SPETTACOLO&MODA - Maggio 1998


I film di maggio (I parte)

Hopkins scopre cos'è l'odio
Blues Brothers, torna il mito

George, Re della giungla (George of the jungle)

Brendan Fraser - Leslie Mann Sceneggiatura Dana Olsen & Audrey Wells Regia Sam Weisman Anno di produzione 1997 Distribuzione Buena Vista International Durata 92’

Ispirato direttamente all’omonimo cartone animato che spopolò negli anni Sessanta, George, Re della Giungla è un film per bambini, girato con un grande senso dell’ironia e dell’umorismo che per un’ora e mezza regala gags destinate ai più piccini che - eppure - strappano non poche risate anche agli adulti. La storia ispirata a un simil Tarzan interpretato con grande simpatia da Brendan Fraser, ci mostra tutti i consueti stereotipi del film che viene ambientato in Africa, con l’unica differenza della consapevolezza dei realizzatori di stare facendo l’ennesima variazione sul tema, seppure assai ridicola. Esilarante è ad esempio la figura del Gorilla parlante di nome Scipione amante della letteratura e degli scacchi che in originale veniva doppiato nientedimeno che dal leader dei Monty Phyton, John Cleese.

Ed è così che George, re della giungla deve proprio al suo grande senso dell’umorismo di fondo il suo successo. Mescolato ad ambientazioni molto carine, con animali teneri e buffi, grazie anche alla tecnologia avanzata che permette delle animazioni ancora più irresistibili, George non presenta nemmeno una caduta di tono, costituendo un’ennesima conferma da parte della casa di produzione con le orecchie da topo, nella realizzazione di film sempre più gradevoli e mai sciatti. Con tanto di simpatica autoironia e di gusto della citazione con un finale di film che è esattamente lo stesso del Re Leone. Insomma, davvero un ottima politica quella di fare ridere il pubblico con il risultato di divertirsi e autocitarsi.

Codice Mercury (Mercury Rising)

Bruce Willis - Alec Baldwin - Chi McBride - Kim Dickens Sceneggiatura Lawrence Konner Regia Harold Becker Anno di produzione 1998 Distribuzione UIP Durata 112’

Questo noiosissimo film raccoglie in sé tante altre pellicole da sembrare un lunghissimo deja vu tessuto insieme da un’esile e del tutto incongrua trama. Un bambino autistico, ma intelligentissimo (Rain Man e altri) riesce a infrangere un codice segretissimo (Wargames) che è l’unica garanzia di sicurezza per gli agenti americani all’estero per rimanere vivi, comunicando tra loro. Il capo di un’agenzia governativa talmente segreta da non avere nome (Alec Baldwin) decide di eliminare il bambino che nel frattempo viene protetto da un agente dell’Fbi emarginato dai suoi colleghi (The witness). Insomma, la lista dei film riassunta da Codice mercury si spreca, eppure, non c’è ne è uno che il regista Harold Becker (Malice, Crazy for you) riesce a seguire con una logica un po’ sfrontata, ma almeno lineare. Lunghissimo: un’ora e cinquantadue di puro avvilimento, in certi momenti cade nel più assoluto qualunquismo con situazioni da filmetto di serie B, che tenta disperatamente di richiamarsi a qualcosa di eccessivamente pretenzioso. Bruce Willis fa Bruce Willis - come in tutti i film - e nonostante la sua grande (e scontata) simpatia, non riesce a risollevare le sorti di una pellicola compromessa dalla scarsezza di idee, cui si preferisce, invece, sostituire degli slogans che si scontrano contro il pragmatismo degli spettatori e non certo dei più smaliziati. Perfino la colonna sonora di John Barry, autore delle musiche dei più famosi film bondiani, sembra citare qualcos’altro per mancanza di idee. Peccato, per un film che poteva essere sviluppato in tutt’altra maniera e che, invece, cade da una situazione inverosimile all’altra.

