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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Gennaio 2003

 I film di dicembre 2002/gennaio 2003  (II)

Prima parte

Che fine ha fatto Santa Clause? ( The Santa Clause 2) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Tim Allen - Judge Reinhold, Wendy Crewson, Elizabeth Mitchell, David Krumholtz, Spencer Breslin Sceneggiatura Don Rhymer e Cinco Paul & Ken Daurio e Ed Decter & John J. Strauss  Regia Michael Lembeck Anno di produzione 2002 Distribuzione Buena Vista Durata 98’

Scott Calvin è stato Babbo Natale per otto anni e i suoi fedeli folletti lo considerano il miglior Babbo Natale mai visto. Tuttavia il suo mondo viene sconvolto quando scopre che non solo suo figlio Charlie è finito sulla lista dei “cattivi” di quest’anno ma anche che, se non prenderà moglie entro la Vigilia di Natale (a cui manca solo un mese!), non potrà più continuare ad essere Babbo Natale! (La Signora Natale è prevista da una clausola del suo contratto). Disperato, Scott si rivolge ai suoi folletti e alla loro fantastica invenzione, una macchina in grado di riprodurre qualsiasi cosa, affinché creino un’altra versione di se stesso che prenda il suo posto per qualche tempo. Le cose presto precipitano al Polo Nord, luogo in cui Babbo Natale II detta nuove leggi su ciò che debba essere comunemente definito “buono” o “cattivo”; e come se ciò non bastasse, Scott si innamora di una potenziale Signora Natale che cerca di seminare discordia tra lui e Charlie. In un crescendo in cui Babbo Natale, la neo Signora Natale e i folletti si schierano tutti contro Babbo Natale II e il suo esercito di soldati di latta, il futuro della famiglia di Scott, il Polo Nord e il Natale stesso vengono pericolosamente minacciati. Basterebbe la trama a dare il senso di un film divertente, ma non esilarante che con garbo, ironia e tanta prevedibilità si pone come l’ennesima variazione sul tema. Certo, ci sono molti elementi divertentissimi come la renna mangia dolci e la fatina dei denti stufa del suo nome, eppure una sceneggiatura un po’ fiacca e non particolarmente brillante si pone come l’ennesimo inno al consumismo (i regali di quando eravamo bambini sono quelli che ci rendono davvero felici), invece, di puntare sui temi più fantastici presenti nel film. Del resto queste sono ambizioni anche un po’ ingenue per una pellicola molto onesta che è esattamente ciò che sembra. Il seguito di un film di successo che esce al cinema al momento giusto.

Insomnia {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Al Pacino – Robin Williams – Hilary Swank Sceneggiatura Hilary Seitz Regia Christopher Nolan Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Medusa Durata 114’

