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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Gennaio 2003

 I film di dicembre 2002/gennaio 2003 (I)
 

Il Signore degli Anelli – Le due torri (Lord of the Rings – The Two Towers) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Elijah Wood – Ian McKellen – Viggo Mortensen - Liv Tyler – Cate Blanchett – John Astin – Orlando Bloom – Miranda Otto – David Wenham Sceneggiatura Frances Walsh Regia Peter Jackson Anno di produzione USA – UK – NZ 2002 Distribuzione MEDUSA Durata 180’

E’ tempo di guerra nella Terra di Mezzo…E’ tempo che il destino si compia. Ed è tempo che arrivi anche in Italia questo straordinario film che Peter Jackson porta davanti al pubblico mondiale ad un anno esatto dall’uscita del suo fortunato predecessore. Un periodo di tempo da molti fans considerato lunghissimo, interrotto – fortunatamente – dalle uscite di Dvd antologici e dalle indiscrezioni sui capitoli successivi a La compagnia dell’anello. Come era capitato in maniera inaspettata anche per la seconda puntata della saga di Harry Potter anche Le due torri riesce a superare l’originale in intensità e spettacolarità. Prendendo le mosse esattamente dove avevamo lasciato i resti della compagnia dell’anello, ecco che la storia si divide in tre tronconi. Da un lato abbiamo Frodo e Sam che – inseguiti da Gollum – combattono eppoi fanno amicizia con questa enigmatica creatura completamente realizzata in digitale. Chi era rimasto sorpreso dallo Yoda di Episodio 2 con questo film si sentirà – non solo in senso spirituale e metafisico – condotto in un altro mondo. Gollum che in originale ha la voce di uno straordinario Andy Serkis, ha delle animazioni perfette non solo nei movimenti, quanto piuttosto nelle espressioni facciali che lasciano intendere il dramma della sua anima lacerata che solo Padron Frodo – in un certo senso – riesce a toccare, intuendone la sofferenza. L’altro gruppo è quello di Gimli e Brandybuck: rapiti dall’esercito di Saruman, riescono miracolosamente a trovarsi in una foresta popolata da alberi tutt’altro che disposti a vedere iniziare una guerra senza esserne protagonisti. L’anima naturalista ed ecologista (nel senso più puro del termine) del romanzo tolkeniano prende forma come un sogno meraviglioso dinanzi ai nostri occhi, quando le querce si ribellano all’appetito per la distruzione della Natura dimostrato dal mago corrotto. Terzo ed ultimo troncone è quello rappresentato da Aragorn e compagni che finiscono nel reame di Rodan dopo essere stati lì guidati da Gandalf il bianco e non più “il grigio” dopo la sua resurrezione (Lo si vede anche nel trailer, e quindi prego di non considerare questa digressione uno spoiler…). Ma Le due torri, libro che è bene ricordarlo fu pubblicato l’11 settembre (controllare per credere…) del 1954 è soprattutto un film sulla guerra degli uomini e dei loro alleati contro un esercito infernale. Una celebrazione mitologica del confronto tra le forze del Bene e del Male che Jackson rende in maniera strepitosa dal punto di vista registico. Pur durando tre ore, anche il secondo capitolo della saga non solo non annoia mai, ma esalta lo spettatore in virtù di una forza visiva e narrativa superiori a quelle de La compagnia dell’anello che – per forza di cose - doveva un po’ mettere al corrente lo spettatore digiuno dal romanzo di ciò che stava per vedere. Anche Le due torri, continuando a sviluppare la storia attraverso il viaggio emotivo e fisico dei protagonisti, presenta nuovi personaggi: Théoden (Bernard Hill), Re di Rohan, stregato da un incantesimo di Saruman,  Eowyn (Miranda Otto) vedova del figlio del Re e con una crescente passione per Aragorn, Faramir (David Wenham) fratello del compianto Boromir (Sean Penn) che per primo aveva tradito la compagnia. Trasfigurato da una colonna sonora ancora più rarefatta e nelle corde dello spirito del pubblico alla ricerca di qualcosa che vada oltre (Sheila Chandra e Emiliana Torrini “fanno fuori” Enya), Le due torri brilla nel suo essere una discesa verso gli abissi della violenza e della guerra, quando tutto il mondo intorno sembra crollare, alla ricerca della speranza per un futuro migliore. Più mistico di Excalibur e più avvolgente de La compagnia dell’anello, Le due torri rappresenta uno dei momenti più alti della storia del cinema. Nonostante le sue evidenti limitazioni: il fatto – sostanzialmente – di non finire (ma il suo finale è meno cruento e repentino rispetto al predecessore) e – soprattutto – di essere l’episodio centrale di una saga che – a conti fatti – rappresenterà senza dubbio una di quelle di maggior successo (peraltro meritato).

