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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Ottobre 1999


FILM Ottobre 1999
Prima parte

Eyes Wide Shut {Sostituisci con chiocciola}

Tom Cruise – Nicole Kidman - Sidney Pollack Sceneggiatura Frederic Raphael e Stanley Kubrick tratta dalla novella di Arthur Schnitzler "Doppio Sogno" Regia Stanley Kubrick Distribuzione Warner Bros. Durata 165’

Finalmente arriva nei nostri cinema Eyes Wide Shut ultimo controverso e probabilmente incompleto film di Stanley Kubrick, reduce dall’insuccesso al botteghino americano dove in sole cinque settimane è uscito dalla classifica dei primi venticinque film più visti con un "magro" incasso di sessanta milioni di dollari capace appena di coprire le spese di realizzazione. Accolto con entusiasmo dalla critica italiana come al solito assai facilona, Eyes Wide Shut - la pellicola di cui si sapeva tutto e il contrario di tutto - è in realtà un film vecchio, in cui ai toni di una grande regia corrisponde una storia stagionata e improbabile, impregnata di una psicologia da strapazzo. Adattamento del romanzo di Arthur Schnitzler Doppio Sogno, Eyes Wide Shut è un’ opera mediocre dove Nicole Kidman e Tom Cruise non riescono mai a coinvolgere lo spettatore nelle loro ossessioni da manuale di crisi della coppia, e dove la gelosia e il dubbio rimangono congelati in una cappa fredda e anonima. Senza una passione degna davvero di questo nome, il resto è tutto uno sconclusionato contorno dove il gusto estetico di Kubrick si diletta in orge retrò ed in incontri noiosamente conturbanti sulla falsariga del romanzo originale che non solo non viene svecchiato, ma che viene addirittura imbolsito in una rilettura newyorchese all’acqua di rose. Se i protagonisti sono a dir poco pessimi (se questo è il risultato dopo ottanta ciak per ogni scena…) ancor peggio si può dire di una storia affascinante resa in maniera obsoleta, tutt’altro che attuale che fa assomigliare Eyes Wide Shut più a un noir degli anni Quaranta che a una pellicola moderna e originale. Resta da chiederci solo se questo è il film che avremmo visto se Kubrick fosse ancora vivo e se ci saremmo attesi tanto da un’opera che nel bene o nel male è già entrata nella storia del cinema. Del resto i se non possono cambiare il risultato finale che rende questo film uno come tanti, su cui assolutamente – con il senno di poi – non valeva la pena sprecare tante parole. Sicuramente una pellicola non all’altezza dell’aspettativa suscitata e certamente un film inferiore alle altre opere di Kubrick. Quello che è fuori di dubbio è che Eyes Wide Shut paga lo scotto dell’isolamento del suo autore che fa dire ai suoi personaggi frasi assurde come : "Se voi uomini solo sapeste…" tipiche di una persona incapace di accorgersi quanto il mondo esterno sia cambiato nel corso degli anni. L’ultimo film di un regista che non girava pellicole da dodici anni, e che lungi dall’essere un capolavoro si presenta agli spettatori come un festa per gli occhi, una mera esercitazione estetica con un’anima stantia e protagonisti assolutamente da dimenticare: se si eccettuano gli straordinari Rade Serbedzjia, Sidney Pollack e Lele Sobieski prigionieri anche loro del genio di Kubrick al suo canto del cigno.

 

Wild Wild West {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Will Smith – Kevin Kline – Salma Hayek – Kenneth Branagh - Bai Ling Sceneggiatura Jim & John Thomas Regia Barry Sonnenfeld Anno di produzione 1999 Durata 107’ Distribuzione Warner Bros.

Ispirato all’omonima serie televisiva nata a metà degli anni sessanta e diretto dal regista di Get Shorty e Men in black Barry Sonnenfeld, Wild Wild West è un film deludente che presenta gli stessi difetti strutturali della pellicola fantascientifica con protagonisti ancora Will Smith insieme al "duro" Tommy Lee Jones. Ricco di idee, di grandi attori, di momenti divertentissimi e di situazioni geniali e originali il film è afflitto da una serie di piccoli e grandi difetti che lo rendono una pellicola confusionaria e esagerata. La storia di Jim West (Will Smith) soldato alle dirette dipendenze del Presidente degli Stati Uniti Ulisse Grant e del professor Artemus Gordon, uno scienziato, ma anche uno sceriffo con il pallino di fare il sosia del Presidente è sviluppata in maniera al limite dell’esilarante. Un po’ James Bond, un po’ C’era una volta il West, Wild Wild West mostra, infatti, la Washington di metà del secolo scorso come un cantiere in costruzione dove le pecore pascolano serene sui prati della Casa Bianca. Un film che pur seguendo il solco delle scene tipiche delle pellicole con protagonisti gli agenti segreti coglie al volo l’occasione di potere mostrare un West di favola, per giocare con le pistole e con le invenzioni fantascientifiche in un’epoca che ci ha abituato a tutta un’altra visualità.

