propone come una parabola antimilitarista e un’analisi divertita e divertente degli ideali umanitari e pacifisti di una generazione di giovani. Eppure, le cose da raccontare sono tante, gli elementi proposti dal regista forse troppi e così la storia si complica irrimediabilmente, lasciandosi sfuggire uno dopo l’altro gli spunti per affrontare con maggiore profondità e umorismo tempi e situazioni comiche. Quello che proprio non va ne La guerra degli Antò è il fatto che non si capisce mai dove questo film voglia realmente "andare a parare" e quale sia – poi – il messaggio che viene lanciato nei confronti del pubblico. Negli anni settanta si sarebbe chiesto al regista: "Che cosa ha voluto dire con questa opera?" Un’idea carina e originale, infatti, in genere non è mai in grado di fornire da sola forma e qualità a una storia altamente sconnessa, cui peraltro manca un finale degno di questo nome. Bravi sono tutti i giovani protagonisti (ma è vera recitazione questa?) e discreti sono Regina Orioli con Flavio Pistilli, che nel precedente film di Milani aveva esordito nel ruolo dello sfortunato fidanzato di Claudia Pandolfi. Ma questo non basta per dare vero spessore al film, che comunque arriva più volte a strapparci risate divertite e convinte per le buffe situazioni in cui sono coinvolti gli attori. Un film incompleto, eccessivamente all’acqua di rose per un autore come Milani che ha già dimostrato di poter fare molto di più.

 

Lock & Stock : pazzi scatenati (Lock, stock & two smoking barrels) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Jason Fleming - Dexter Fletcher - Sting Sceneggiatura e Regia Guy Ritchie Distribuzione 1998 Anno di produzione 1998 Durata 106’

Campione di incassi in Gran Bretagna e negli USA, esce con più di un anno e mezzo di ritardo anche da noi Lock & Stock giustamente considerato dalla critica anglosassone come un capolavoro di ritmo e intelligenza. Giudizio che va sottoscritto in pieno, visto e considerato che questa pellicola diretta dal regista esordiente Guy Ritchie costituisce davvero qualcosa di nuovo all’interno dell’asfittico panorama del cinema europeo d’azione. Un buffo incrocio tra Pulp Fiction e Trainspotting questa divertentissima pellicola, girata con grande intelligenza e stile da un regista appena trentenne. Una sorta di intrigante rivisitazione moderna e pungente del genere cinematografico legato alla black comedy di stampo marcatamente britannico. Un film ambientato tra piccole bande costituite da criminali più o meno pericolosi del West End londinese che in una serie di inseguimenti indiavolati e sparatorie dal tono esilarante, diverte il pubblico fino a tramortirlo con una serie di situazioni forse non nuovissime, che però vengono rese in maniera letteralmente strepitosa sia dal punto di vista stilistico che da quello della trama. Da annotare inoltre il riuscito cameo di Sting nella parte del padre di uno dei ragazzi coinvolti nella partita di carte truccata in cui arrivano a perdere qualcosa come mezzo miliardo di lire, che dovranno restituire a un boss della malavita londinese.

 

Cruel Intentions {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Ryanne Philippe – Sarah Michelle Gellar – Reese Whiterspoon Sceneggiatura e Regia Roger Kumble basata sul romanzo epistolare di Chordelos de Laclois "Le relazioni pericolose" Anno di produzione 1999 Distribuzione Cecchi Gori Durata

