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redarrowleft.GIF (53 byte) Sport Marzo  2001  
 

L’apartheid del pallone

Una squadra di dilettanti arriva alla finale della Coppa di Francia. In Gran Bretagna un team di serie C è in semifinale con il Liverpool in Coppa d’Inghilterra. E in Italia? Non succederà mai. Perché nei palazzi del calcio nostrano vige un rigido culto delle gerarchie che prevede diritti inviolabili per gli squadroni ricchi. Che devono comunque prevalere sugli altri. Anche se queste giocano meglio. Così, il disastro italico nelle Coppe insegna, non sono le squadre più brave ad andare in Europa

In questi giorni il calcio inglese fa festa e, soprattutto, "comunica" festa all’intero mondo del pallone, grazie all’impresa di una sua piccola squadra. Anzi, come da noi si suol dire, di una "squadretta". Si chiama Wycombe Wanderers, gioca in un minuscolo paese del Buckinghamshire, e milita "naturalmente" in Second Division, l’equivalente della C1 italiana. Ebbene, grazie a una sensazionale partita giocata, e vinta, in trasferta, sul campo teoricamente proibito del Leicester, nuova potenza di Premiership, sospesa in classifica fra zona Champions’ League e zona Uefa, il Wycombe ha conquistato il diritto a disputare una delle due semifinali della prestigiosa Coppa d’Inghilterra, manifestazione che per gli inventori del calcio è addirittura più importante del campionato. Per l’esattezza, ai Wanderers tocca ora in sorte il confronto con i Reds di Liverpool, da incontrare a viso apertissimo l’8 aprile prossimo, sull’erba vellutata del Villa Park di Birmingham (occhio alla possibile diretta dell’avvenimento, su una delle reti digitali di Stream, che in Italia ha l’esclusiva della Coppa inglese).

In questi stessi giorni di albionica gloria per il Wycombe, il calcio italiano va istericamente interrogandosi sui propri disastri internazionali. C’è chi spiega la Caporetto europea, culminata con l’eliminazione del Milan dalla Champions’ League, aggrappandosi al fatale stress del nostro campionato (la famosa "pressione", senza pari al mondo). Chi preferisce chiamare in causa l’estenuante lunghezza della stagione, e chi punta il dito sugli esagerati, demotivanti contratti strappati dai giocatori e dai loro procuratori.

Hanno tutti una qualche ragione (soprattutto gli ultimi), anche se nessuno dimostra il coraggio di un affondo al cuore, malato, del nostro sistema: la serie A. E’ in questo cuore che si annida infatti un arido e asfissiante senso di "protezionismo", estraneo agli altri massimi campionati europei. L’intero palazzo del pallone italiano è pervaso da un rigido culto delle gerarchie, secondo le quali i cosiddetti "diritti" degli squadroni sono inviolabile asse di riferimento per tutte le altre società. In chiave di cieca sudditanza, si intende. Con relativo adeguamento a una non provata, ma molto presunta logica spartitoria che in questi ultimi anni alternerebbe i titoli nazionali e i piazzamenti validi per le coppe, obbedendo a un’ottica assolutistica priva di qualsiasi compromesso con le regole meritocratiche dello sport.

E’ quanto sarebbe successo negli ultimi tre tornei di serie A, con scudetto finito nel’ 98 alla Juve (e non all’Inter, brutalizzata a Torino nella sfida decisiva), nel ’99 al Milan (e non alla Lazio, superata in una volata a due viziata da qualche ombra pesante), e nel 2000 alla Lazio (e non alla Juve, finita nel trabocchetto della partita di Perugia, prolungata dalla pioggia e dall’arbitro Collina). Per quanto riguarda il 2001, possono già fare testo certe pubbliche dichiarazioni di Francesco Sensi, presidente della capolista Roma, preoccupato di avere il via libera, per un trionfo annunciato, nelle ipotetiche stanze dei bottoni dove tutto si deciderebbe sulle patrie sorti del calcio.