Haunting

Lily Taylor – Liam Neeson – Catherine Zeta Jones – Owen Wilson Sceneggiatura David Self Regia Jan De Bont Anno di produzione 1999 Distribuzione UIP Durata 114’

E’ un film sostanzialmente per bambini questo Haunting che nonostante gli effetti speciali notevoli e le ambientazioni interessanti, risulta assai debole sul versante della trama. Non convince, infatti, la storia dell’esperimento sulla paura fatto passare come mera sperimentazione di una terapia ai danni di un gruppo di sofferenti di insonnia. Innanzitutto, perché nel suo sviluppo sembra rimanere puramente un alibi cinematografico per costringere qualcuno a rimanere in una casa solitaria per tutta una notte, poi perché i singoli personaggi non vengono sviluppati a dovere. Deludenti sono Neeson e la Zeta Jones, mentre Lily Taylor (scelta forse anche per la sua somiglianza con l’ex icona del cinema horror Jamie Lee Curtis) è brava nel suo ruolo di protagonista di una storia complessa che vede animare una casa abitata dai fantasmi di un vecchio miliardario e dei bimbi che aveva costretto a vivere con lui contro la sua volontà, arrivando perfino ad ucciderli. Il tutto appesantito da una sceneggiatura dal sapore fiabesco, dove l’introspezione tipica dei toni delle favole mal si adatta a un film lungo quasi due ore. Del resto – senza starci a pensare troppo – gli effetti speciali strabilianti e l’ambientazione gotica dell’antica dimora sono i veri protagonisti di questo horror all’acqua di rose, privo di sangue e di suspence. Una scelta coraggiosa quella di Jan De Bont di riportare questo genere cinematografico alle sue radici, dopo che il filone iniziato da Wes Craven con Scream ha notevolmente dirottato il cinema del terrore verso uno stile più sexy e ammiccante.

 

Gioco a due (Thomas Crown affair) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Pierce Brosnan – René Russo Sceneggiatura Alan Trustman & Leslie Dixon Regia John McTiernan Anno di produzione 1999 Distribuzione UIP Durata 113’

Rifacimento de Il caso Thomas Crown di cui oltre trenta anni fa furono protagonisti Steve McQueen e Faye Dunaway, il film realizzato dal regista John McTiernan presenta molti punti di forza in più rispetto all’originale e qualche considerevole elemento debole e meno riuscito. Se la regia piena di azione e sempre sul filo della tensione di McTiernan trova un ottimo contraltare nell’improvvisa e seducente trasformazione a dark lady mozzafiato di Rene Russo, la rigidità espressiva di Pierce Brosnan, nonostante il suo innegabile fascino, rendono lo sviluppo del film pesante e a tratti noioso. Se, infatti, la storia del potente miliardario amante dell’arte, ladro per passione di un quadro prestigiosissimo è ancora attuale e convincente, così come lo è lo scontro intellettuale, pieno di schermaglie amorose tra lo stesso magnate e la sensuale agente delle assicurazioni messasi sulle sue tracce per incastrarlo, non altrettanto si può dire per il racconto della passione che inopinatamente nasce tra i due. Al di là delle acrobatiche scene di sesso dove lo straordinario corpo di Rene Russo raggiunge una sorta di glorificazione, Brosnan con la sua freddezza eccessiva (perfetta per James Bond, davvero fuori luogo in questo film) non riesce a entrare mai nelle simpatie dello spettatore. Soprattutto perché l’attore irlandese non riesce mai a eguagliare il carisma sincero e diretto di un mostro sacro del cinema come Steve McQueen.

 

La mummia (The Mummy) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Brendan Fraser - Rachel Weisz - John Hannah - Arnold Vosloo Sceneggiatura  John L.Balderston - Stephen Sommers Anno di Produzione 1999 Regia Stephen Sommers  Distribuzione UIP Durata 124‘

Il vuoto creato dall’assenza decennale di un film di Indiana Jones doveva essere riempito prima o poi. In questo senso La mummia è qualcosa di più di un semplice remake della pellicola con il mitico Boris Karloff nascosto sotto le bende. E’ la rilettura in chiave avventurosa di un film dell’orrore in bianco e nero con l’aggiunta di una discreta, anche se spesso eccessiva, dose di effetti speciali. Gran parte della riuscita di questo film va anche attribuita al fatto che il regista Stephen Sommers (già autore del sorprendente Deep Rising) ha riscritto la sceneggiatura dell’originale del 1932 aggiungendo a esso una buona dose di humour colta e resa in pieno dagli interpreti. Il trio inedito Fraser – Weisz – Hannah dimostra, infatti, di essere all’altezza nel portare alla luce e in vita non solo un cattivo sacerdote sepolto vivo oltre tremila anni fa, ma un genere cinematografico a metà tra l’archeologico e l’avventuroso che sembrava irrimediabilmente seppellito tra le scartoffie degli uffici hollywoodiani. Certo, il film dal punto di vista strettamente storiografico è pieno di colossali idiozie, eppure riesce a convincerci e a divertirci proprio grazie a una spumeggiante ingenuità e a una notevole cura dei dettagli davvero ammirevoli. Il cast è assai affiatato e sembra girare a mille con intorno uno stuolo di ottimi comprimari che riescono a comunicare lo spirito degli archeologi e dei cacciatori di tesori nascosti degli anni Trenta. Un interessante affresco della comunità straniera ne Il Cairo prima della guerra, sorprendentemente somigliante a quella che Anthony Minghella fece ne Il paziente inglese.

