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MAZZOCATO PRESENTA IL SUO "BOSCO VENEZIANO"

Grande successo del primo incontro dei vicentini con lo scrittore Gian Domenico Mazzocato presso la libreria "Due Ruote" di Virgilio Scapin. L'autore trevigiano ha messo in luce le tematiche di fondo della sua opera, e ha parlato degli studi e delle ricerche storiche che 1'hanno condotto a scrivere il suo secondo libro "Il bosco veneziano", dopo il grande successo di pubblico e di critica del primo "II delitto della Contessa Onigo", un vero e proprio best seller nel Veneto che ha visto numerose edizioni Mazzocato è il grande cantore dell'epopea dei "pisnenti" (parola veneta che significa nullatenenti), gli ultimi dei contadini, i più miserabili e disperati. Di questa gente veneta, senza nome e senza storia, simile ai latini di cui parla il Manzoni, "un'immensa moltitudine di uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, inosservata, senza lasciarvi vestigio", in questo libro il Mazzocato approfondisce l'indagine, ne studia le miserabili condizioni di vita non solo nella loro patria veneta, ma anche nella loro seconda patria che fondano fra le sconfinate distese delle foreste brasiliane dove essi sono costretti a emigrare.

Il bosco veneziano è il Montello che fin dal 1471, per volontà del doge Nicolò Tron, fu espropriato ai legittimi abitanti da tempi immemorabili i Montelliani e destinato a riserva per la costruzione delle sue navi e delle sue galere. La foresta dai dieci milioni di giganteschi roveri fu bandita alla gente comune, con vessazioni e processi di massa, non solo da parte di Venezia, ma anche dal Regno napoleonico, dall'Austria, e per quasi trent'anni, dai governi Italiani. Quando nel 1888 Re Umberto deciderà di restituire il Montello ai propri abitanti, riconsegnerà un bosco ridotto a povertà e desolazioni estreme: "Ben poco aveva ancora da offrire il Montello dopo anni di spoliazioni, quasi nulla anzi. E dunque non era detto che, per la gente del Montello, la miseria fosse finita". Di questa vicenda, per larga parte sconosciuta, si fa narratore il Mazzocato nel suo romanzo in cui è protagonista la famiglia Barro, nello svolgersi di tre generazioni, con Ireno, con Bino e sua moglie Clotilde e il figlio Teofilo. La loro storia è fatta di angherie e di povertà. A1 tessuto centrale 1'autore aggiunge racconto a racconto, personaggio a personaggio. Vivissimi rimangono nella memoria, oltre a Toni, il figlio di Bino Bamo, che ritorna rabdomante al suo bosco, Sereno Rudatis, nativo da Auronzo, pittore di "santi alle finestre", e la straordinaria figura di Irma, "la madre dei zatterieri".