Prodotto da Steven Soderbergh, Insomnia è la versione ambientata in Alaska di un thriller scandinavo del 1997 per la regia di Erik Skjoldbjaerg e interpretato da Stellan Skarsgaard. Christopher Nolan, regista diventato di culto dopo Memento, dirige in maniera estremamente efficace questo film che pur con qualche concessioni ai rituali hollywoodiani, cattura lo spettatore con un ritmo serrato ed intrigante, pieno di colpi di scena che precipitano l’azione verso un finale prevedibile, anche se tutt’altro che scontato. La pellicola, apprezzata in maniera quasi unanime dalla critica americana, è costata circa 46 milioni di dollari (di cui ben undici intascati da Al Pacino) e ne ha incassati 67 al box office statunitense. Girato in dieci settimane il film racconta la storia di due poliziotti di Los Angeles spediti in Alaska ad investigare sull’omicidio di un’avvenente diciassettenne. Will Dormer, leggendario investigatore californiano, durante la perlustrazione uccide inavvertitamente il suo collega Martin Donovan, con cui – peraltro – aveva platealmente litigato la sera prima.  Anziché denunciare il crimine, Dormer (ironia dell’assonanza italiana per un cognome del genere per un personaggio che soffre di insonnia anche per i sensi di colpa…) afferma di essere stato aggredito dall’assassino, autore anche dell’omicidio del collega. In realtà l’omicida era davvero presente sulla scena del delitto ed inizia a ricattare il poliziotto, lacerato dai rimorsi e dall’insonnia dovuta al sole di mezzanotte. In più una detective locale, messo da parte il timore reverenziale nei confronti della fama dell’uomo, inizia a condurre un’indagine personale sulla morte di Donovan. Il trentaduenne regista londinese Christopher Nolan aveva inizialmente considerato la possibilità di affidare a Harrison Ford il ruolo andato poi ad Al Pacino. Una scelta che si è rivelata più che felice visto e considerato lo stato di grazie con cui l’attore italo – americano ha affrontato un ruolo complesso e pieno di sfumature. Ma c’è anche qualcosa in più: il messaggio alla base del film. Se negli anni Trenta i film noir fatti di bionde fatali e di duri dal cuore tenero, rimandavano sempre all’idea che il crimine non paga, Insomnia è un film sull’importanza dei mezzi che non possono essere mai giustificati dai fini. Una pellicola che pur lontana dal moralismo si rifà suo malgrado ad un’ideale di purezza tutt’altro che da sottovalutare che fa considerare l’insonnia  del titolo (l’abbaglio, la chiarezza eccessiva, etc…) anche sotto un’interessante metafora esistenziale. Una pellicola intensa e per molti versi disturbante sulla confusione dei toni e dei ruoli in un mondo depauperato del limite tra buoni e cattivi. Da non perdere anche per la qualità elevata della recitazione degli attori, nonché per il forte afflato visionario che dona una nuova prospettiva all’incarnazione del Male.

K-19 {Sostituisci con chiocciola}

Harrison Ford – Liam Neeson – Peter Sarsgaard Sceneggiatura Christopher Kyle Regia Kathryn Bigelow Anno di produzione USA 2002 Distribuzione 01 Durata 140’

L’ultimo film di Kathryn Bigelow risulta decisamente minore rispetto agli immediati predecessori da Strange Days a Il mistero dell’acqua. Se da un lato manca di quello stile visionario che ha fatto di questa regista una delle più importanti autrice di cinema d’azione e di suspence al femminile, d’altro canto la statica claustrofobia che è la base di qualsiasi thriller ambientato in un sommergibile, non si riesce a rompere nonostante i veloci movimenti di macchina e – soprattutto – la tensione addotta al film dal fatto che sia stato ispirato ad una storia vera. Certo, la Bigelow fa di tutto per trascinarci sull’orlo dello scoppio involontario della terza guerra mondiale seguendo una girandola di avvenimenti decisamente preoccupanti. Il problema è semmai che non funziona l’alchimia tra Harrison Ford e Liam Neeson (così come peraltro non era funzionata nemmeno quella tra Denzel Washington e Gene Hackman per Allarme Rosso di Tony Scott) inficiando l’intera lettura di un film troppo lungo ed eccessivamente ibrido. Né documentario, né versione romanzata K-19 soffre di un mancato bilanciamento di realismo e fantasia. Ispirato a un fatto realmente avvenuto, il film racconta l’eroismo del capitano Alexei Vostrikov (Harrison Ford) che, al culmine della Guerra Fredda, riceve l’ordine di sostituire il capitano Mikhail Polenin (Liam Neeson) al comando del sottomarino nucleare K-19, e di metterlo a disposizione, anche se non ancora del tutto pronto, per il viaggio inaugurale, a ogni costo. Ma Vostrikov, Polenin e il leale equipaggio del K-19 non immaginano neppure cosa ci si aspetta da loro. E non sanno quale potrebbe essere il prezzo del fallimento, per loro stessi e per il mondo intero, quando un reattore nucleare va in avaria, minacciando un’esplosione che sicuramente ucciderebbe tutti quelli a bordo. Mentre scivolano silenziosamente nelle acque dell’Artico, è il coraggio dell’equipaggio e il comportamento responsabile di Vostrikov, nei confronti del suo paese e dei suoi uomini che salverà il K-19 … evitando quello che sarebbe stato sicuramente un disastro nucleare di proporzioni inimmaginabili. Una trama complessa, ma poco coinvolgente per un film inspiegabilmente più rivolto all’azione (limitata dagli spazi risicati) che a suscitare vere ed emozioni simpatetiche con i protagonisti.