Un film emozionante che condurrà lo spettatore in un altro mondo alla ricerca sì dell’intrattenimento, ma anche dello stesso messaggio etico e spirituale contenuto all’interno del romanzo di Tolkien. Lontano dalle luci della Contea e dai sogni di ragazzo di Frodo, la battaglia finale si sta avvicinando…

Tutta colpa dell’amore (Sweet Home Alabama) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Reese Whiterspoon – Josh Lucas – Patrick Dempsey – Candice Bergen Sceneggiatura C.Jay Cox Regia Andy Tennant Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Buena Vista Durata 108’

“Una provinciale a New York – La rivincita della provincia.” Potrebbe essere il titolo ideale di questo film che si rifà alla lontanissima al medesimo spirito della famosa pellicola di quaranta anni fa con Jack Lemmon e – più concretamente - all’idea della Grande Mela come vero faro di un’intera nazione.

Una commedia in cui la ragazza venuta dalla provincia che ha conquistato il  successo come stilista, diventa la fidanzata del figlio del primo sindaco donna di New York. Costretta a tornare a casa per chiedere – finalmente - al marito il divorzio, sembra riscoprire inaspettatamente i pregi dei luoghi e delle persone da cui era scappata. Una storia di equivoci prevedibili di cui è protagonista una divertente Reese Whiterspoon che dopo La rivincita delle bionde si propone come una delle attrici di maggiore successo per quanto riguardo l’ambito della commedia giovanile americana. Marcatamente statunitense, la rivalità continua tra Nord e Sud nonostante la guerra di secessione e – soprattutto – il passare del tempo è uno dei temi caldi di un film in cui gli amori giovanili, l’adolescenza e la monotonia della provincia si scontrano idealmente con il glamour newyorchese. Una rivincita un po’ ingenua e leggera dello spirito rurale, dove tutto va a posto per conto suo.

Un’erede lontana delle commedie con Cary Grant e Katherine Hepburn come Susanna, con l’unica differenza che il passare del tempo ha reso tutto più prevedibile e deja vu.Nonostante questi difetti, uno dei maggiori successi della stagione in corso in America…da non credersi…

Harry Potter e la camera dei segreti (Harry Potter and the chamber of secrets) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Daniel Radcliffe – Rupert Grint – Emma Watson – Kenneth Branagh – Richard Harris – John Cleese – Robbie Coltrane – Jason Isaacs – Alan Rickman – Fiona Shaw – Maggie Smith – Julie Waltes Sceneggiatura Steve Kloves Regia Chris Columbus Anno di produzione UK 2002 Distribuzione Warner Bros. Durata 159’