Il famoso romanzo epistolare di Chordelos De Laclois Le relazioni pericolose rivive in questo suo riuscito e altamente ironico adattamento cinematografico, quarto dopo i film diretti da Roger Vadim, Milos Forman e Stephen Frears. Una versione post adolescenziale ambientata tra gli annoiati rampolli delle famiglie più facoltose degli Stati Uniti, che aggiornando ai giorni nostri vizi e pudori del romanzo di ambientazione settecentesca, ne sfrutta in pieno le potenzialità sensuali per offrire un corrosivo e divertente ritratto della vita erotica dei giovani ricchi americani nei loro colleges esclusivi. Quello che però più stupisce favorevolmente di Cruel Intentions è la straordinaria recitazione dei giovani interpreti con la conferma dei nomi di Ryane Philippe e Sarah Michelle Gellar come quelli di due attori di riferimento della nuova Hollywood. Senza esitazione, con un’interpretazione fondata sull’espressività capace di mostrare in maniera convincente sentimenti diversi e senza dimenticare un’onnipresente componente sensuale quasi da attori consumati, i due, insieme alla bella (e per ragioni di copione) pudica Reese Whiterspoon, formano un terzetto perfetto e ben assortito. Con poco o niente da invidiare agli straordinari John Malcovich, Michelle Pfeiffer e Glenn Close della più riuscita e fedele trasposizione cinematografica di Stephen Frears. E se il lusso della Parigi del secolo dei Lumi ha lasciato il posto a una altrettanto ricca ambientazione tra i grattacieli e le sontuose ville di campagna dello stato di New York, il montaggio, la musica, la regia e la sceneggiatura di Cruel Intentions reinventano in maniera libera, anche se abbastanza fedele la storia puntando soprattutto a divertire e a sottolineare l’aspetto lussurioso e libertino del testo originale. E proprio come nel libro (e soprattutto come nel film di Frears) nel finale trionfano l’amore e la vendetta, dimenticandosi – grazie a Dio – per una volta il politicamente corretto e trasformando la donna vittima e innamorata in un’eroina post femminista ed emancipata. Un grande film, da non considerare affatto come una semplice pellicola generazionale. Cruel Intentions è, infatti, un intelligente variazione sul tema, sexy e molto anni Novanta che piace soprattutto per la cura dei dettagli e per l’assenza assoluta di qualsiasi sbavatura o errore.

 

Prima del tramonto {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Said Taghmaoui – Vincenzo Peluso – Ninni Bruschetta – Gigi Savoia Sceneggiatura Eugenio Melloni e Stefano Incerti Regia Stefano Incerti Anno di produzione 1999 Distribuzione MEDUSA Durata 90’

Prima del tramonto è una pellicola coinvolgente e ben costruita, che presenta però un unico e macroscopico difetto: la trama e i suoi personaggi non sono mai all’altezza della loro resa cinematografica. E questo capita, purtroppo, non perché la storia del giovane marocchino che abbandona sull’altare la futura sposa, figlia di un boss mafioso non venga resa con il pathos dovuto. Bensì, perché oltre a costituire un presupposto poco credibile che la mafia lasci sposare qualche membro di una sua famiglia a un extracomunitario, sono proprio le azioni del giovane disperato a non riuscire a convincere. Anziché scappare subito, infatti, l’uomo si rifugia per una notte d’amore con l’affascinante madre (anche lei araba) di suo figlio, poi scappa, ci ripensa, torna indietro e poi fugge ancora. Ma al di là della storia, che ovviamente conta tantissimo e alla fine riesce a inficiare il giudizio sul film, quello che sorprende di Prima del tramonto è la cornice costruita intorno alle mosse del giovane africano interpretato dal protagonista de L’odio e di Ideus Kinky Said Taghmaoui. Ambientato in una Sicilia durissima, il film tesse la tela di tante piccole storie diverse, che mostrano lo spaccato di una società moderna alle prese con i miti di benessere (propri e altrui) confrontati con l’evoluzione di un tessuto sociale malato e destinato all’autodistruzione. Una tela sottile e astuta che guida lo spettatore dritto verso il finale metaforico e realista del film, in cui lo scontro tra tutto e tutti diventa irrefrenabile e senza quartiere. Siciliani contro albanesi, il marocchino contro i mafiosi, e ancora lo stesso giovane contro alcuni piccoli borghesi fintamente perbene disposti a tutto pur di difendere il loro gruzzolo. Insomma, Prima del tramonto è il racconto di una giornata lacerante ed esplosiva, in cui l’universo raccontato sembra deflagrare in una cieca e violenta fiammata d’odio, alimentata da rancori più o meno sopiti. Una pellicola costruita con intelligenza e passione, dove ogni inquadratura propone un acuto e ironico contraddittorio tra lo spettatore e i protagonisti. Un film dal sapore quasi americano dove la Sicilia può ricordare i confini del Messico o della California. Un doloroso western moderno e nostrano, in cui l’elemento umano prende il sopravvento su quello narrativo, forzando la mano del regista e trasformando malamente quello che altrimenti avrebbe potuto essere uno dei migliori film degli ultimi venti anni, arrivando – ahimè – a peggiorarlo irrimediabilmente.