El Alamein {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Pierfrancesco Favino – Paolo Briguglia – Luciano Scarpa – Emilio Solfrizzi Sceneggiatura e Regia Enzo Monteleone Anno di produzione Italia 2002 Distribuzione MEDUSA Durata 120’

Pur ispirato da un lodevole intento storicistico, molto lontano dalle anacronistiche prese di coscienza invocate da certa stampa di sinistra, El Alamein soffre di alcune pesanti carenze dal punto di vista narrativo. Illuminato da un’eccezionale fotografia sabbiosa (la più bella dell’anno insieme a quella di Respiro di Emanuele Crialese) e interpretato in maniera molto solida da un gruppo di giovani attori poco conosciuti e molto affiatati, El Alamein soccombe nel suo volere essere  involontariamente una sorta di “Deserto dei Tartari” post moderno, ma corretto dal punto di vista storico, in cui la battaglia in cui morirono oltre novemila soldati italiani sembra passare in secondo piano rispetto all’attesa del combattimento (risolto in poche sequenze) rispetto lunghissimi dialoghi ed ancora più tediose passeggiate attraverso il deserto. La sensibilità di Monteleone, infatti, pur avvicinandoci in maniera mirabile allo spirito che regnava nelle trincee italiane popolate di soldati male armati, peggio nutriti, e quasi per nulla equipaggiati, perde spessore e compiutezza quando tenta di fotografare l’anima di un gruppo di soldati diventati eroi per caso di una guerra che non avevano mai veramente compreso prima del suo atto finale. Per quanto l’umanità dei protagonisti sia raccontata in dettaglio, complici anche una serie di interviste che il regista ha effettuato tra i superstiti delle nostre divisioni, presentate a Venezia nel toccante documentario I ragazzi di El Alamein, Monteleone sembra non riuscire a tirare perfettamente le trame di una narrazione che spesso risulta frammentaria, aneddotica ed irrisolta. Un atto dovuto comunque alla memoria di tanti eroi senza nome, per uno dei migliori film di guerra italiani di sempre, perché in grado di rinunciare senza mezzi termini al ricatto della commedia all’italiana per cui “gli italiani brava gente” sapevano fare anche tanto ridere. Una pellicola che avrebbe necessitato di una maggiore compattezza narrativa (perfino forzosa) per coinvolgere davvero lo spettatore.

Femme Fatale {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Rebecca Romjin Stamos – Antonio Banderas – Peter Coyote Sceneggiatura e Regia Brian De Palma Anno di produzione Francia 2002 Distribuzione Medusa Durata 112’

Dopo un decennio incerto fatto di film discutibili e forse non del tutto nelle sue corde come Mission to Mars, Mission Impossible e Snake eyes, Brian De Palma ci regala un capolavoro di gusto ed intelligenza stilistica, figlio delle suggestioni del cinema noir portate all’estremo. Tra ironia e sensualità, trovando il suo punto di forza in una regia straordinaria e in una sceneggiatura erede del fatalismo e della spiritualità del cinema in bianco e nero, Femme Fatale è una pellicola emozionante e coinvolgente di cui è protagonista Rebecca Romjin Stamos, già nota per X men e Rollerball.

Elegante e raffinato Femme Fatale in certi momenti raggiunge i livelli di una sorta di “surrogato cinematografico” del Viagra. La bellezza della Stamos, la sua sensualità al tempo stesso dirompente e fragile come quella di tutte le peggiori cattive ragazze del grande schermo, rendono il film un viaggio casualmente quasi alla Kieslowski sul tema della scelta e della redenzione. Tutto, però, incomincia – guarda caso - durante il Festival del cinema di Cannes, di fronte ad un televisore su cui sono presenti le immagini del Dvd del capostipite dei film Noir La fiamma del peccato. Lì troviamo una ragazza perfetta nella sua nudità sfrontata che – manco a dirlo – è la pericolosa creatura di cui ogni uomo è al tempo stesso spaventato e profondamente innamorato. 

