Vai al numero precedenteVai alla prima paginaVai al numero successivo

Vai alla pagina precedenteVai alla prima pagina dell'argomentoVai alla pagina successiva

Vai all'indice del numero precedenteVai all'indice di questo numeroVai all'indice del numero successivo
Scrivi alla Redazione di NautilusEntra  in Info, Gerenza, Aiuto
 
redarrowleft.GIF (53 byte) Varie Sport Novembre/Dicembre  2001
 

Corna, bicorna e 4-4-2

Si chiamava Juan Carlos Lorenzo. E fra gli anni ’60 e ’80 allenò Roma e Lazio. Con metodi tutti suoi. Fatti di superstizioni e scaramanzie stile woodoo. Un abisso rispetto ai tecnici tutti schemi e tabelle dei giorni nostri. Mentre presidenti e tifosi sono rimasti uguali a quelli di trent’anni fa. Dimenticandosi che, alla fine, anche il più all’avanguardia fra gli allenatori d’oggi ha bisogno della stessa cosa che serviva al buon Lorenzo: tanta fortuna

La lista dei misteri della panchina è nota, quanto lunga.

Fra i casi recenti trovi la Juventus, che scarica il cordiale e sanguigno Carletto Ancelotti dopo due secondi posti di fila, accumulando più punti di ogni altra squadra di serie A. Trovi Marcello Lippi, ripreso dalla stessa Juventus in virtù di antiche glorie, evidentemente poco offuscate dalla successiva, pessima stagione trascorsa all’Inter. Trovi Giovanni Trapattoni e Fabio Capello, che stravincono alla grande solo con le multinazionali del calcio (per il primo ci sono le incolori parentesi di Cagliari e Fiorentina, il secondo nemmeno concepisce di buttarsi alla ventura). Trovi Francesco Guidolin, così taumaturgico che le "big", forse perché inquietate dal personaggio, continuano accuratamente a evitarlo, nonostante sia stato capace di far vincere la Coppa Italia al Vicenza, portare l’Udinese in Uefa, trascinare al terzo posto della serie A uno dei Bologna sulla carta più modesti degli ultimi anni.

Ogni nome rimanda "almeno" a un mistero. E se solo accenniamo ad aggiungere, fra i primi tornati alla memoria, quelli di Serse Cosmi, Carlo Mazzone, Giancarlo Camolese, Franco Scoglio, Emiliano Mondonico, Alberto Malesani, Dino Zoff e Cesare Maldini, ci accorgiamo che si potrebbe andare avanti all’infinito. In effetti sedersi dove non batte mai il sole, sia per la tettoia che per l’ingrato destino riservato a chi allena da presidenti giocatori e tifosi, richiede una vocazione tipica dei pazzi.

Fino a qualche anno fa in questa lista pescavi anche Juan Carlos Lorenzo, morto il mese scorso, dopo essersi ritirato da un mondo tremendamente mutato rispetto ai suoi tempi. Un tipo che dava nell’occhio, "Er Pomata", così soprannominato, nella Roma dove fra gli anni sessanta e ottanta aveva allenato entrambe le squadre capitoline, per i capelli lustri di brillantina. Un mister dal carattere vulcanico e imprevedibile, squisitamente "argentino", per ricordare che era nato a Buenos Aires nel 1922, e che nell’amatissima città dei tanghi e dei labirinti di "avenide" era tornato all’età della pensione, chissà quanto appagato dai sette scudetti vinti in carriera (con Boca Junior e San Lorenzo in Argentina, con Atletico Madrid in Spagna), più una Coppa Libertadores (sempre alla guida del Boca), e l’onore di avere allenato senza grandi risultati la nazionale del suo Paese.

Ora, è come se la scomparsa di Lorenzo, famoso per gli eccessi superstiziosi e le credenze magiche che lo ossessionavano, con effetti sovente catastrofici sul rendimento della squadra, ci avesse messo davanti a un bivio. Un crocicchio dove da una parte si può tornare ai chiassosi splendori di un’epoca tramontata, avvincente per il senso di perpetua improvvisazione che la dominava, con sfrenate deviazioni nel mistico e nel cabalistico ("mago" equivaleva al massimo complimento rivolto a un tecnico). E dall’altra ci si rimette a confronto con un presente in cui, pur avendo smesso di essere additati come stregoni, gli allenatori continuano a costituire uno dei misteri più appassionanti della società, spettacolare e schizofrenica, in cui viviamo.