 

Il viaggio di Felicia (Felicia’s Journey) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Bob Hoskins – Elaine Cassidy Sceneggiatura e Regia Atom Egoyan Anno di produzione 1999 Distribuzione BIM Durata 116’

Atom Egoyan, autore di origine armena cresciuto in Canada, mette a frutto tutta la sua abilità come regista di alcuni episodi di Alfred Hitchcock presenta per realizzare una pellicola che del maestro del brivido coglie in pieno l’eredità. Innanzitutto la storia che viene raccontata è essenzialmente un thriller di vecchio stampo dove con graffiante ironia e una compassionevole amarezza vengono raccontati i caratteri e i drammi dei suoi protagonisti. Innanzitutto Hilditch, un uomo irrimediabilmente sospeso tra il passato trascorso al fianco di una madre possessiva, diva della ricette in TV e un presente di solitudine, interrotto solo dall’ ‘hobby’ di conoscere ragazze disperate per "metterle a riposo" per sempre. Poi Felicia, un’ingenua ragazza irlandese scappata di casa, perché messa incinta da un coetaneo inglese e quindi ripudiata dalla famiglia per motivi politici. L’incontro tra i due sconvolge la vita di entrambi e come in ogni thriller che si rispetti solo all’ultimo si saprà se la vittima riuscirà a sfuggire il suo compassato carnefice. E a questa impalcatura tipicamente, ma non pedissequamente alla Hitchcock, Egoyan aggiunge una personalissima regia emozionante e ricca di tensione, dalle inquadrature oniriche, che esalta la recitazione degli attori. Straordinari tutti quanti con un Bob Hoskins straordinario. L’interpretazione del protagonista di pellicole come Mona Lisa e Chi ha incastrato Roger Rabbit? Riesce, infatti, letteralmente a stupirci e a coinvolgerci perfettamente nella psiche di un uomo che uccide, ma è anche lui una vittima. Un film davvero notevole questo di Atom Egoyan, regista acclamato per Il dolce domani, perché oltre a rendere assolutamente innovativa una storia non eccessivamente originale, è riuscito a ricostruire il binomio tra genere thriller e cinema d’autore. Dando così vita a un’opera imperdibile, in cui troviamo rediviva l’eredità cinematografica e culturale lasciataci da Alfred Hitchcock. Il viaggio di Felicia è un omaggio straordinario all’opera del grande maestro e una speranza per il cinema del futuro.

 

Autunno #

Nina di Majo – Giovanni Bruno – Francesca Caracciolo – Marco Mario de Notaris Sceneggiatura e Regia Nina di Majo Anno di produzione 1999 Distribuzione BIM Durata 100’

Ecce bombo vent’anni dopo e ambientato a Napoli. Questo – in estrema sintesi – Autunno scritto e diretto da Nina di Majo, napoletana ventiquattrenne, vincitrice del Sacher Festival che a Nanni Moretti sembrerebbe avere davvero dato il cuore. Un film noioso, spesso inconcludente, che narrando la dimensione esistenziale di alcuni universitari napoletani, vorrebbe essere un omaggio alle tematiche morettiane e – contemporaneamente – una riflessione ironica sulla gioventù e su un certo perbenismo borghese. Nonostante la cura per i dettagli e una certa autonomia espressiva, Autunno delude, perché è un film vecchio e sostanzialmente già visto. Un film spurio, dunque, dove gli attori tutti giovani e tutti sconosciuti a parte il grande Moni Ovadia nel ruolo del padre dell’autrice - attrice, non riescono mai davvero a coinvolgere il pubblico nelle proprie nevrosi e ossessioni. Una pellicola rigidamente borghese pur nell’opposizione (generazionale e di maniera) alla borghesia stessa. Un film d’altri tempi che sarebbe dovuto rimanere un’ottima, ma abusata esercitazione di stile.