Cinema nel cinema, per dimostrare sin da subito che qui si tratta di una favola e non certo di una riflessione sociologica. De Palma cautamente conduce lo spettatore sul terreno delle infinite possibilità che ci vengono offerte dall’arte cinematografica.

Laura Ash (Rebecca Romjin Stamos), infatti, è una tentatrice nata, una bellezza mozzafiato: una “femme fatale”. Sette anni dopo una temeraria rapina ad una gioielleria durante il Festival del cinema, la donna torna in Francia con una nuova identità. Un paparazzo di nome Nicolas, le scatta una foto mettendo a repentaglio la sua vita. Ma la sua curiosità per questa "donna"  si rivelerà fatale? E’ questo il quesito su cui viene costruita una sceneggiatura perfetta che De Palma dirige con una freschezza ed una perizia impressionanti. In più la simpatia di Antonio Banderas e il pericolo che insegue la donna per tutto il film, mescolati ad una serie di dettagli, rendono Femme Fatale una di quelle opere da vedere e rivedere. Una celebrazione estetica della bellezza femminile del terzo millennio, un omaggio al genere noir e alle sue fascinazioni, ma soprattutto una storia spettacolare in cui rendere giustizia a tutte le donne cattive dello schermo, attraverso l’ultima creatura che arriva dopo Barbara Stanwyck e Lauren Bacall. Questa Rebecca Romjin Stamos che presta il volto ed il corpo ad una “marcia bisessuale molto cattiva” trovando spazio e forza per una redenzione tutt’altro che attesa. Una pellicola sulle infinite possibilità dell’esistenza, una riflessione filosofica e antropologica esaltata da una grande sensualità e dal senso di un grandissimo cinema. Uno dei migliori film degli ultimi anni, un capolavoro di tono e di gusto, di cui non resta che attendere con ansia il Dvd.

L’uomo del treno (L’homme du train) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Johnny Halliday – Jean Rochefort Sceneggiatura Claude Klotz Regia Patrice Leconte Anno di produzione Francia 2002 Distribuzione Mikado Durata 90’ 

E’ una fiaba postmoderna su una seconda possibilità quella che il regista Patrice Leconte ha voluto costruire con due attori straordinari come Jean Rochefort e il cantante pop Johnny Halliday. Un’interpretazione straordinaria quella dei due protagonisti per un film che è stato molto apprezzato allo scorso Festival del cinema di Venezia. La storia è quella di un rapinatore di banche che – per caso – finisce a casa di un professore di liceo in pensione. Se il primo è affascinato dal secondo per la vita regolare e tranquilla che lui non ha mai vissuto, né potuto vivere, l’altro è disperatamente sedotto dall’esistenza senza legami condotta dal suo misterioso ospite. Girato con uno stile molto originale che contraddistingue il cinema di Patrice Leconte, L’uomo del treno vive di alcune suggestioni noir mescolate alla commedia, per una riflessione disincantata, ma anche profondamente coinvolgente sulla mezza età e sui rimpianti riguardo il passato. Non solo, è anche un’analisi poetica e al tempo stesso paradossalmente cinica sulle varie modalità con cui affrontare l’esistenza. Se da un lato, infatti, abbiamo gli uomini che hanno sempre uno spazzolino di ricambio e le pantofole nello stesso posto, dall’altro ci sono anche persone che prendono il treno senza spazzolino e che vivono una vita senza pantofole. Una divisione quasi categorica dell’esistenza in un film intenso e coinvolgente sulle modalità di godere la vita e al tempo stesso una divertente, ma avvincente commedia noir con un unico difetto. Un finale pasticciato ed incerto non all’altezza del resto del film, né visivamente, né spiritualmente. 