Se consideriamo le tabelle, i grafici, le consulenze, gli archivi, le telecamere e gli studi scientifici di cui si giovano i Del Neri, gli Zaccheroni, i Passarella, i Fascetti e i De Canio dei nostri giorni, si fa davvero fatica a considerare questi manager degli spogliatoi eredi diretti di Lorenzo. A suo modo un professionista del calcio che oltre a corse, partitelle e ginnastica, comprendeva nella preparazione di una partita le foto delle mogli dei centravanti avversari infilate nei calzettoni dei propri difensori, le minestre di anellini ingurgitate fino alla nausea solo perché portavano bene, più una gallina da dribblare palla al piede per abituarsi a scansare la iella prima ancora degli avversari.

Di lui si poteva parlare come di un predecessore degli attuali signori della panchina più per una certa qual cornice di tic e di cerimoniali, che per i fondamenti quotidiani del proprio lavoro. E’ vero che un Renzo Ulivieri somiglia al vecchio "Pomata" per la scaramanzia di entrare in campo con il cappotto e la sciarpa anche in agosto, ma l’analogia si ferma qui. Dopodiché i carichi di lavoro in palestra e le geometrie del movimento collettivo, care all’"Uli" dalla barba che va e che viene a seconda dei risultati, appartengono a un concetto di professionalità totalmente aliena rispetto a quello di Lorenzo. Condiviso in anni ruggenti del calcio dagli Oronzo Pugliese, dagli Edmondo Fabbri, dagli Ettore Puricelli, dagli Heriberto Herrera, dai Giovanbattista Fabbri, dai Bruno Pesaola, dai Nereo Rocco e dai Manlio Scopigno che vincevano o perdevano campionati seguendo personalissimi istinti, filosofie, credenze, più o meno fondate intuizioni di nome catenaccio, "movimiento", forcing e melina.

Tutto fuorché le scuole di pensiero, gli schemi ideologici e i fondamenti scientifici su cui fondano il loro operato gli allenatori dei nostri giorni, solo in parte annunciati in passato da isolati pionieri, fautori di invenzioni poi entrate nel codice linguistico del calcio: il terzino d’ala secondo Roberto Lerici, il libero "staccato" ispirato a Herrera da Armando Picchi, la squadra corta di Corrado Viciani, un certo movimento collettivo caro a Tommaso Maestrelli, il catenaccio-pressing legato alle fortune dello stesso Trapattoni.

Le grandi rivoluzioni provocate fra gli anni settanta e ottanta dagli olandesi prima, e da Arrigo Sacchi poi, hanno scavato una sorta di voragine nella storia del pallone, separando in modo traumatico l’epoca dei maghi da quella dei manager delle panchine. E’ però una frattura di cui non sembrano tenere conto presidenti e tifosi, che nei fatti e nelle intenzioni continuano a esonerare e a mettere sotto contratto allenatori obbedendo alle medesime "regole", anarchiche e pulsionali, valide per i Lorenzo e i Pugliese di quello stravagante, e in parte straordinario, passato. Questi Moratti, questi Moggi, questi Cragnotti, questi Zamparini, questi Gaucci e questi Galliani sono poco o nulla cambiati rispetto ai loro predecessori. Assumono e licenziano tecnici con la stessa, spiccia regola del risultato innanzitutto, applicata sin dai primordi del calcio.

Quanto agli allenatori, cambiati finché si vuole, restano essenzialmente dei misteri. Con la stessa tabella in tasca e il medesimo preparatore atletico alle costole, funzionano a meraviglia a Torino e toppano miseramente a Milano. Eccelsi professionisti, ma non al punto di cancellare da uno spogliatoio quella certa, inconfondibile magia legata al fascino di un Juan Carlos Lorenzo. Intrisa di genio, di sudore, e di… una fortuna grande così.

Stefano Ferrio

np99_riga_fondo.gif (72 byte)

                                           Copyright (c)1996 Ashmultimedia srl - All rights reserved