 

Entrapment {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Sean Connery – Catherine Zeta Jones – Wing Rhames Sceneggiatura Ronald Bass e Michael Hertzberg Regia John Amiel Anno di produzione 1999 Distribuzione MEDUSA Durata 118’

Entrapment è un film un d’azione. "Troppo" d’azione e "solo" d’azione. A parte la storia rocambolesca di un ladro e di un’avvenente agente delle assicurazioni che decidono – sfruttando il Millennium Bug di una banca orientale – di rubare otto miliardi di dollari, a parte il fascino acrobatico di Catherine Zeta Jones e l’inossidabile sex appeal di Sean Connery non c’è davvero altro da annoverare che non si sia già visto in decine di altre pellicole. Entrapment risulta a tratti un po’ noioso. Sebbene la sceneggiatura sia molto curata e i due attori principali riescano a creare tra loro una fantastica alchimia interpretativa, il film manca di un vero e proprio humour di fondo, relegando le battute presenti nella pellicola ad una sorta di cliché cui neppure l’avvenenza e l’epidermica simpatia degli attori riesce davvero a sfuggire. Una pellicola esteticamente perfetta, cucita e ritagliata con arte sulla pelle dei due interpreti che solleticano con audacia i sogni concupiscienti degli spettatori di entrambi i sessi. Ma anche una scatola vuota, incapace di distaccarsi con qualcosa di innovativo e interessante. Un tentativo, del resto, di molto difficile riuscita, visto e considerato i numerosi aspetti preclusi dalla produzione alla sceneggiatura. Vietato per raggiunti limiti d’età l’insistere sull’aspetto legato alla storia d’amore e reso proibitivo (in nome del politically correct) il versante erotico della relazione, restava, infatti, solo la possibilità di insistere su un’ambiguità di fondo basata su un possibile tradimento di natura poliziesca. Qualcosa di non molto riuscito e francamente deludente nella sua marcata prevedibilità.

 

Grey Owl {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Pierce Brosnan – Annie Galipeau Sceneggiatura William Nicholson Regia Richard Attenborough Anno di produzione 1999 Distribuzione CDI Durata 117’

Ha una struttura e un sapore vagamente retrò la nuova pellicola diretta da Richard Attenborough, vincitore di numerosi premi Oscar con Gandhi e autore presente da oltre sessanta anni sulla ribalta cinematografica. Un film che nonostante si discosti abbastanza dal manicheo modello disneyano dei buoni e dei cattivi, cade nell’errore di proporre la storia di Gufo Grigio, uno dei primi ecologisti, come una metafora catartica vagamente passita della nostra modernità. Pecca concettuale che limita notevolmente l’efficacia del messaggio contenuto all’interno di questo film. Un’opera biografica in cui il rigido Pierce Brosnan riesce a prestare il corpo, ma non l’anima all’indiano che lottò fino alla sua morte avvenuta nel 1938 per fermare lo sterminio di castori in Canada e per tentare di convincere il governo britannico a sospendere il disboscamento selvaggio della regione dei grandi laghi. Uno dei primi uomini a parlare di rischi per la natura, di danni ambientali e di salvaguardia del nostro habitat. Un ecologista ante litteram dall’affascinante vissuto, considerato che in realtà Gufo grigio non era un pellerossa, bensì un inglese nato ad Hastings, da sempre innamorato della cultura indiana al punto di arrivare a spacciarsi come un mezzo sangue figlio di uno scozzese e di un’apache. Una pellicola che sembra stilisticamente appartenere agli anni Sessanta e che dimostra – per gusto e scelte narrative – i settantasei anni del suo regista. Detto questo Grey Owl è anche e soprattutto un film che va visto dagli adulti e fatto vedere ai bambini per il suo contenuto dai toni, invece, molto attuali che porta alla nostra attenzione tutti i problemi legati alla Natura, alla tutela del territorio e alla salvaguardia dei nostri amici animali. Commoventi e toccanti sono le scene dei piccoli castori che piangono come neonati e proprio come bambini si fidano ciecamente dell’essere umano che li adotta. Qui il regista con un tocco che ricorda alcuni indimenticabili classici del passato, esalta il contrasto tra la natura incontaminata e silenziosa e la puzzolente civilizzazione piena si smog (ed eravamo solo negli anni Trenta…) Grey Owl potrà non piacere per il suo essere datato, ma va va in ogni caso apprezzato per l’originalità della sua storia e per la forza e la portata del suo messaggio ecologista. Un film che nel raccontare l’assurda vita di un europeo che volle diventare a tutti i costi un indiano, commuove per la dimensione profondamente umana dei suoi personaggi mostrando come il valore delle idee possa arrivare a scavalcare qualsiasi steccato e convenzione. Come dice il saggio capo tribù che ridendo riconosce nell’indiano più famoso del mondo, qualcuno che non appartiene al suo popolo: "La nobiltà delle nostre convinzioni ci fa diventare ciò che sogniamo di essere." Un invito a considerare i nostri ideali come uno sprone per fare quel che è giusto compiere in questo mondo. Come la protezione degli animali e la salvaguardia della Natura. Un’azione resa ancor più magnanima dal fatto che essere ecologisti significa proteggere chi non si può difendere e rinsaldare la catena che lega tra loro le generazioni uomini ed animali. Qualcosa che Gufo Grigio sapeva bene già più di ottanta anni fa.