Reign of fire {Sostituisci con chiocciola}

Christian Bale – Matthew McCounaghey – Isabella Scorupco – Gerald Butler Sceneggiatura Greg Shabbot & Kevin Peterka Regia Rob Bowman Anno di produzione USA – UK 2002 Distribuzione Buena Vista Durata 105’

Il regista di tanti episodi della serie X files nonché del primo lungometraggio con David Duchovny e Gillian Anderson ha il suo bel daffare nel plasmare sotto il profilo visivo la storia nata dall’ideale incontro tra le suggestioni di Jurassic Park e i film post atomici. Peccato che Reign of fire nonostante le animazioni interessanti di questi draghi volanti, fotografati con un colore virato verso il seppia per dare al tutto un arcigno tono industriale, non riesca ad andare oltre la riproposizione del cliché drago – caviliere – scontro. Questi animali mitologici risvegliati per caso dai lavori in un cantiere londinese, hanno iniziato a dominare il pianeta, diventando anche protagonisti di un film dalla sceneggiatura pessima, in cui tutto il peggio e il prevedibile emerga senza pietà né per i draghi, né per gli spettatori increduli nel vedere Christian Bale e Matthew McCounaghey (attori poco più che trentenni) impegnati a scimmiottare il peggiore cinema del genere fantastico catastrofico. Certo, la pellicola è spettacolare (e ci mancava pure…), ma è anche costantemente alla ricerca di se stessa per differenziarsi dal passato. E questo si vede, soprattutto, quando l’inevitabile (ma è davvero così?) scontro tra umani e draghi avviene sul terreno della forza. Nessuna intelligenza diversa, nessun afflato particolare, nessuna tentazione di dare una sterzata mistica o ipertecnologica alla narrazione che rimane soltanto un aggiornamento pedissequo delle favole medievali di cavalieri intrepidi e di interi villaggi in pericolo. Della serie: tiriamo fuori i draghi, ma rendiamo più attuali i cavalieri…una scelta che poteva risultare interessante e che, invece, naufraga nel peggiori qualunquismo narrativo.

The Bourne Identity {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Matt Damon – Franka Potente – Chris Cooper – Brian Cox – Julia Stiles  Sceneggiatura Tony Gilroi tratta dall’omonimo romanzo di Robert Ludlum Regia Doug Liman Anno di produzione USA 2002 Distribuzione UIP Durata 120’ 

Quello che più colpisce di The Bourne Identity è la sua straordinaria capacità di rimanere nelle linee di una narrazione secca eppure intensa, in cui lo spettatore non è mai davvero troppo avanti rispetto il protagonista Jason Bourne. L’uomo ripescato da un peschereccio italiano al largo di Marsiglia ha due pallottole nella schiena, il numero di un conto svizzero cucito sotto pelle e non ricorda il proprio nome. Ed è così che Bourne si presenta al pubblico. Un volto senza identità. Lo spettatore, pian piano segue Matt Damon (un attore al solito in grado di mostrare una grande empatia) nel suo stupore riguardo le capacità meccaniche che riacquista lentamente. Da un lato Bourne è in grado di maneggiare con destrezza coltelli e pugnali, dall’altro non ha memoria di un solo istante della propria vita. Così è costretto a seguire a ritroso le tracce verso una banca svizzera in cui scoprirà qualcosa di molto pericoloso. Spy story aggiornata ai ritmi e alle seduzioni del terzo millennio, The Bourne Identity è un film intrigante ed interessante in cui lo spettatore rischia per la prima volta di sentirsi fortemente identificato nei protagonisti della storia, visto che sia Matt Damon che Franka Potente sono attori “accessibili” e – in apparenza – molto normali. Il resto è un thriller fatto di doppiogiochismo, alta tecnologia, interessi sporchi e – soprattutto – incentrato su una narrazione figlia delle suggestioni dei videoclip di MTV, su un mondo sporco senza bandiere e senza ideali in cui, però, la coscienza e l’etica possono arrivare a trionfare. Una pellicola piacevole e molto interessante che rappresenta uno dei migliori e più “semplici” (dal punto di vista narrativo, non della costruzione visiva) film di spie degli ultimi anni