Amore e morte a Long Island (Love and death on Long Island)

John Hurt - Jason Priestley - Fiona Loewi Sceneggiatura e Regia Richard Kwietniowski tratta dal romanzo omonimo di Gilbert Adair Anno di produzione 1997 Distribuzione MIKADO Durata 93’

Amore e morte a Long Island è un film sorprendente. Intelligente, girato con cura e attenzione ai particolari, pieno di un’ironia tipicamente britannica, racconta con genio e maturità la storia di un anziano e affermato scrittore inglese, vedovo da poco, che capitando per errore in un cinema dove viene proiettato un film adolescenziale, si innamora del suo bel protagonista. Da qui tutta la vita viene sconvolta e come la più normale delle teenagers, incomincia a leggere tutti i giornaletti che parlano di questo giovane attore americano, interprete di film pseudo-demenziali e di soap operas. Più delle ragazzine innamorate, però, lo scrittore ha la possibilità di andare fino negli Stati Uniti dove abita il suo giovane idolo. Dopo mille astuzie e peripezie, riesce a incontrarlo e - finalmente - a dichiarargli il suo amore non corrisposto. Finirà tutto lì ? Interpretato magistralmente da un attore del calibro di John Hurt e da Jason Priestley, uno dei protagonisti di Beverly Hills 90210, Amore e morte a Long Island è un moderno dramma che - nonostante la profonda disperazione e solitudine che racconta - assomiglia più a una commedia ironica come il suo protagonista, un ingenuo uomo di lettere profondamente e distrattamente innamorato della vita.

Sebbene fondato sul paradosso dell’amore adolescenziale che afferra un rispettabile scrittore, il film è tutt’altro che "impossibile" o "infondato". Anzi, è veramente centrato e calibrato, proprio grazie alla sua capacità di osare e raccontare aspetti segreti di una personalità che - invece - sembrerebbe non avere null’altro da aggiungere a ciò che ha scritto. Ed è proprio questo che mostra inconsapevolmente, ma in maniera assai naturale il suo anziano protagonista. Una capacità di aprirsi ancora alla vita e all’amore, lasciandosi andare a una leggera e quantomai irresistibile elegia della passione che colpisce senza distinzione e della voglia di scoprirsi ancora a se stessi.

Un film forte e intelligente, moderno eppure classico nel più abusato dei termini visto che l’amore che viene raccontato è proprio di quei grandi artisti di cui abbiamo numerosi esempi nelle varie epoche. Fondato quasi interamente sulla magistrale interpretazione di John Hurt, Amore e morte a Long Island che ha vinto alla scorsa edizione del Festival di Cannes il premio Pierrot per il Giovane Cinema Europeo, è un magnifico esempio di come si possano raccontare storie antiche nel più moderno dei modi, senza per questo snaturarle, riuscendo invece ad adeguarle ai tempi e ai luoghi, rimanendo fedeli a una tradizione classica austera, intelligente e affascinante.

Teatro di guerra

Andrea Renzi - Anna Bonaiuto - Iaia Forte Sceneggiatura e Regia Mario Martone Anno di produzione 1998 Distribuzione MIKADO Durata 113’

Mario Martone cita Mario Martone raccontando il proprio lavoro per la messa in scena dei Sette contro Tebe di Eschilo da portare nella Sarajevo occupata come testimonianza di solidarietà, e ci costruisce una storia sopra che diventa metafora della guerra che regna sul mondo e in particolare su Napoli. Se, infatti, una compagnia di attori squattrinati deve affrontare mille problemi per realizzare lo spettacolo, il mondo che li circonda esternamente diventa uno schermo estremo del conflitto globale che tutti - da secoli - sono costretti a subire.