Più maturo (e non solo fisicamente) Harry Potter torna con un altro film ingiustamente bollato dalla stampa americana come “più dark” rispetto al suo predecessore. In realtà La camera dei segreti è una pellicola maggiormente incentrata sulla vita a Hoghwarts e sulle magie che il giovane Harry deve portare avanti per salvare se stesso e i suoi amici da un complotto che potrebbe rivelarsi fatale non solo ai suoi danni, ma anche a quelli dell’intera scuola. E’ per questo che la trama del film è sviluppata principalmente sul rapporto di amicizia e lealtà tra i tre protagonisti (Harry, Hermione e Ron) piuttosto che sulla presentazione della scuola e del mondo dei maghi, com’era giusto fosse, nella prima pellicola. Al gruppo originario, poi, si aggiungono Kenneth Branagh in un ruolo puramente comico (una specie di prodotto mediatico della stregoneria, una sorta di sbruffone tuttologo, buono solo a parole…) e Jason Isaacs (Il patriota, Black Hawk Down) sotto il mantello dell’infido padre di Draco Malfoy. Una pellicola migliore e più intensa in cui – nonostante la durata notevole – il tempo scorre piacevolmente nel seguire una storia dalle fila serrate ed eleganti. Siamo esattamente dove ci ha lasciato l’altro film. Harry è tornato a vivere a casa degli zii per le vacanze estive e – come al solito – non è bene accolto.Non ha trascorso delle belle vacanze. Non solo ha dovuto subire la dispotica zia Petunia e il prepotente zio Vernon e il loro terrore per le sue doti magiche, ma sembra che anche i suoi migliori amici Ron Weasley (e Hermione Granger lo abbiano dimenticato, nessuno dei due ha mai risposto alle sue lettere. Gli appare allora improvvisamente Dobby, un elfo domestico, che lo avverte dell'enorme pericolo che lo attende al suo ritorno alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.

Dobby è così ansioso di impedire al giovane Grifondoro di tornare a Hogwarts, che ha bloccato tutte le lettere di Ron e di Hermione. Malgrado i suoi sforzi però, Harry riesce a sfuggire ai Dursley grazie a Ron e ai suoi fratelli, che lo portano in salvo a bordo di una macchina volante. Harry sarà quindi ospite della famiglia Weasley fino all'inizio della scuola. Harry e Ron però non riescono a raggiungere il Binario 9 e 3/4 e a prendere il treno per Hogwarts. Per evitare di arrivare in ritardo, risalgono a bordo della macchina volante, ma finiscono fra le grinfie del professor Piton (che chiede la loro espulsione quando la Ford Anglia si schianta contro il Platano Picchiatore della scuola. Harry è ormai famoso a Hogwarts e si trova al centro di troppa attenzione. Fra i suoi nuovi ammiratori ci sono la sorellina di Ron, Ginny il sedicente fotografo Colin Creevey e purtroppo anche il nuovo professore di Difesa contro le Arti Oscure, Gilderoy Allock. (Branagh). Spinto dalla sua enorme vanità, Allock desidera ardentemente quelle attenzioni che Harry evita, ma neppure lui riesce a spiegare il terrore che si è impadronito della scuola. Un film divertente, ma anche più dosato rispetto al predecessore, e totalmente incentrato sul mistero che Potter risolverà brillantemente anche se non senza qualche difficoltà. In più – e vale la pena sottolinearlo – sembra che lo stesso Chris Columbus, messa da parte il desiderio di mostrare a tutti i costi la grandiosità della produzione, si concentra sull’azione e sullo sviluppo psicologico dei protagonisti. Sappiamo delle lacerazioni interne che scuotono i tre protagonisti: Harry teme di potere essere un Serpe Verde, Ron si vergogna un po’ della sua famiglia sgangherata e non particolarmente abbiente, Hermione si sente osteggiata da Draco Malfoy, perché i suoi genitori sono “Babbani”. Insomma non c’è più soltanto la grandiosità della messa in scena come al solito molto fedele ai romanzi di J.R. Rowling, ma c’è anche un tentativo di sviluppare una pellicola meno solare e decisamente più rivolta al cuore della narrazione dei romanzi e all’eterno scontro tra Bene e Male. Un film originale, molto divertente e riuscito che non solo non sfigura, ma – per molti versi – supera il capostipite di quella che si annuncia una lunga serie di film, nonostante la sfortunata dipartita di Richard Harris dal ruolo di Albus Silente (si nota una certa sofferenza durante le inquadrature che lo riguardano) verso il grande cinematografo dei cieli.