 

Pazzi in Alabama (Crazy in Alabama) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Melanie Griffith – David Morse – Lucas Black - Rod Steiger Sceneggiatura Mark Childress Regia Antonio Banderas Anno di produzione 1999 Distribuzione Columbia Tristar Durata 114’

Esordio cinematografico di Antonio Banderas presentato in anteprima alla scorsa mostra del cinema di Venezia, Pazzi in Alabama è un film davvero interessante. La storia articolata, omogenea e ben sviluppata sia dal punto squisitamente stilistico che da quello semplicemente riguardante la trama, colpisce per la sua freschezza e immediatezza. Molto del merito della riuscita di questo film va senza dubbio alla sua protagonista, Melanie Griffith, moglie di Banderas e contemporaneamente attrice dal talento straordinario, simpatica e attraente. E dire che la storia di una donna che lascia alla volta di Hollywood il natio stato dell’Alabama, i sette figli, i nipoti e il cadavere del manesco marito, di cui si porta sempre dietro nascosta in una cappelliera la testa tagliata con le sue stesse mani non è nuova. Così come non è originale, l’intreccio tra la fuga della donna che vuole diventare una diva hollywoodiana, e la drammatica e toccante narrazione delle tensioni razziali esplose in Alabama negli anni Cinquanta e Sessanta. Eppure, grazie anche alla zampata di vecchie glorie come Robert Wagner e Rod Steiger, il tono del film riesce sorprendentemente a restare sospeso tra la commedia e il dramma, prendendo il meglio di entrambi i generi, facendoci dimenticare per un momento tutte le pellicole cui questo film è visibilmente ispirato. Un ottimo esordio per Banderas, abile nel realizzare un’opera molto semplice che costituendo un omaggio al grande cinema americano, presenta un gusto tutto europeo nell’uso ironico e pungente della macchina da presa e delle sue molteplici seduzioni.

 

Guardami {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Elisabetta Cavallotti – Flavio Insinna – Elisabetta Orsola Garello Sceneggiatura e Regia Davide Ferrario Anno di produzione 1999 Distribuzione Filmauro Durata 90’

 

Volutamente sgradevole, Guardami è una riflessione durissima sulla nostra modernità. Raccontata attraverso la sessualità vorace e tutt’altro che lineare di una donna borghese, capace di esprimere se stessa solo attraverso il suo mestiere di pornostar. Una sorta di autocompiacimento nel voyeurismo altrui, come espressione del proprio potere sul mondo intero attraverso il sesso e la celebrazione della libido. Guardami è stato certamente frainteso alla scorsa mostra del cinema di Venezia. Volutamente forse, dato che il suo autore Davide Ferrario è un regista che negli anni ha costruito una serie di ottimi film, senza scendere a compromessi con il sistema. Guardami, pellicola in cui una straordinaria Elisabetta Cavallotti offre un’ammirevole prova da attrice che lascia senza parole (le scene più hard sono state, infatti, girate senza una controfigura) si presenta come una specie di spina nel fianco della nostra società borghese. Nel trionfo mediatico della virtualità, il corpo con la sua carnalità, con la sua sessualità divorante e anche con le sue malattie è stato rimosse dal nostro cinema. Un fenomeno analogo e spontaneo a quello che si sarebbe proposto negli anni Cinquanta se i registi di allora avessero ceduto alle pressioni dei governi democristiani per rimuovere gli stracci e il ritratto della povertà dai film neorealisti. Guardami attraverso il mostrare il porno (talmente terra terra da riuscire a eccitare solo chi ha davvero dimestichezza e frequentazione con questo genere cinematografico) punta a indicare gli "stracci" e le debolezze della nostra società opulenta. E sia nelle ambientazioni (quartieri periferici di una grande metropoli, ospedali frequentati da immigrati e poveracci), che nei protagonisti quella che viene stigmatizzata è ancora una volta la marginalizzazione degli individui operata da una civiltà preoccupata solo dall’autoincensazione. Un tema caro alla cinematografia di Davide Ferrario e ormai proprio solo di un certo cinema indipendente. Una pellicola onesta e lontana da ogni compromesso politicamente corretto, dove la pornografia è mostrata in tutta la sua miserevole gloria, come un mondo lontano e auto ghettizzante. Un ambiente squallido e tutt’altro che invitante come cornice perfetta per la vita di una donna abituata al sesso estremo eppure incapace di spogliarsi delle proprie angosce e incertezze e di mostrare al pubblico i suoi veri sentimenti. Un personaggio debole e problematico, che colpisce per essere una sorta di non eroe, sospeso in un limbo neutrale, quasi vittima delle proprie distanti emozioni. Una pudicizia dell’anima lontana da un certo cinema basato sulle psicologie da strapazzo, dove l’enigmatica protagonista cura parzialmente il male della sua anima, attraverso il superamento della paura della morte di una malattia del corpo. Un cancro che sebbene diventi l’occasione per arrivare finalmente a condividere qualcosa con qualcun altro, alla fine – nonostante tutto – le porterà via un caro amico, compagno di sventura conosciuto in ospedale, l’unico con cui ha provato realmente piacere durante l’amplesso. Perché anziché usate il suo potere "contro" un partner, ha condiviso la propria debolezza e tenerezza. Un film difficile Guardami. Una pellicola indipendente da tutto e tutti (visto l’argomento la produzione non ha potuto accedere ai fondi del governo, né ai contributi della televisione) capace di puntare al cuore del problema. Quando l’amore, l’amicizia e il sesso perdono la propria identità, che cosa è in grado di metterci in relazione con il nostro prossimo? Una pellicola ispirata a un moderno neorealismo, dove gli stracci che hanno infiammato le polemiche veneziane sono costituiti da un malessere esistenziale. Del resto, come si può apprezzare Guardami quando questo ci costringerebbe a fare i conti con quello che non va della nostra società? L’ultimo film di Ferrario non è uno specchio di noi stessi. E’ la nostra cattiva coscienza che ci indica il punto esatto dove non vorremmo mai guardare. Soprattutto al cinema. L’orizzonte del regista lombardo non è, infatti, la sessualità patinata alla Kubrick con tanto di autocensura per motivi di incasso, ma la spietata analisi filosofica di Peter Greenaway, altro geniale regista impegnato con grande difficoltà nel radere al suolo gli ultimi tabù del nostro tempo.