La Napoli della guerra tra i clan della camorra, la Napoli in cui gli attori devono "prostituire le loro idee" per fare del teatro, per lavorare, e ancora la Napoli tronfia di demagogia a basso prezzo, diventano un riflesso lontano eppure gigantesco della Sarajevo occupata e distrutta. Il teatro nel cinema di Martone, il teatro di Martone nel suo stesso film diventano così trama e obiettivo della storia che unisce le prove teatrali di un vero spettacolo alla più realistica "finzione" cinematografica.

Un film complesso che nella sua profonda acutezza e nel suo sgargiante cinismo vuole raccontare ancora una volta la storia della disperazione che regna a Napoli e nel sud assediato da una guerra meno nobile di quella dei sette eroi contro Tebe, meno feroce di quella nella città dell’ex-Yugoslavia, eppure non per questo meno pericolosa visto che le sue vittime sono mietute tra le coscienze e gli stili di vita dei suoi protagonisti. Un film duro in cui Martone reitera il suo disprezzo per l’umanità napoletana - che eppure sembrerebbe difendere - nel quale erge a metafora universale il Teatro di guerra che da secoli regna nella città di Napoli. Un crepuscolo delle illusioni in cui tutte le istituzioni sembrano crollare e che vede la fine anche del teatro inteso in maniera politica e contrapposto al "teatro di distrazione" egemone in Italia, in particolare in una città come Napoli, abbandonata dagli Dei alla stregua della Tebe di Eschilo, in cui sembrano essere sempre più importanti i fucili che il teatro, proprio come nella Sarajevo occupata, dove - alla fine - lo spettacolo non si farà. Ovviamente, perché la guerra è nemica del teatro e del suo messaggio di speranza e di pace.

L’urlo dell’odio (The edge)

Anthony Hopkins - Alec Baldwin - Elle MacPherson - Harold Perrineau Sceneggiatura David Mamet Regia Lee Tamahori Anno di produzione 1997 Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 117’

Incorniciato dalle stupende e glaciali ambientazioni in Alaska, da una fotografia meravigliosa e dal bel commento musicale di Jerry Goldsmith, esaltato dalla ruvida regia di Lee Tamahori (Once were warriors), L’urlo dell’odio racconta la storia di un miliardario (Hopkins) disperso nelle foreste del Grande Nord, insieme a un fotografo di moda amico di famiglia (Baldwin) e al suo collaboratore (Perrineau). Inseguiti da un orso assassino (l’orso Bart protagonista anche del film omonimo di Jean Jacques Annaud) i tre devono fronteggiare i rigori del freddo e i morsi della fame per tentare di sopravvivere. Il guaio è che il fotografo si rivela essere anche l’amante della bella moglie (Elle MacPherson) del miliardario e tutto si complica davvero.

Un film duro, sulla solitudine di chi ha i soldi e che sa che tutto quello che gli viene offerto è in base all’ammirazione e all’invidia che suscita. Soli nella foresta (che come sempre può essere interpretata come una metafora) il miliardario e il suo nemico devono cercare di salvarsi a tutti i costi, abbattendo l’orso e superando il freddo.

Così non sono più i soldi a contare, la capacità di conoscere belle donne e di arricchirsi, bensì la sola capacità di sopravvivenza. Ed è il miliardario a mostrare - grazie alla sua cultura - il migliore spirito di adattamento. Non contano più gli aerei personali, i soldi e le donne. Solo essere se stessi significa qualcosa per sconfiggere l’orso e salvarsi. In questo senso potrebbe comprendersi il titolo italiano che parla di un odio che nel film non c’è, perché il miliardario Morse non odia l’amante della moglie. È solo deluso da entrambi, che hanno reiterato intorno a lui quella solitudine di sempre. Migliore era il titolo originale che parla di un limite. Qual è, infatti, il confine da superare ? Soltanto il limite dentro di noi e questo, Morse che non ha mai conosciuto rapporti veri, ma soltanto distorti, confusi e gonfiati dal suo potere e dal suo denaro. Come nel racconto di Hemingway, il ricco marito dovrebbe perire nel contatto con il mondo selvaggio. Ma stavolta l’uomo è colto ed è capace di colpire e attaccare a sua volta.