Il mio grosso grasso matrimonio greco (My big fat greek wedding) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Nia Vardalos - John Corbett Sceneggiatura Nia Vardalos Regia Joel Zwick Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Nexo Durata 94’

Sebbene pieno di luoghi comuni, questo piccolo film interpretato da una simpaticissima Nia Vardalos, autrice anche della sceneggiatura e del monologo che ha convinto Tom Hanks e sua moglie a produrre il film, ha sicuramente un grande pregio: quello di essere una pellicola onesta che non vuole essere nulla di differente da ciò che appare, ovvero una moderna rivisitazione etnica del mito di Cenerentola, mescolato alle suggestioni di Bridget Jones. Tula, infatti, una una trentenne greca immigrata di seconda generazione in America, lavora al ristorante dei genitori e segue usi e costumi della propria comunità (tradizionalista, sessista ma anche calorosa). Tutto questo nuoce alla sua vita di relazione, fino a quando non incontra un uomo che la ama così com’è… ma amerà anche i genitori di lei? E loro accetteranno uno “straniero”? Ovviamente nelle risposte a tali quesiti c’è il senso di un’intera commedia che la Vardalos sviluppa con quell’umorismo delirante a metà tra il Saturday Night Live e la classica Screwball Comedy all’americana. Al di là dei luoghi comuni, però, quello che funziona di più nel film sono due personaggi del tutto insoliti: un uomo bello e affascinante follemente innamorato di una donna e disposto a fare tutto per lei senza secondi fini, una madre che è una donna interessante e che gioca a raggirare il padre contribuendo a dimostrare che la questione del patriarcato è tutta una propaganda femminista…Scherzi a parte una pellicola leggera e gradevole sull’amore e sulle sue infinite possibilità.

Sognando Beckham (Bend it like Beckham) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Parminder Nagra,  Keira Knightley,  Jonathan Rhys-Meyers,  Anupam Kher Sceneggiatura e Regia Gurinder Chandha Anno di produzione UK 2001 Distribuzione Lucky Red Durata 112’

Jess (Parminder Nagra) è una diciottenne anglo-indiana con la passione sfrenata per il calcio. Così, grazie all’interessamento di un’amica entrerà a far parte di una squadra femminile, con risultati sportivi notevoli. Il problema è che la sua famiglia, abbastanza tradizionalista, non vede di buon occhio questa sua attività agonistica. Per lei sarebbe previsto un matrimonio rigorosamente indiano, l’università e figli da allevare. Eppure, dopo numerosi inconvenienti e litigi, la ragazza riuscirà a coltivare positivamente l’amore per questo sport fino ad una svolta che cambierà la sua vita.

Celebrazione di Beckham e della sua mitologia, Sognando Beckham è essenzialmente una commedia sui sogni della gioventù e sull’amore, nata sullo sfondo di quello stesso paesaggio urbano ed etnico che costituisce il sale del successo di film come East is East e della serie televisiva Goodness Gracious Me trasmessa anche nel nostro paese da Canal Jimmy nel pacchetto dell’ex Tele +.

Cinematograficamente molto valido, animato da una colonna sonora divertente e scatenata questo film è essenzialmente il racconto di un sogno adolescenziale ostacolato da qualcosa. Come in Billy Elliot era la danza qui abbiamo il calcio. Con l’unica differenza di scenario e di doppia analisi sociale visto che ai genitori della ragazzina di origine orientale, fanno da contraltare quelli della coetanea inglese, che sono preoccupati dalla passione della figlia per uno sport tutto maschile.

Un film divertente e prevedibile nel suo sviluppo con un gusto piacevole per un umorismo brillante di stampo tipicamente britannico.

