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redarrowleft.GIF (53 byte) Lettura Novembre/Dicembre 2001  
 

Mago Merlino? Un maestro Zen

Qualcuno voleva trasformare il piombo in oro. Ma molti cercavano qualcosa di più prezioso: la Panacea, la cura di tutti i mali. Compreso il peccato originale di Adamo ed Eva. Per questo gli alchimisti del medioevo assomigliano più a santoni indiani o a buddisti che a scienziati-stregoni. A caccia di quel legame profondo ma nascosto che secondo le filosofie orientali lega l’universo all’uomo

Michela Pereira, Arcana sapienza – L’alchimia dalle origini a Jung, Carocci, pp. 323, L.39.000

Sull’alchimia è uscito un saggio di Michela Pereira volto a far luce su tale «sapere strutturalmente pre-moderno, che culmina nell’età medioevale» ma che sopravvive fino ai giorni nostri in varie tradizioni esoteriche. Di quest’antica «arcana sapienza», infatti, oggi i più conoscono appena la leggenda della supposta velleità di trasformare il piombo in oro. Ma per gli alchimisti non si trattava di ottenere dei metalli preziosi, ma quella Panacea, Alessifarmaco o Tintura, tramite la quale si sarebbe dovuta ottenere una «guarigione» definitiva: la tanto auspicata realizzazione dell'uomo nella sua globalità. La meta finale dell'opera alchemica era quindi restaurare innanzitutto la condizione originaria d'innocenza del primo Adamo, ma non solo; si trattava di ottenere un universo libero dagli opposti, di pervenire alla condizione originaria del cosmo, a quell'Uno non ancora frammentato nel molteplice. Di realizzare la pienezza dell'Atman o del Tao, per dirla con termini della spiritualità orientale.

Occorreva dunque realizzare ciò che Dorneus ebbe a indicare come Unus mundus: il mondo aurorale degli inizi; quando nulla era separato, non esisteva molteplicità, scissione fra creatore/creatura, spirito/materia, io/tu. Un'aspirazione metafìsica paragonabile, nell'ambito della cultura occidentale, all'unio mystica degli asceti contemplativi, e che si potrebbe riscontrare piuttosto nell'esperienza estrema del satori nella pratica del buddhismo Zen o nel samadhi della meditazione indiana. Alchimia, allora, come ricerca di un'ambiziosa realizzazione: quell'unità, quell'assoluto equilibrio che non era tuttavia conseguimento soggettivo, giacché l'Opus trascende l'individuo per abbracciare l'intera esistenza nel tentativo di conferire unitarietà, coerenza all'intero mondo universo, in apparenza teatro dell'irresolubile tensione di forze opposte, e inconciliabili.

A tale proposito, valga per tutte la dichiarazione di intenti, espressa da Dorneus nel suo Theatrum chemicum in modo insolitamente scevro da simboli ermetici e sibilline immagini allegoriche: «La conoscenza è la soluzione (o dissoluzione - resolutio) certa e indubitabile, mediante l'esperienza, di tutte le opinioni che si avevano concernenti la verità (...) incominciando da noi. Abbiam detto che la pietas consiste nella conoscenza di se stessi. Ne risulta che proprio da quest'ultima deve cominciare la coscienza filosofica. Nessuno però può conoscere se stesso, se ignora non tanto chi è, quanto che cosa egli sia».

f.r.

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