 

Tre stagioni {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Harvey Keitel – Don Duong – Zoe Bui Sceneggiatura e Regia Tony Bui Anno di produzione 1999 Distribuzione MIKADO Durata 113’

Ad un certo punto del film c’è un dialogo che certamente rimarrà nella storia del cinema: il ‘ciclo tassista’, ovvero il guidatore di bicicletta con una specie di sidecar anteriore, tenta di convincere la prostituta di cui è innamorato a seguirlo e questa gli risponde domandandogli se è mai stato all’interno dei grandi alberghi occidentali di fronte cui stazione regolarmente. "E’ per la gente di quegli alberghi che sorge il sole" – dice la giovane – "A noi non resta che stare nell’ombra di quei palazzi che si moltiplicano giorno dopo giorno, rubandoci il sole." Una frase che potrebbe restare scolpita nella cattiva coscienza di coloro che confondono volutamente in mala fede il termine occidentalizzazione con una sorte di sfruttamento economico ad egemonia occidentale della la vita dei paesi in via di sviluppo. Un timore? Un auspicio di riscossa morale ed economica? Chissà. Quello che è certo è che come i personaggi dei film di Rossellini o di De Sica, i protagonisti di Tre stagioni affrontano la proprio vita con dolore e senza troppa fiducia, imbrigliati come sono nelle incertezze della vita moderna alla fine del millennio. Poi ci sono i ragazzini costretti ad elemosinare. Il loro incedere poetico, il gioco magistrale di situazioni e di drammi alle volte farseschi alle volte no che il regista ha costruito intorno ad essi, pone ancora una volta un interrogativo angosciante sul futuro dei tanti bambini di strada che non solo in Vietnam, ma anche nel resto del mondo popolano realtà urbane degradate. Un film affascinante Tre stagioni, un viaggio nel cuore di una cultura molto distante da noi che ci colpisce per la sua forza e contemporaneamente per il suo assoluto candore. Una pellicola straordinaria anche dal punto di vista delle immagini, che assomigliano a dei piccoli quadri utilizzati per mostrare un Vietnam mille volte distante da quello rappresentato sull’onda emozionale della tragedia bellica che ha riempito il cinema americano degli anni Settanta e Ottanta. Prima produzione americana in Vietnam dopo la fine della guerra nel 1975, Tre stagioni è un film poetico e denso di emozioni, che trova forza e vigore nella doppia identità del suo regista Tony Bui. Vietnamita cresciuto in America che cinematograficamente del suo paese di origine ha assorbito un gusto lento e immaginifico per la resa dei colori e delle situazioni e degli USA ha utilizzato il pragmatismo per dare corpo a un film assolutamente unico. Tre stagioni sembra, infatti, per situazioni e personaggi quasi un’opera di natura neorealista che tenta di raccontare tramite storie diverse un paese in piena transizione dopo la fine dell’embargo che per decenni lo ha separato dal resto del mondo. Ma non c’è solo questo: Tony Bui ha realizzato una pellicola completa che racconta tramite la narrazione del presente, il profondo passato della nazione vietnamita con la guerra che lo ha portato ad una triste ribalta internazionale. In tal senso, il reduce americano interpretato da Harvey Keitel costituisce la personificazione di tutti coloro che hanno combattuto e perso la guerra del Vietnam. Ragazzi diventati uomini per forza e troppo presto, che tentano disperatamente una difficile riconciliazione tra se stessi e i propri amaramente indelebili ricordi. Ma oltre al passato e al presente c’è ovviamente anche il futuro.