Via dall’incubo (Enough){Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Jennifer Lopez – Juliette Lewis – Bill Campbell – Noah Wyle Sceneggiatura Nicholas Kazan Regia Michael Apted Anno di produzione Usa 2002 Distribuzione Columbia TriStar Durata 115’

Dopo Colpevole di innocenza il cinema torna ad avere a che fare con moglie moderne e il loro rapporto con i mariti violenti. Una questione che era presente, seppure a livello embrionale, anche nel precedente film con Jennifer Lopez Angel Eyes. Cameriera orfana, con i sogni di una vita migliore al college messi da parte per mancanza di fondi, Slim conosce un uomo meraviglioso: affettuoso, gentile, tenero, innamorato. La ricchezza di lui la mette al riparo dalla fatica del lavoro e la ragazza dopo il matrimonio si dedica alla cura della loro figlioletta. Un giorno, però, Slim viene a sapere del tradimento sistematico che il marito porta avanti a suo danno. Interrogato a tale riguardo l’uomo non solo non nega, ma continua a comportarsi così adducendo giustificazioni del genere maschilista: “Io porto i soldi a casa e ti faccio fare la signora…avrò diritto a sfogarmi..” Slim non ci sta, tenta di scappare e dalle parole si passa ai fatti facendo cadere la donna in una spirale di violenza dai toni criminali. Il marito tanto amato si rivela un pazzo pericoloso: metodico e con molte conoscenze negli ambienti criminali…insomma, un incubo, fino a quando la donna non dice a se stessa di averne abbastanza. Intrigante e intenso (la regia  di questo thriller è di Michael Apted, autore di uno 007, di Enigma e di altri film interessanti) Via dall’incubo rappresenta non solo un’esortazione a non lasciarsi sopraffare dalla volgarità di una violenza senza limiti, ma – soprattutto – è un ritratto di una donna forte con una Jennifer Lopez che – sorprendentemente – rinuncia ad accentuare le caratteristiche sensuali della sua recitazione, per trasformarsi in una macchina da guerra rivolta a difendere fino all’ultimo i propri diritti che la giustizia sembra non essere capace di difendere per colpa di una serie di cavilli. Sebbene non privo di una serie di difetti (troppo semplicistico e al tempo stesso troppo articolato in alcuni momenti) Via dall’incubo è coinvolgente e riuscito nel suo teorema di rifiuto dell’arroganza e della sottomissione. 

Era mio padre (The Road To Perdition) {Sostituisci con chiocciola}

Tom Hanks – Paul Newman – Jude Law Sceneggiatura David Self tratta dal fumetto di Max Allan Collins & Richard Piers Rayner  Regia Sam Mendes Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 117’

Sapere raccontare la trama di un film senza togliere allo spettatore il gusto della visione e della scoperta è la prima regola che un aspirante critico cinematografico deve tentare di imparare, quando inizia questo lavoro nel segno dell’equilibrio e dell’accuratezza. Nel corso degli anni, però, il diavolo è sempre in agguato e non sempre si riesce ad argomentare la propria analisi della pellicola in questione senza tradire dettagli o particolari rivelatori. Un errore tutt’altro che leggero, per il quale non si può che implorare la clemenza del lettore.

Alle volte – addirittura – alle proiezione per la stampa, si trovano dei foglietti inviati dai registi in cui – a prova di cretino – si chiede di non rivelare quando si scrive situazioni o punti chiave che potrebbero addirittura compromettere l’esito della visione del pubblico pagante. Anche lì, spesso, momenti salienti di film come A beautiful mind e City of  angels sono stati diffusi e spettegolati ai quattro venti da giornalisti e critici cinematografici – nella migliore delle ipotesi – superficiali.