Un film pieno di tensione con un attore come Anthony Hopkins che catalizza tutta l’attenzione e che trova una spalla più che buona in Alec Baldwin, cattivo a metà, visibile ennesimo pupazzo nelle mani di una bella donna. L’urlo dell’odio nonostante molto appesantito da alcune pessime "americanate", con un finale che rischia di inficiare l’intera pellicola per la sua banalità di ambientazione, è un film interessante e originale, che racconta una storia nuova che - eppure - è la più vecchia del mondo. Quella dell’uomo solo contro tutti, che solo al contatto con la natura è capace di ritrovare se stesso e iniziare una nuova vita e - dunque - una nuova avventura.

Una vita esagerata (A life less ordinary)

Ewan McGregor, Cameron Diaz, Holly Hunter, Delroy Lindo, Ian Holm, Ian Mc Neice, Stanley Tucci Sceneggiatura Jon Hodge Regia Danny Boyle

Anno di produzione 1997 Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 103'

Realizzato dal regista di Trainspotting Danny Boyle, Una vita esagerata è una commedia romantica un po’ pulp, divertente e intelligente con cadute di tono che – francamente lasciano un po’ allibiti per la loro gratuità. Se la storia degli angeli che devono fare innamorare due ragazzi diversissimi tra loro come un addetto alle pulizie sognatore (Ewan McGregor) e la figlia bella e annoiata del suo capo (Cameron Diaz), pena la cacciata dal Paradiso sembra essere davvero geniale e spiritosa, non altrettanto si può dire di alcune trovate di pessimo gusto che appesantiscono di molto la sceneggiatura. Mentre gli attori sono tutti all’altezza del compito con una Cameron Diaz più seducente che mai e un’Holly Hunter originale e inconsueta nel ruolo dell’angelo pronto a fare fuoco, alcune incertezze stilistiche danno al film un andamento altalenante con momenti di vera noia e di dubbio significato.

Tutto questo può venire facilmente spiegato dal doversi adattare a dei ritmi americani per un gruppo di lavoro britannico che – ne siamo certi – avrebbe risolto altrimenti determinate situazioni, se fosse stato in Europa a girare il film.

Ad ogni modo Una vita esagerata è una divertente divagazione soft pulp per il regista Danny Boyle che riadattando agli anni Novanta temi cari al cinema americano anni trenta e quaranta come l’intervento divino nella vita di tutti i giorni degli uomini, è riuscito a realizzare una commediola originale e allegra.

Artemisia

Valentina Cervi – Miki Manojlovic – Michel Serrault – Luca Zingaretti Sceneggiatura e regia Agnes Merlet Anno di produzione 1998 Distribuzione Warner Bros. Italia Durata 120’

La storia di una delle più grandi pittrici del diciassettesimo secolo Artemisia Gentileschi e la sua insana passione per il pittore Agostino Tassi è al centro di questo Artemisia che ha come protagonista la nipote diretta del grande Gino Cervi, Valentina.

Curato nei minimi dettagli stilistici, con ogni inquadratura che sembra ispirata a un dipinto dell’epoca, con costumi e fotografia assai raffinati, al film sembrano mancare un’anima e un carattere propri. Con la pur brava Valentina Cervi lasciata un po’ troppo in primo piano, la storia sembra più volte sfilacciarsi e un’eccessiva freddezza impadronirsi completamente della scena. Dove sta la presunta passione del sottotitolo e che fine hanno fatto i caratteri dei personaggi che ci rimangono chiusi e inspiegabili? Perché Artemisia dovrebbe innamorarsi di Tassi, e perché la Cervi nel tentativo di recuperare un’innocenza che non sembra appartenerle più da tempo si sforza in maniera ingenua di spiegarci la sua sorpresa e il suo sbigottimento per la presunta straordinarietà degli insegnamenti di Tassi che a noi – però – non ci arriva?