 

Come te nessuno mai {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Silvio Muccino – Giulia Steigerwalt – Luca De Filippo – Anna Galiena Sceneggiatura e Regia Gabriele Muccino Anno di produzione 1999 Distribuzione MIKADO Durata 88’

Pellicola adolescenziale senza troppo pretese, Come te nessuno mai è un film molto romano sia per ambientazione che per contenuti. Non che questo sia un male, anzi. Anche se la sua spiccata romanità potrebbe rendere molto difficile l’identificazione e la piena comprensione dello spettatore che non gravita su Roma e dintorni. Totalmente diversa è la situazione che riguarda, invece, la possibilità di identificarsi nei piccoli e grandi drammi adolescenziali vissuti dai personaggi con le loro tenere storie di giovani uomini e donne innamorati dell’amore. Della sua forza coinvolgente e del desiderio di essere travolti da qualcosa che possa essere chiamato passione. Ma non c’è solo questo: ci sono i rimasugli di una politica ridotta ormai a vuoto slogan, ci sono i tipi e i branchi giovanili in cui un teen ager riesce più o meno a riconoscersi e c’è anche la buona regia di Gabriele Muccino che – con il sottofondo delle musiche forse un tantino troppo drammatiche del maestro Paolo Buonvino – rende quasi epici e di certo indimenticabili l’occupazione della scuola, gli scontri contro la polizia, i sogni a occhi aperti e la prima volta di due giovani che si desiderano ardentemente e si prendono sotto il cielo di una Roma dai toni invernali. Una pellicola a tratti commovente che per tutti gli spettatori vale un biglietto di viaggio alla volta dei ricordi che hanno avuto e – soprattutto – che avrebbero voluto avere. Qualcosa di più di un semplice "Tempo delle mele con occupazione della scuola" che sebbene debole in alcuni momenti e appena abbozzato sul versante politico o su quello generazionale, ha il pregio di raccontarci il mondo dei liceali di oggi attraverso le loro paure, i loro sogni, le loro ansie e le loro ambizioni.

 

Complice la luna (A walk on the moon) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Diane Lane – Viggo Mortensen – Liev Schreiber – Anna Paquin Sceneggiatura Pamela Gray Regia Tony Goldwyn Anno di produzione 1999 Distribuzione Lucky Red Durata 100’

L’estate del 1969 oltre dall’allunaggio dell’Apollo 11 e dalla storica passeggiata sul suolo lunare di Neil Armstrong fu resa indimenticabile anche dal concerto di Woodstock e dal momentaneo trionfale affermarsi dell’ideale hippie di un mondo dominato dalla pace e dall’amore. E il grande merito degli autori di questa pellicola è che senza mai scadere nel ‘come eravamo’ e nell’amarcord, hanno saputo raccontare con brio ed eleganza il tradimento di una donna nei confronti di un marito un po’ troppo pantofolaio e all’antica come una metafora della voglia di cambiamento e di novità che si respirava in quegli anni. Il desiderio spasmodico di conquistare una nuova consapevolezza, lasciandosi alle spalle tutte le incertezze e le rinunce, coincide sorprendentemente con l’affermazione di una nuova responsabilità umana ed intellettuale. Il problema è che sebbene gli intenti del film siano molto chiari e che venga reso molto efficacemente l’arguto gioco di prospettive costruito sui personaggi principali, per qualche non troppo misteriosa ragione, questo film prodotto da Dustin Hoffman, perde via via il buon ritmo originale dell’inizio, per scadere in alcune melensaggini che preludono – purtroppo – ad uno sbraco finale capace di inficiare il risultato dell’intera pellicola. Complice la luna sarebbe stato un buon film, infatti, se la diabolica tentazione di avvicinarsi ai temi della soap opera non ne avesse irrimediabilmente allentato l’andamento, affievolendo i toni dell’ottima recitazione di Diane Lane e del di lei marito nella finzione cinematografica Liev Schreiber. Cui peraltro non riesce a fare da contrappunto la scipita partecipazione di Viggo Mortensen tutt’altro che convincente nella parte del rubacuori.

 

Il prezzo dei rubini (A price above rubies) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Renée Zellwegger – Christopher Eccleston – Julianna Margulies – Glenn Fitzgerald Sceneggiatura e Regia Boaz Yakin Anno di produzione 1997 Distribuzione Lucky Red Durata 117’

Sonia è la moglie di un devoto studente della Torah nella comunità ebraica ortodossa di New York. Si è sposata senza convinzione e ha un figlio. Sedotta dal fratello del marito, diventa la compratrice dei gioielli per l’attività in nero di quest’ultimo. Ma la sua vita apparentemente libera e indipendente la porta a scontrarsi contro il muro di perbenismo e di ipocrisia che circonda l’esistenza delle donne della sua comunità. Stufa di non potere indossare i gioielli che acquista, stanca di doversi confrontare con una società maschile, idolatrice di una divinità maschile insensibile al pianto delle donne, Sonia viene ripudiata dall’ingenuo marito e va incontro a una vita lontano dall’essere la schiava sessuale del cognato. Un film duro e intrigante Il prezzo dei rubini prodotto dalla Miramax dei fratelli Weinstein. Una pellicola interessante e commovente che analizza lo scontro non tra la modernità e il laicismo posti dinanzi alla religiosità conservatrice, bensì il divario tra il maschile e il femminile in una comunità dove non è arrivato il senso dell’emancipazione. Ed è proprio questo che colpisce del personaggio interpretato da Renée Zellwegger: il suo essere donna emancipata di nascosto, in una società che non ammette incertezze o ritrosie. Il fanatismo non è, però, il tema del film. L’argomento più sottile e dominante la pellicola è la consolazione che a una donna ebrea non viene portata da niente e da nessuno. Una pellicola civile e originale in cui i gioielli diventano la metafora di una ricerca della bellezza, vissuta non come mero capriccio estetico, bensì come appagamento della propria sete di luce e di splendore. Un film complesso questo scritto e diretto da Boaz Yakin che senza prese di posizione e – soprattutto – con un finale assai credibile, ci indica non tanto i mali e la crisi di una comunità ortodossa ebraica, ma i desideri e le ambizioni laiche di una donna che non vuole più vivere scendendo a compromessi.