E’ quindi con sorpresa, nonché una punta di sgomento che dopo averlo visto a Venezia, scopriamo che The Road To Perdition ultimo film del regista del capolavoro di Sam Mendes American Beauty si intitola nella sua edizione italiana (peraltro funestata da un doppiaggio a dir poco allucinante…) Era mio padre. Conoscendo la grande professionalità della divisione nostrana della Twentieth Century Fox non nutriamo alcun dubbio che questo titolo sia stato scelto dopo uno studio accurato e con motivazioni forti. Eppure resta da domandarsi cosa sarebbe accaduto se Citizen Kane di Orson Welles fosse stato proposto con il titolo di Una slitta di nome Rosabella anziché con Quarto Potere ? Quesiti, forse, sterili che, però, fanno rimpiangere a tutti noi la distanza dal mondo anglosassone in cui – nella cosiddetta spoiler zone – i lettori sono avvertiti in anticipo di non entrare se non vogliono carpire troppi segreti dei film che stanno per andare a vedere al cinema.

E’ anche vero che il popolare romanzo a fumetti da cui è stato tratto il film è molto noto, ma resta da domandarsi, perché privare il piacere della scoperta ad uno spettatore che – come chi scrive – spera di non riuscire mai a prevedere quello che accade durante un film? Per The Road To Perdition, noi useremo d’ora in avanti il titolo originale per tentare di salvare il salvabile, anche se il nome resta l’ultimo dei problemi. Questo perché nonostante l’emozionante messa in scena di Mendes, la pellicola non riesce a sottrarsi a due fatali fardelli: la prevedibilità dell’azione e un’eccessiva dose di grottesco. Se da un lato, infatti, anche lo spettatore meno lungimirante da poco prima della metà del film inizia a prevedere ogni singola azione (e questo non certo per la loro mirabolanza…), d’altro canto il tentativo disperato di imbruttire Jude Law (ma con tanti brutti naturali, perché tentare di rendere grottesco l’uomo più bello del mondo?) non può essere accolto se non con una certa dose di stupore. Per il resto, The Road To Perdition è un film che non riesce ad andare oltre una certa superficialità nell’analisi dei rapporti umani. Nonostante il carisma di Paul Newman, enigmatica resta la figura del killer Tom Hanks sospeso tra un’educazione rigida e la necessità di non essere davvero troppo cattivo danneggiando se stesso al box office in futuro. Dopodiché il resto è una favolosa ricostruzione dell’America degli anni Trenta con forti influenze letterarie e cinematografiche. Quest’ultima e la partitura orchestrale scritta da Thomas Newman restano dunque le cose migliori di un film tanto più deludente, perché gravato di un’aspettativa così forte. In più facciamo nostra un’obiezione mossa dal celebre critico inglese Alexander Walker che – durante la conferenza stampa a Venezia – aveva rilevato come il film fosse stato “normalizzato” rispetto alle accuse severe nei confronti della collusione tra la Chiesa cattolica e la mafia irlandese. Un’annotazione che getta ancora di più nello sconforto lo spettatore sorpreso di trovarsi dinanzi ad un ibrido tutt’altro che coinvolgente, in cui i mafiosi vittime di un agguato sotto la pioggia battente pensano di rispondere al fuoco sparando e tenendo in mano l’ombrello. Ma chi è stato il loro padrino nel mondo del crimine? Gene Kelly? Mikhail Bariznikov? Difficile a dirsi così come deprimente è ancora di più l’idea secondo cui il titolo originale che sembra un’evidente metafora del cammino di ogni uomo, debba essere esplicitato dal fatto che padre e figlio scappano dalla loro città verso una zia lontana che – guarda caso – abita in una cittadina di nome “Perdition”… un passo per Sam Mendes cui – dopo American Beauty – possiamo comunque perdonare tutto tranne il fatto di sposare Kate Winslet. 