Austin Powers 3 – Goldmember {Sostituisci con chiocciola}

Mike Myers – Beyonce Knowles – Michael Caine – Michael York Sceneggiatura Mike Myers Regia Jay Roach Anno di produzione USA 2002 Durata 90’

Il terzo episodio di Austin Powers pur avendo nel titolo un riferimento chiaro allo 007 di Goldfinger è ambientato nel decennio successivo al terzo episodio bondiano, con una celebrazione della musica disco e degli anni Settanta. Sebbene i rimandi cinematografici siano a 007 Si vive solo due volte, la pellicola di Mike Myers (forse la migliore della serie) è tenuta su da una serie di divertenti cameo che è meglio non chiarire per non rovinare l’unico motivo di interesse verso questa pellicola che accentua per l’ennesima volta il gusto per la citazione e per il cinema nel cinema.

Il resto è la solita caterva di sconcezze più o meno gratuite, situazioni comico demenziali e sozzerie varie. La bella di turno (dopo Elizabeth Hurley e Heather Graham) è Beyonce Knowles, lead vocalist delle Destiny’s child, impegnata con il suo personaggio di Foxxy Cleopatra a fare il verso ai film di blaxploitation degli anni Settanta che hanno reso famose attrici come Pam Grier, recentemente rivista in Jackie Brown di Quentin Tarantino. Certo, era lecito attendersi qualcosa di più da questo ennesimo confronto tra il controspione scongelato e il suo mortale nemico il Dottor Male accompagnato dal suo mini clone – Mini Me. Purtroppo, però, anche la presenza carismatica di Michael Caine rappresenta poco più che un divertissment per una franchise che sembra definitivamente avere esaurito le peraltro poche idee principali. Non ci resta che vedere e rivedere i cameo di prominenti figure del cinema hollywoodiano. Almeno quelle (come in passato la presenza di Burt Bacharach e Elvis Costello) hanno un senso ed ottengono un risultato.

Spider {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Ralph Fiennes – Mirando Richardson – Gabriel Byrne Sceneggiatura Patrick McGrath Regia David Cronenberg Anno di produzione UK – Canada 2002 Distribuzione Fandango Durata 98’

Tratto dal romanzo omonimo di Patrick McGrath, la versione cinematografica che David Cronenberg ha voluto costruire sulle psicosi disperate di un uomo solo e sofferente è – naturalmente - figlia del cinema dell’autore canadese, con tutto quello che questa appartenenza “forte” comporta nel bene e nel male. Chi ama il lavoro del di Cronenberg potrà quindi passare sopra la volgarizzazione (anche visiva) un po’ eccessiva del testo di McGrath e soprattutto sul fatto che non si riesca mai davvero ad essere avvolti dalla claustrofobica cappa di follia del protagonista.
Chi non è un fan del lavoro del regista de La mosca, invece, partendo dall’assunto che il cinema non sia un’arte complementare e che l’unica maniera per adattare un romanzo per lo schermo è quella di tradire l’originale, dovrà riconoscere che Cronenberg è stato straordinario nella resa minimalista dell’azione e nell’interpretazione degli attori. In questo senso sia Ralph Fiennes, che la Miranda Richardson interprete della maggior parte delle donne presenti sullo schermo, danno un’ottima prova di sé nel rendere al meglio quella che è esattamente la visione che Cronenberg vuole dare del romanzo. Qualche dubbio, però, resta sulle soluzioni visive della follia e della psicosi. Dopo A beautiful mind e altre pellicole che coinvolgono ed esaltano la soggettività del pubblico riguardo la malattia, Spider, pur essendo omogeneo alla poetica del suo autore, sembra limitato nel mantenere lo spettatore in qualche maniera esterno al nucleo vitale della narrazione. Una scelta personale e – ovviamente – non casuale di Cronenberg che si appella alla sensibilità individuale dello spettatore per un riscontro emotivo sincero ed avvolgente, nonché per una parola finale di apprezzamento o rifiuto.