La risposta è che questo film è stato girato come un documentario e di questo presenta tutte le caratteristiche migliori, mentre quello che viene meno è proprio l’aspetto più umano e viscerale. Più che di Passione estrema come recita il sottotitolo si tratta di una levigatezza estrema che non riesce a penetrare, però, nell’anima dello spettatore e nei suoi sentimenti. Non sappiamo dire se la cura dei particolari abbia fatto perdere di vista il tutto, certo è che questo film non paga per la povertà delle idee, bensì per il suo esatto contrario. Troppe idee sacrificate a una cappa di curatissimi dettagli senza guardare l’aspetto più semplicemente umano e passionale. Se al cinema c’è qualcosa che non si può dare per scontato sono proprio i caratteri dei personaggi, almeno che è ovvio sullo schermo non ci sia Schwarzenegger o Stallone in un film d’azione. E non è davvero questo il caso.

Metroland

Christian Bale - Emily Watson - Lee Ross Sceneggiatura Adrian Hodges tratta dal romanzo di Julian Barnes Regia Philip Saville Anno di produzione 1997 Distribuzione Medusa Durata 106’

In un quartiere borghese della Londra della fine degli anni Settanta due amici si rincontrano dopo molti anni. Uno è sposato e ha un lavoro impiegatizio che non lo soddisfa molto, l’altro è uno pesudo scrittore giramondo che instilla nell’amico la voglia di liberarsi di tutto e tutti, facendogli ricordare il passato parigino e la sua fidanzata francese.

È una lunga tradizione quella britannica del confronto tra la borghesia e il suo rifiuto. Presente a livello altro nei romanzi di Orwell come Fiorirà l’Aspidistra o semplificata nei fumetti di Bristow, nell’epoca del pre-Tatcherismo la media borghesia britannica ha avuto momenti di fulgore a livello letterario e non solo. Dopo, con la sua distruzione grazie al governo conservatore di Margareth Thatcher, ha perso ogni importanza, mutandosi nella sua versione degradata e ispirando tutti i film sulla piccola borghesia a contatto con il sottoproletariato urbano che conosciamo da Ken Loach in poi.

Ed anche per questo ha ancora maggiore merito l’intelligente film di Philip Saville che sembra un lungo flashback sull’apologia e la critica di un passato che non esistono più. I due mondi che vengono contrapposti, l’essere francese e l’essere inglese, l’essere fedeli e l’essere infedeli, l’essere borghesi e non esserlo, odiarlo e il non detestarlo, costituiscono un’interessante dualismo, il cui radicalismo viene ammorbidito dalla visione con tanto senno di poi di cui possiamo usufruire adesso.

Insomma, una lunga riflessione contornata da qualche inevitabile luogo comune che si avvale di attori capaci a esprimere pulsioni semplici eppure ancora oggi tabù, nel contesto di un’epoca ancora ingenua. Il Thatcherismo distruttore è alle porte. La guerra delle Falklands, e la fine dell’Inghilterra come la conoscevamo è vicina, con in sottofondo il rumorosissimo punk sparato a tutto volume.

Un film che sembra più un "come eravamo" anziché un’autentica riflessione su un paese che ha perso la propria identità proprio grazie a giovani che sono cresciuti con la voglia di scappare da quartieri dove sono nati, per tornarvi e accettare qualsiasi compromesso. La banalità dello scontro tra i due mondi tra quello borghese-sereno-presuntamente sereno e monogamico e quello vagamente hippie, libero e artificiosamente felice traspare come un macigno nei dialoghi dove Emily Watson sembra avere sempre l’ultima parola come il famoso cinese dei fumetti di Nick Carter. Con l’amara constatazione che quel mondo sta per essere spazzato via e qualsiasi cosa viene detta o sancita è fatta soltanto di parole al vento.

Marco Spagnoli

seconda parte