L’amore infedele (Unfaithful) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Diane Lane - Richard Gere – Olivier Martinez Sceneggiatura Alvin Sargent basata sul film di Claude Chabrol La Femme Infidele Regia Adrian Lyne Anno di produzione USA Distribuzione MEDUSA Durata 124’ 

Anche i belli come Richard Gere vengono traditi! Generazioni di spettatori maschi frustrati andranno a vedere questo film come una rivincita morale? Difficile crederlo, perché – come spesso capita nel cinema di Adrian Lyne già autore di pellicole come Nove settimane e mezzo, Lolita, Flashdance e Proposta indecente – sono i dettagli a rendere questo pseudo noir passionale una pellicola interessante, ma tutt’altro che riuscita. Se da un lato, infatti, le ambientazioni e la bellezza prepotente di Diane Lane costituiscono un richiamo di un certo peso, d’altro canto, invece, il moralismo tipico del cinema americano con tanto di incredibile finale aperto didascalico, lasciano perplesso lo spettatore. Perché una signora felicemente sposata, ricca e con un figlio, debba tradire un marito tenero e dolce che – tra l’altro – è l’affascinante Richard Gere, per un “coatto” per quanto bello Olivier Martinez? La risposta è, ovviamente, di natura personale e non necessariamente motivata da argomentazioni nate nei massimi sistemi. Il problema è semmai che per quanto banale e non necessariamente giusta, una risposta è, però, necessaria. Altrimenti questo dramma della gelosia che segue passo dopo passo il copione nefasto dei peggiori fatti di cronaca, resta soltanto una sterile disamina voyeuristica degli acrobatici tradimenti di una donna in cerca di trasgressione e – forse – di amore. Ed è qui che possiamo leggere il tocco infausto del regista Adrian Lyne che – da sempre – getta il sasso, nascondendo la mano. L’articolazione fenomenologica del tradimento è esemplificata nel dettaglio della sua paradigmatica costruzione di sotterfugi, bugie e rimpianti. Quello che – comunque – resta poco chiaro è il perché. Non tanto perché chi scrive avverta a tutti i costi il bisogno di capire motivazioni e scelte di una donna fatale e pericolosa. Quando piuttosto perché senza di queste il finale – che è meglio non rivelare – diventa incomprensibile e superficiale, nonché vagamente ridicolo. Ed è così che L’amore infedele rivela di essere una pellicola per certi versi intrigante e intensa, mentre per altri è solo una banale rivisitazione delle famose quattro colonne in cronaca che sanciscono il Fato ineluttabile di una passione irrefrenabile.

Il pianeta del tesoro (Treasure Planet) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Regia e Sceneggiatura: John Musker & Ron Clements tratta dal romanzo di Roberto Louis Stevenson ‘L’isola del tesoro’; Sceneggiatura: John Fusco Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Buena Vista Durata 95’

Non stupisce  che i due registi di questo film, nonché autori della sceneggiatura ispirata dal romanzo di Robert Louis Stevenson siano due amanti della fantascienza e – in particolare – di Star Trek. L’amore per le navi spaziali, il paragone visivo ed emotivo tra queste e i vascelli del diciannovesimo secolo, le suggestioni non troppo lontane delle serie Tv giapponesi come Star Blazers e Capitan Harlock, fanno de Il pianeta del tesoro un gioiello di gusto ed ironia, aperto ad ogni contaminazione. Del resto è evidente anche il paragone con Guerre Stellari e la figura di Luke Skywalker: l’archetipo Jim Hawkins è – grazie all’opera di Stevenson – un po’ il padre putativo di tutti i ragazzi che – abbandonati a loro stessi – guarderanno alle stelle per scorgervi speranzosi il proprio destino. In questa nuova avventura spaziale animata della Disney, Il Pianeta del Tesoro, il leggendario “saccheggio dei mille mondi” ispira una caccia al tesoro intergalattica in cui il quindicenne Jim Hawkins si imbatte nella mappa del più grande tesoro dei pirati dell’universo. Tratto da uno dei più noti racconti di avventura, L’Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson, questo film segue il fantastico viaggio di Jim in un universo parallelo, a bordo di uno scintillante veliero spaziale. Dopo aver stretto amicizia con un carismatico cyborg (metà uomo, metà macchina), Long John Silver, il cuoco della nave, Jim letteralmente “fiorisce” sotto la sua guida e si fa onore nel combattere, insieme al suo equipaggio, supernove, buchi neri e feroci tempeste spaziali. Tuttavia lo attendono pericoli ben peggiori: Jim scopre infatti che il suo fidato amico Silver è in realtà un astuto pirata che mira all’ammutinamento. Di fronte a un tradimento che gli lacera l’anima, Jim cresce improvvisamente e da ragazzo diventa uomo, trovando la forza di contrastare gli ammutinati e scoprendo un “tesoro” più grande di quello che avrebbe mai immaginato.