 

Guerre Stellari Episodio I – La minaccia fantasma {Sostituisci con chiocciola}

Liam Neeson – Ewan McGregor – Samuel L.Jackson – Natalie Portman Sceneggiatura e Regia George Lucas Distribuzione Twentieth Century Fox Anno di produzione 1999 Durata 130’

Storditi dagli incassi stratosferici e da un battage pubblicitario senza precedenti, si era autorizzati a sperare che il primo Episodio della nuova saga di Guerre Stellari fosse all’altezza dei suoi tre riusciti predecessori. Invece, le cose stanno molto diversamente. La minaccia fantasma è solo un pallido riflesso della trilogia originale, in cui – ai toni affascinanti di una storia misticheggiante – sono stati sostituiti i canoni classici dei film di Walt Disney (senza emularne il risultato) puntando ad un target fanciullesco e ingiustamente considerato poco incline a un cinema di qualità. Ed è così che la Forza con tutta la sua mitologia fantastica, in questo film diventa una specie di cura termale non meglio definita con i suoi cavalieri Jedi ridotti ad una manica di burocrati. Il film è dominato da effetti speciali sorprendenti ed esagerati che tentano di mascherare una palese mancanza di idee. I nuovi personaggi sono tutti appena abbozzati e i momenti più importanti della pellicola sono semplicemente "buttati lì" senza una cura ed un attenzione per il dettaglio, che invece viene inspiegabilmente strascicata per situazioni assolutamente banali e già viste almeno un milione di volte solo in questa galassia. Jake Loyd, il bambino che interpreta il giovane Anakin Skywalker è bravo, ma soprattutto serve come specchietto per le allodole nei confronti di un pubblico di frugoletti pronti a identificarsi nel loro alter ego di celluloide. Tutto quello che lo circonda costituisce una carrettata di insulsa piattezza, resa ancora più sgradevole e noiosa da un doppiaggio che incapace di ricreare la grana delle voci originali, storpia la situazione dando assurdi accenti russi e multilinguistici a personaggi provenienti dallo spazio profondo. Un film mediocre che in nome del denaro ha rinnegato tutto quello che di buono c’era in Guerre Stellari e che paga inoltre lo scotto della poca convinzione di Liam Neeson e Ewan Mc Gregor, dall’espressione palesemente annoiata a dovere recitare con personaggi che non vedono in realtà.

 

La vespa e la regina {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Claudia Gerini – Pere Ponce Sceneggiatura Franca De Angelis – Francesca Panzarella Regia Antonello De Leo Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 93’

La vespa e la regina è un film gradevole dove possiamo registrare un riuscito tentativo di agganciare la commedia all’italiana a tematiche impegnate più ampie ed europee come i diritti dei gay nel nostro paese. Una pellicola divertente dove soprattutto i protagonisti principali Claudia Gerini e Pere Ponce, riescono a convincere gli spettatori, catturandoli in una storia piena di buffi equivoci che trascorsa almeno metà della pellicola, guida in un crescendo di umorismo verso la conclusione (a lieto fine) di una storia d’amore molto particolare e ricercata come quella tra un gay e una lesbica alla loro prima esperienza eterosessuale. Ma il vero grande merito de La vespa e la regina è quello di avere saputo sfruttare in pieno tutti gli appigli comici possibili, con una cura dei dettagli umoristici quasi da film americano, e con una Claudia Gerini capace di fare ridere con intelligenza e un’ironia fondata sul buon gusto e non sui semplici doppi sensi. Risollevando così La vespa e la regina dalla pericolosa tentazione iniziale di fare assomigliare questo film più a una pellicola di Alvaro Vitali che a una commedia dal respiro internazionale, in grado di basare la propria forza e riuscita sullo humour e sulle caratteristiche interpretative dei suoi protagonisti.