 

Il tredicesimo guerriero (The 13th warrior) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Antonio Banderas – Vladimir Kulich – Omar Sharif Sceneggiatura Michael Crichton Regia John McTiernan Anno di produzione 1999 Distribuzione Buena Vista International Durata 102’

Cosa succede quando un autore affermato come Michael Crichton decide di lavorare fianco a fianco con uno dei registi di film d’azione più quotati di Hollywood come John McTiernan? Il caos. Una situazione che fortunatamente non costituisce la norma, ma che può arrivare facilmente a verificarsi quando due geni abituati ad avere il controllo totale del proprio lavoro, per necessità o per contratto, devono arrivare a spartirsi le competenze. Una battaglia di ego, mai confermata ufficialmente, ma che si arriva facilmente a percepire in questa scialba pellicola che è Il tredicesimo guerriero. Saga nordica rivista e corretta in salsa hollywoodiana, dove Antonio Banderas è un guerriero arabo spedito appresso a dodici vichinghi scelti dal Fato per sconfiggere dei misteriosi mangiatori di morti. Detto questo, nonostante la pochezza del risultato finale, pieno di incongruenze e di punti davvero non chiari che lo fanno assomigliare a uno dei tanti film di stampo mitologico in technicolor, qualcosa di molto simile a Conan il barbaro con Arnold Schwarzenegger, Il tredicesimo guerriero possiede anche tanti notevolissimi pregi. Innanzitutto la regia del grande McTiernan, con inquadrature mozzafiato capaci di dare una veste emozionante a una storia trita e ritrita sostenuta, però, da un ritmo battente che fa trascorrere la pellicola in un battibaleno. Poi, il rovescio fortunato della medaglia è che dimenticando i toni roboanti con cui vengono annunciati i nomi degli autori, Il tredicesimo guerriero risulta essere un film divertente e distensivo, se si riesce a non porsi troppe domande e a non sforzarsi troppo nel ricordare in quale altra pellicola si sono potute vedere di già determinate situazioni e circostanze. Del resto lo straordinario talento di McTiernan fa sì che anche i momenti più scontati, acquistino un fascino particolare proprio per l’assoluta originalità della sua direzione. Insomma, una pellicola deludente che può, però, sorprendentemente piacere a patto di non porsi davvero troppi problemi su chi siano poi questi mangiatori di morti e che cosa diavolo vogliano. Da dove vengano e perché, poi, si comportano così malvagiamente. La controparte è che i buoni interpretati dai biondi normanni con il tredicesimo guerriero Banderas sono davvero dei simpaticoni buonissimi. Al punto che in finale il film sembra quasi un western epico e medievale sullo scontro eterno tra Bene e Male. Nulla di nuovo – a parte lo stile – sotto il freddo sole del Nord Europa.