Diretto da Ron Clements & John Musker, lo scrittore ed il regista molto apprezzati per il loro lavoro ne La Sirenetta, Aladdin ed Hercules, questo nuovo ed emozionante adattamento porta l’animazione nei meandri più estremi della fantasia. Soprattutto perché attraverso l’esplorazione di un rapporto padre e figlio si cerca e si scandaglia il senso ultimo dell’avventura e del viaggio come metafora della crescita.

Un film d’animazione intenso e divertente, in cui si accentua la contaminazione di stili, epoche ed oggetti già presenti in Atlantis. Una fantascienza solo in apparenza rivolta ai più piccoli e che riporta tutti gli amanti di questo genere alle radici della propria passione: Stevenson e la ricerca della saggezza e della verità oltre i mari (siderali o meno). Il tesoro più grande, infatti, è quello che ci consente di capire chi siamo e cosa siamo diventati.

Spirit – Cavallo Selvaggio (Spirit – the Stalion of the Cymaron) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Regia: Kelly Asbury & Lorna Cook; Sceneggiatura: John Fusco Anno di produzione USA 2002 Distribuzione UIP Durata 85’

Realizzato con una tecnica mista tra animazione a mano e digitale, Spirit è l’ennesimo film d’animazione Dreamworks in cui si cerca di alzare la posta della sfida artistica, realizzando una pellicola del tutto non convenzionale.
Soprattutto nell’America di Bush dove non c’è spazio per film d’animazione dalla vocazione sovversiva come questo. Già, perché il cavallo protagonista è uno stallone indomabile che si confronta con il viaggio nel mondo degli uomini. Un po’ Schindler’s List, un po’ Soldato Blu, Spirit rappresenta una critica feroce  alla colonizzazione militare, all’industrializzazione incapace di tenere conto delle esigenze della Natura, ad un mondo fatto di sopraffazione e violenza, all’intera mitologia della Frontiera e dell’Ovest incapace di tenere conto delle esigenze degli abitanti di quelle terre selvagge. Con toni da commedia da film muto, privo di simpatici animaletti antropomorfi, il film è incentrato sulla ricerca di libertà di un animale disposto a tutto pur di difendere il suo stato. Ed è bene sottolineare che i cavalli – tra loro – nitriscono e non parlano come nei film Disney e non c’è nemmeno nessun simpatico animaletto peloso pronto a fare ridere. Soltanto una voce off di un cavallo che suscita ora lacrime, ora ilarità con la sua analisi spassionata della realtà umana. Un punto di vista che diventa narrazione e che mostra la conquista del West in tutto il suo aspetto deteriore. Spirit rappresenta per il cinema d’animazione quello che è stato Apocalypse Now! per quello bellico. Un viaggio alle ragioni del dolore e dell’insensatezza del militarismo. La versione italiana, privata della melanconia di Bryan Adams, si lancia con forza all’inseguimento della voce di Zucchero e della sua presa di possesso con fare libero e deciso di una narrazione che coincide con un inno alla libertà personale. 

II parte

Marco Spagnoli

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