 

L’insaziabile (Ravenous) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Guy Pearce - Robert Carlyle -Jeremy Davies Sceneggiatura Ted Grifffin Regia Antonia Bird Anno di produzione 1999 Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 98’

L’insaziabile è una divertente black comedy con protagonista Robert Carlyle che rinnova per l’ennesima volta il suo sodalizio con la regista britannica Antonia Bird e che - dopo avere momentaneamente smesso i panni portafortuna della working class (Trainspotting, Go now, The full monty…) - si prende una vacanza nel West tra cercatori d’oro e giacche blu armate fino ai denti. Un western sui generis in cui il nemico da battere non sono gli indiani o un esercito ribelle nemico, bensì un terribile cannibale (Carlyle) che – rivelatosi essere un colonnello dell’esercito degli Stati Uniti – viene posto a capo del forte dove solo qualche tempo prima sotto mentite spoglie aveva ucciso alcuni ufficiali per mangiarseli durante una missione. Una pellicola ironica e irriverente nei confronti del classicismo cinematografico del mito della Frontiera e dell’Ovest, interpretata in maniera convincente da un sorprendente Carlyle e da un granitico Guy Pearce nei panni dell’ufficiale che non vuole accettare il cannibalismo "sciamanico" del suo superiore. Un film originale in cui i temi classici delle pellicole dell’orrore si "contaminano" con il genere western e la commedia, in cui Robert Carlyle conferma di essere diventato senza ombra di dubbio "l’attore di riferimento" del nuovo cinema britannico.

 

Sogno di una notte di mezza estate {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Kevin Kline – Michelle Pfeiffer – Rupert Everett – Stanley Tucci Sceneggiatura e Regia Michael Hoffman Distribuzione MEDUSA Durata 116’

Questa ennesima versione di Sogno di una notte di mezza estate sfrutta in pieno il paesaggio toscano, per costruire una nuova seducente cornice per l’immortale capolavoro di Shakespeare. Grande merito va al regista Michael Hoffman – già autore di film indimenticabili ed esteticamente perfetti come Un giorno per caso e Restoration – di avere saputo sfruttare in pieno le potenzialità visuali di un testo che, in origine, celebrava il trionfo del gusto dell’età elisabettiana. Una allegoria della Natura che segue uno stile narrativo molto classico, un orizzonte spaziale e temporale visualmente perfetto per raccontare il complicato amore tra Oberon e Titania. In tutto questo c’è anche l’Italia con le sue forti fascinazioni e i suoi accenti seducenti. Irresistibili per un pubblico anglosassone, visto che la l’ultima moda tra i ricchi artisti inglesi e americani è quella di andare a trascorrere gran parte del tempo nella campagna toscana, acquistando e rimettendo a nuovo case abbandonate.

 

The protagonists #

Tilda Swinton – Fabrizia Sacchi – Andrew Tiernan – Michelle Hunziker Sceneggiatura e Regia Luca Guadagnino Anno di produzione 1999 Distribuzione MEDUSA Durata 92’

Luca Guadagnino, giovane regista esordiente, è riuscito con The protagonists in qualcosa che francamente non avremmo più ritenuto possibile alla fine del Millennio.

Realizzare una pellicola, che oltre a precipitare lo spettatore imbarazzato in una posticcia riedizione dello sperimentalismo cinematografico degli anni Settanta, riesca contemporaneamente a confondere quello che è il cinema e quello che sono i documentari sulla realizzazione dei film. E The protagonists prende il peggio di entrambi. E’ un pessimo lungometraggio e un mediocre documentario, nonostante la presenza di Tilda Swinton e di attrici come Fabrizia Sacchi e Michelle Hunziker. Un work in progress che tra testimonianze vere e riflessioni posticce quasi da gruppo di autocoscienza, insiste nel proporre la triste realtà di un omicidio operato da due ragazzi bene a scapito di un povero sconosciuto, come oggetto di una riflessione meta cinematografica. Dove i personaggi veri (i familiari e i poliziotti e i giornalisti che hanno partecipato alle indagini) si mescolano con gli attori in un crescendo di inspiegabile idiozia, mentre tra un’intervista e l’altra assistiamo ai preparativi e alle prove della messinscena di questo terribile e crudele omicidio. Una pellicola sconclusionata con protagonista un’algida Tilda Swinton che svolge un lavoro a metà tra quello dell’attrice e quello dell’intervistatrice. Un film all’insegna della presunzione, costruito in maniera irritante e capace di appellarsi principalmente a quelli che sono e rimangono solo dei luoghi comuni. E dire che la storia dei giovani adolescenti capaci di uccidere per divertimento, mentre inseguono i loro sogni, oltre a ricordare qualcosa di analogo accaduto alla povera studentessa della Sapienza Marta Russo, colpisce per la sua emblematica tragicità. Non c’è niente di peggio quando una presunta arte vuole tentare di raccontare la vita, stravolgendola e infarcendo il tutto di criptiche metafore. Ci dispiace solo per la vittima e i suoi familiari. Una tragedia tanto grande e gratuita avrebbe meritato ben altra regia e ben altra narrazione.

 

Austin Powers 2 – la spia che ci provava (Austin Powers – The spy who shagged me) {Sostituisci con chiocciola}

Mike Myers – Heather Graham – Michael York Sceneggiatura Mike Myers – Michael McCullers Regia Jay Roach Anno di produzione 1999 Distribuzione MEDUSA Durata 94’