Ma il fatto storico principale che spinse migliaia di Montelliani ad emigrare all'estero fu la catastrofica "brentana" del 1882, tragedia di tutto un popolo che svuotò interi paesi e impedi per anni che i campi tornassero a dare grano buono e vigneti vino che si potesse bere. Il Piave ruppe gli argini e inondò tutto: "La casa di Beniamino Barro fu la prima ad essere isolata dalle acque limacciose e infide del fiume. II cielo era colore del piombo ei muri tremavano sotto 1'urto della Piave. I Barro salirono sul tetto. Davanti, in quel rabaltarsi del mondo intero, avevano il Montello e Bino, col cuore stretto, pensava a Bocca tempesta, come a un'isola felice e serena nel naufragio di tutta la terra. A Bocca Tempesta mai sarebbero arrivate le acque che salivano dal basso. Senti 1'ingiustizia profonda del suo esilio e dell'esilio di tutte le generazioni che lo avevano preceduto, perché quelli che avevano cacciato i montelliani dalla loro collina erano gli stessi che avevano depredato tutte le montagne della Val della Piave. E cosi il fiume abbandonato a se stesso faceva disastri ovunque", Una pagina grandiosa e epica che rende in tutta la sua formidabile potenza la tragedia di un'intera generazione veneta. Per questa immane catastrofe migliaia di montelliani e i Bacro sono costretti a emigrare all'estero. II Brasile, che aveva bisogno di "migranti" per impiegare nelle sterminate piantagioni dei "cafeteros" e per disboscare le immense foreste del "Mato", rimborsava loro le spese di viaggio per rimpiazzare gli schiavi che si erano arruolati nel suo esercito. Bino (la moglie Clotilde era stata vittima della grande inondazione) e Toni partono e si imbarcano a Genova. Dopo lo sbarco vengono riuniti sul "cassero", subiscono una sommaria visita medica e poi guidati nell'interno del Rio Grande do Sul a impiantarvi una colonia. Arrivati sul posto loro assegnato scorgono un fiume sconosciuto e non segnato nella carta e lo chiamano "Nuova Giavera", il nome del pese del Montello da cui erano partiti e che tenevano sempre nel cuore. E qui incomincia il lavoro duro, massacrante, eroico di questi disperati per rifarsi una patria, un posto su cui vivere, una vita da ricominciare. Gli alberi del "Mato" erano più duri e secchi dei roveri del Montello: "Toni cominciò a capire già in quei primi giorni in cui erano pieni di preoccupazioni e anche continuamente affamati, che Bino aveva trovato il posto in cui fermarsi per il resto della vita. Ne era convinto: suo padre, anche se immalinconito perché non c'era nessuno da far venire dalla "posada" in riva all'oceano, lo avrebbero fatto bello e ricco quel posto, ci avrebbe allevato bestie e raccolto frumento e soturco, ci avrebbero fatto correre, ben ordinate e in faccia al sole, le tirelle d'uva. Avrebbe follato mosto generoso profumato, magari avrebbero organizzato feste per la vendemmia e perfino filò davanti a casa. Di li a qualche anno suo padre avrebbe dato il giro a quella vita bastarda, se solo gli riusciva di mettersi un po' 1'animo in pace". Una splendida pagina cui si vede come gli emigranti voleva ricreare nelle nuove terre tutte le antiche e amate tradizioni venete. Però anche qui, nella nuova patria, nella "Nuova Giavera", si ripete la violenza e la brutalità della storia. I "migranti", i nuovi venuti, cacciano con la violenza i "Bugres", gli indigeni del "Mato" che cercano di impedire loro di costruire la nuova colonia: "Toni vedeva bene che la storia era sempre la stessa e che i bulgari (cosi i "migranti" chimavano gli indigeni del luogo) assomigliavano molto ai montelliani, espulsi tanti secoli prima dalla loro collina. E che pazzia dolorosa era la vita, un giro agro e bastardo di gente che viene sbattuta via dalla sua terra e, nell'esilio patisce fame per generazioni. Poi, ad un certo punto, qualcuno vuole rompere la catena delle privazioni e degli stenti. E cosi si mette per mare, atirontando ogni pericolo". E Bino Barro, il pisnente, perduta la patria, come Ulisse e come Enea, si mette per mare affrontando ogni pericolo per cercare una nuova patria.

Questa la filosofia del libro sull'epopea tragica dei montelliani, 1'epopea degli ultimi che diventa immagine e metafora della storia di tutti coloro che, nei secoli, devono abbandonare la loro terra in ossequio a interessi crudelmente estranei ai loro autentici bisogni vitali, emblema e simbolo di ogni sradicamento, di ogni emigrazione, di ogni diaspora e di ogni patria

perduta. Con quest'opera il Mazzocato si rivela, senza ombra di dubbio, il più grande, fecondo, ricco, e profondo scrittore veneto della nuova generazione, perché ci ha dato una grande, intensa, drammatica, convincente prova narrativa, di ampio respiro, una storia epica e tragica, in cui tutti ci riconosciamo, una vicenda del nostro passato che, scritta nello stile serrato e scabro che caratterizza la sua prosa, prende e conquista il lettore dalla prima all'ultima pagina.

Gianni Giolo

G.D. Mazzoccato, Il bosco veneziano, Santi Quaranta, L. 20.000

 

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