 

Judy Berlin {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Barbara Barrie - Bob Dishy - Edie Falco- Aaron Harnick - Madeline Kahn Sceneggiatura e Regia Eric Mendhelsson Anno di produzione 1998 Distribuzione K films Durata 100’

Premio per la miglior regia al Sundance Festival del 1998, Judy Berlin è un film interessante e molto originale che partendo dalla prospettiva della provincia americana si allarga a macchia d’olio fino a toccare e analizzare tematiche esistenziali universali. Girato in un bianco e nero che ricorda le foto dei settimanali anni Cinquanta il film diretto dal regista esordiente Eric Mendhelsson è nato per raccontare in maniera poetica la vita di alcuni abitanti della provincia americana, le cui esistenze vengono messe alla prova da una strana eclisse che sembra non finire mai. Una sorta di vuoto spazio temporale che consente alle persone di confrontarsi tra loro, interrogandosi inaspettatamente sul senso delle loro vite. Una pellicola dai toni e dall’andamento molto lirico in cui il confronto tra le persone serve per comprendere l’importanza del dialogo tra le persone e la necessità dello scambio. Un film che pur sfruttando i toni della commedia, offre al pubblico una riflessione profonda sulla nostra modernità con tutte le sue menzogne e le sue incertezze. La sua sensibilità profonda porta lo spettatore ad immedesimarsi nei dubbi e nelle debolezze che appartengono a tutti i personaggi, se si eccettua proprio colei che dà il nome al film: Judy Berlin, una ragazza forte, dalle idee chiare, che disillusa dalla vita è determinata a crearsi con le sue mani un’altra esistenza, anche se ciò la obbligherà a scommettere sul proprio futuro. Incurante dell’eclisse è lei a guardare più lontano di tutti quelli che la circondano. Ambientato in una piccola comunità ebraica, il film racconta una storia di provincia intrisa di tematiche che non riguardano solo un unico gruppo di persone. Una pellicola interessante e convincente, impreziosita da una regia attenta e molto riuscita, che tiene sempre desto il filo dell’attenzione del pubblico sebbene l’arguzia della storia sia molto sottile e tenue è la trama emotiva che lega i personaggi tra loro.

 

Getting to know you {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Mark Blum – Zach Braff – Leo Burmester Sceneggiatura Lisanne e Tristine Skyler Regia Lisanne Skyler Anno di produzione 1999 Distribuzione K films Durata 94’

Una stazione di autobus diventa un luogo sospeso lontano dal tempo e dal resto del mondo, dove attraverso il racconto di due adolescenti, la vita delle persone viene mostrata e esaminata in maniera molto umana, commovente e drammatica. Ispirato ai racconti della scrittrice americana Joyce Carol Oates, Getting to know you è una pellicola indipendente che colpisce per la sua intelligenza e arguzia. Attraverso un gioco di specchi più o meno consapevole, un ragazzo e una ragazza incontratisi casualmente, parlando di loro stessi, fingono di essere altre persone. Solo che attraverso una sorta di illazioni, più o meno confermate da dettagli e da frammenti di conversazione captati casualmente, incominciano a riflettere sugli altri passeggeri in attesa del loro autobus. E tramite il racconto, pian piano anche le loro vere storie personali verranno a galla, andando a formare le basi per quello scambio di confidenze, che sta alla base di tutti gli incontri importanti della nostra vita. Un’opera riuscita e assai diretta, che mostra la gente comune come vittima di una modernità confusa e incerta, la cui vita assurge a un paradigma drammatico della difficoltà dell’esistenza. Un racconto di storie che diventano una specie di autoanalisi, con tanto di catarsi finale per i protagonisti e per il pubblico in sala. Un film sorprendentemente attuale, che lontano dai fasti e dall’irrealtà dei personaggi in perenne fuga nel cinema cosiddetto d’evasione, ci costringe a guardarci riflessi negli occhi di un adolescente con tutto il nostro carico di debolezze, di vizi e di incertezze. Dopo questo film, entrare in un luogo pubblico sarà molto diverso.

Marco Spagnoli

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