Secondo capitolo della storia della spia rimasta ibernata alla fine degli anni Sessanta e scongelata a metà dei Novanta, Austin Powers 2 è un film il cui più grande titolo di merito è il divertito omaggio agli anni Sessanta della cosiddetta Swingin London e alle pellicole di James Bond. Purtroppo, rispetto al suo predecessore la versione italiana che soffre della sconsiderata collaborazione ai testi di Elio e le storie tese e di Massimo Lopez in qualità anche di doppiatore, subisce il colpo di una virata maldestra verso una comicità greve sullo stile dei film di Bombolo e Alvaro Vitali con la trasformazione di intraducibili termini inglesi, in parolacce esplicite. Una forzatura del testo (che tra l’altro non è Shakespeare…) fatta probabilmente per mirare a un pubblico di bocca buona, facile alla risata quando c’è di mezzo una battuta pecoreccia. Una conferma in più che in questo paese c’è bisogno dei sottotitoli, per sottrarci a questa banda sconsiderata di "ammazzafilm" cui le case di produzione di affidano per stravolgere le pellicole da tradurre e incassare qualche liretta in più che non fa mai male. Dimenticata, per un momento la coltre di maleducazione di cui è coperta la storia nella versione italiana, Austin Powers 2 rimane nello stile del precedente film, un tributo agli anni Sessanta di 007 e alla moda dell’epoca. Alle sue ingenuità, alla liberazione sessuale iniziata in quegli anni e alle strampalate tecnologie in stile bondiano. Qualcosa di molto simile tentato recentemente anche in The avengers con Uma Thurman e Ralph Fiennes e che nel secondo capitolo di Austin Powers trova la sua consacrazione.

 

Il dolce rumore della vita {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Francesca Neri – Rade Serbedzija Sceneggiatura Mimmo Rafele – Lidia Ravera – Giuseppe Bertolucci Regia Giuseppe Bertolucci Anno di produzione 1999 Distribuzione MEDUSA Durata 92’

E’ un’opera complessa e dolorosa l’ultimo film di Giuseppe Bertolucci Il dolce rumore della vita. Ma è anche una pellicola semplice e raffinata che grazie alla sua capacità di riflettere con discrezione e sensibilità sul significato dei ruoli fondanti la nostra società ci trasporta con eleganza in una provincia italiana dei giorni nostri, dove viene messo in scena una storia che ha tutti i toni del melodramma. Poteva essere diversamente in una pellicola impregnata di amore per il teatro e che vede Francesca Neri nei panni di una grande attrice? Probabilmente no. Ma oltre a un poetico ascolto dei movimenti del cuore, del dolce rumore della vita che scorre nelle parole e nelle azioni dei protagonisti c’è davvero qualcosa di più. All’istrione, al mattatore egocentrico e obnubilato dal proprio ego al punto di arrivare a credere alle storie che interpreta, si oppone una donna, un’attrice, che ha omogeneamente superato il confine limite tra la sua vita privata e le storie che va raccontando a coloro che ha intorno e – soprattutto – al figlio adottivo, trovato abbandonato su un treno in una notte di tempesta. Ma i colori del teatro, del drammone di stampo ottocentesco non sviliscono e non stemperano i toni di una storia al tempo stesso assai antica e molto moderna. E – soprattutto – nulla tolgono allo straordinario personaggio interpretato da una sorprendente Francesca Neri, attrice alla vetta della propria maturità espressiva, che dona un notevole fascino e carisma alla donna capace di sacrificare tutto al proprio adorato figlio e alla vita che ha scelto. Un film sottile e guascone, delicato e prepotente, affascinante e - a tratti - sgradevole. Un’opera matura, solenne e al tempo stesso freddamente caotica. Proprio come quell’esistenza di cui i personaggi ascoltano il fluire, incapaci ancora di comprendere se si tratta di un frastuono oppure di un’armonia.

 

E allora mambo! {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Luca Bizzarri – Paolo Kessisoglu – Luciana Littizzetto – Maddalena Maggi Sceneggiatura Fabio Bonifacci e Lucio Pellegrini Regia Lucio Pellegrini Anno di produzione 1999 Distribuzione MEDUSA Durata 95’

Una pellicola riuscita che con semplicità e intelligenza mira essenzialmente a divertire il pubblico in maniera molto diretta, proponendo una storia divertente ambientata nella provincia emiliano – romagnola. Questo – in estrema sintesi – è E allora mambo!. Doveva capitare prima o poi, infatti, che la mania degli italiani per i ritmi caraibici e per il mambo trovasse una degna celebrazione cinematografica. Così, E allora mambo! raccontando la commedia degli equivoci di un bigamo amante di balere e discoteche, porta il nostro cinema indietro nel tempo. Verso, gli spensierati anni Sessanta dove pellicole non propriamente d’autore, divertivano il pubblico con storie leggere e allegre che ancora oggi – nonostante il bianco e nero – ci ipnotizzano in virtù della loro freschezza e ingenuità. Lo stesso discorso vale per questo film, erede di una comicità abbastanza ingenua, che seppure realizzato da un manipolo di attori e autori provenienti dalla televisione, non ha fortunatamente nulla dei generalmente pessimi esperimenti noti a tutti che tentano maldestramente di appiccicare il format televisivo ai ritmi e allo stile proprio del grande schermo. Una piacevole sorpresa questo E allora mambo!, interpretato con grinta e simpatia da una grande Luciana Littizzetto, che affrancatasi dal suo cattivissimo doppio televisivo, dimostra notevoli doti interpretative nei panni della prima moglie rompiscatole del fedifrago marito dalla doppia vita.

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Marco Spagnoli

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