Ma che colpa abbiamo noi? {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Carlo Verdone – Anita Caprioli – Margherita Buy – Stefano Pesce – Antonio Catania Sceneggiatura Carlo Verdone, Fiamma Satta, Pasquale Plastino, Piero De Bernardi Regia Carlo Verdone Anno di produzione Italia 2002 Durata 116’

Il film della maturità per Carlo Verdone? No, il momento è ancora rimandato anche se Ma che colpa abbiamo noi? si avvicina – e di molto – alle possibilità che il simpaticissimo e talentuoso regista romano può sfruttare. Cosa manca a questo film? Nulla, perché il risultato è sicuramente centrato, ovvero Verdone ha realizzato esattamente la pellicola semi seria e agrodolce che voleva fare. Il problema è semmai che gli è mancato il coraggio sufficiente per dare un taglio netto al passato rimuovendolo del tutto. Quando Verdone dimentica di essere il Verdone che tutti vorrebbero fosse, allora il film funziona. Quando Verdone cerca di mantenersi nei canoni di un cinema rassicurante (soprattutto dal suo punto di vista), allora tutto sembra funzionare sempre di meno. Quando la commedia è studiata non funziona, quando la commedia emerge senza sottolineature, ecco che il film conquista quello spazio e quella dinamica che è lecito attendersi da una persona colta ed intelligente come Carlo Verdone che – in Ma che colpa abbiamo noi? – affronta la psicanalisi e le sue illusioni attraverso i personaggi di Gegè, Luca, Gabriella, Chiara, Ernesto, Alfredo, Marco e Flavia che - in comune – hanno solo quell’ora settimanale in cui si ritrovano tutti insieme per fare terapia di gruppo dall’anziana dottoressa Lojacono. Ed è lì che li vediamo per la prima volta. Talmente sono presi dal raccontarsi, da non accorgersi che la psicanalista è morta sotto i loro occhi. Ai nostri non rimane che rientrare mestamente nelle loro solitudini, spaesati, disperati e consapevoli di aver perso un loro importante punto di riferimento. Gegè, un cinquantenne brillante, alle prese con il dominio psicologico di un padre-padrone da cui non è mai riuscito ad emanciparsi crede che le tenerezze di una giovane amante possano essere un sufficiente sollievo; Luca, raffinato e scontroso omosessuale, pur accettando pienamente la sua diversità, non riesce a tagliare i faticosissimi legami che lo rendono schiavo di un uomo sposato con figli; Gabriella, vogliosa signora cinquantenne, con il terrore di invecchiare e di rimanere ancora più sola di quanto non sia; Chiara, bella universitaria alla continua ricerca di cibo e d’amore; Ernesto invece l’amore ce l’ha, fortissimo, per sua moglie. Peccato che lei, per punirlo di un fugace tradimento, lo abbia buttato fuori di casa, costringendolo a trovar sonno solo sui treni; Alfredo, orchestrale gioviale e pieno di fede, a quarant’anni vive ancora con la madre anziana; Marco, ultimo arrivato nel gruppo, è un trentenne silenzioso, ma la sua particolarissima casa, piena di suoni e di immagini, parla per lui; Flavia, bella professoressa che vive sola con la sua gatta, a trentacinque anni non ha ancora trovato l’uomo giusto, perciò si accontenta di un uomo sposato troppo indaffarato per dedicarle più di qualche sporadico momento d’amore…Alla morte della psicanalista i nostri decidono di continuare a vedersi settimanalmente per proseguire da soli le sedute di terapia. L’unico a tirarsi indietro è Alfredo, che confida molto nelle sue forze.  Una commedia corale, evidentemente non troppo facile da gestire che ha i suoi momenti migliori quando dell’esperienza verdoniana del passato mantiene solo un’incosciente freschezza. Per il resto da notare le interpretazioni straordinarie di un cast di attori notevoli con – su tutti – Anita Caprioli, Antonio Catania e una Lucia Sardo decisamente irriconoscibile dopo l’interpretazione della madre di Peppino Impastato ne I cento passi. Anche questo un altro titolo di merito per Verdone, regista e attore da cui è più che naturale attendersi altre belle sorprese in futuro.

Marco Spagnoli

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