Da ciò consegue, almeno a livello percettivo, una sorta di imbalsamazione di certi valori acquisiti, con annesso svuotamento del reale senso agonistico delle due principali competizioni: il campionato e la Coppa Italia. Le quali finiscono con il consegnare all’Europa formazioni migliori "a priori", per i soldi che hanno in cassa, per le azioni che muovono, e per l’audience che attirano, con opulenti sponsor al seguito. In un’ottica così snaturata gli arbitraggi, le polemiche, i veleni, e le parvenze di inchieste ora in corso e ora insabbiate, non fanno altro che perpetuare la sensazione di un copione prestabilito, all’interno del quale si contemplano come uniche eccezioni possibili, e riconosciute come fisiologiche, i casi di squadre divenute "motu proprio" ingovernabili, come ad esempio l’Inter di Moratti (recuperabile, ben che vada, in zona Uefa) e il Napoli della strana coppia Corbelli-Ferlaino, forse condannata alla serie B anche se dovesse intercedere a suo favore un miracolo di San Gennaro.

Per il resto, dalla zona scudetto a quella retrocessione, passando per Uefa e Intertoto, tutto sembrerebbe obbedire alle intoccabili gerarchie che assegnano titoli, qualificazioni e salvezze. Con un vizio di fondo che assume forme ancora più evidenti in occasione della Coppa Italia, manifestazione limitata alle serie A e B più le dodici migliori piazzate della C, e giocata quasi con sufficienza dalle "big", salvo poi accorgersi, diciamo dai quarti di finale in avanti, che magari è diventata l’ultima spiaggia per un posto in Europa. Ciò a volte succede troppo tardi (vedi la vittoria del Vicenza, nel 1997), ma senza comunque sgarrare dalla serie A come "classe" di appartenenza dei vincitori. Il solo Napoli se la aggiudicò, nel 1962, militando in serie B.

La funzione di esame di riparazione per gli squadroni condanna ineluttabilmente la coppa nazionale a stadi semivuoti, e a livelli di share televisivo quasi sconsolanti. Diverso sarebbe il discorso se in Italia si applicasse il medesimo modello, aperto e con eliminazione secca, in vigore in Inghilterra, Germania e Francia. Ciò significa partecipazione estesa alle divisioni del calcio dilettantistico, con naturale coinvolgimento di tutti i tifosi del Paese. A maggior ragione se poi le "squadrette" hanno da esaltarsi con la formula-lotteria della partita secca, magari da giocare in casa propria, sfruttando in modo "estremistico" i vantaggi del fattore campo.

Un anno fa, grazie a questo modello, nacque la leggenda del Calais, piccola società di dilettanti francesi approdata alla finale della Coppa di Francia, persa al 90° su rigore contro il Nantes, dopo avere superato squadre professionistiche di nome Cannes, Strasburgo e Bordeaux (allora campione di Francia in carica)! Lo stesso miracolo va ora ripetendosi per gli inglesi del Wycombe, la cui vittoria ai quarti di finale, sul campo del Leicester, possiede elementi così strabilianti da sembrare quasi incredibile. Valga su tutti il gol decisivo, segnato al 92°, dall’attaccante ghanese Essandoh, disoccupato fino a dieci giorni prima dopo una fallimentare stagione in Finlandia, e assoldato dai Wanderers, rimasti privi di punte, tramite un s.o.s. calcistico lanciato via internet.

Mentre, da oggi all’8 aprile, ci sarà da sognare nuove follie assieme agli eroi del Wycombe, risulta addirittura impensabile immaginare analoghi momenti di gloria per italici "Wanderers" che giocano con le maglie di formazioni chiamate Tricase, Nardò, Viribus Unitis, Puteolana, Fanfulla e Poggese. No, sembra proprio non esserci posto per una finale Juventus-Torres in un Paese dove la Lazio può prima vincere lo scudetto schierando irregolarmente per tutto il campionato un fuoriclasse di nome Sebastian Veron, e poi trovare avvocati difensori che, dalle colonne dei più letti giornali nazionali, la rassicurano con frasi tipo "La Lazio rischia al massimo una penalizzazione o forte multa, ma non la perdita del titolo, non essendoci stato ricorso di una contendente nei quindici giorni immediatamente successivi alla fine di quel campionato…". No, teniamoci rigorosamente per il Paese dei sogni una finale di coppa Milan-Giulianova. Vinta ai rigori dal Giulianova, si capisce.

Stefano Ferrio

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