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redarrowleft.GIF (53 byte) Letture & Scritture Novembre 1999

 

Vecchio è bello, finalmente

Aborrita dalla civiltà occidentale e dalla moda imperante del "giovani a tutti i costi". Sostituita dal più morbido e politically correct "maturità". Insomma reietta perché temuta, la vecchiaia torna da vincitrice nell'ultimo libro di Manlio Sgalambro. Che la esalta e la ripropone come l'unica età, dice, dove abbandonato il ciclo lavorativo, riproduttivo e sociale, si vive veramente la vita

Manlio Sgalambro, Trattato dell'età, Adelphi, pp.130, L.14.000

Vecchiaia. Parola che suona dissonante, molesta, anzi sgradevolissima alle orecchie di tutti noi postmoderni. Non si può essere vecchi alle soglie del millennio che viene: semmai maturi, al limite longevi. Vecchi, mai e poi mai. Il galateo delle apparenze (così caro a questo nostro tempo contrassegnato da una idolatria banalmente giovanilistica – a questa nostra civiltà occidentale così estetizzante e narcisistica, all’insegna com’è di lifting, fitness e rimozione) lo aborrisce e lo vieta.

Rema dunque senz’altro controcorrente l’eterodosso intellettuale Manlio Sgalambro: sorta di provocatorio censore dei cattivi costumi filosofici, il cui stile corrusco e polemicissimo può venire avvicinato – pur con tutti i debiti distinguo – a scrittori contro quali un Cioran o un Bernhard. Sgalambro, dicevo, non pago del suo impietoso Trattato dell’empietà con cui metteva alla gogna moralismi & amoralità filosofiche, torna con un altro ancor più polemico trattato; questa volta sulla vecchiaia: l’ignominiosa per antonomasia fra tutte le parole pronunciabili nei salotti massmediatici.

Sia ben chiaro da subito: Sgalambro prende le distanze non solo da una Weltanschauung pessimistico/svalutativa che vede nella senescenza l’anticamera della morte, all’insegna di decadenza fisica, ottundimento dei sensi e declino intellettuale. Egli si tiene lontano pure da una visione edulcorata della vecchiaia, che vorrebbe sublimare il vecchio in un’aura stucchevole di saggezza in capelli bianchi, ben temperata dal venir meno di passioni e appetiti. Niente di tutto questo. Semplicemente per il Nostro vecchiezza rappresenta "il momento del compimento"; una sorta di perfezione esistenziale fatta di assenza di scopi da perseguire e nobilitata dalla tranquillità "di un destino attuato".

Attenzione però: perturbante è il vecchio, avverte Sgalambro, in quanto attraverso di lui si scorge il mondo come è e non come lo vorrebbe il giovane. Non solo. La tarda età, secondo questo anomalo trattato, sarebbe l’età maggiormente propizia all’amore. Un amore non volto al possesso o bramoso di generare replicanti dell’io. Un amore che non servendo a nulla si può espandere "nel puro rapporto". Altro che decadimento involutivo!

Certo, da vecchio l’eros "scaturirà da ciò che sei, amico, non dalle fattezze del tuo sedere", poiché la mera sessualità genitale dovrà trasformarsi, dilatarsi in una sessualità totale, stigmatizza Sgalambro in un implicito j’accuse nei confronti di ogni velleità regressiva di chi vorrebbe ad ogni costo far tornare indietro il proprio orologio biologico. Ancora: il tempo senza più urgenza di tempo che contraddistingue la vecchiaia, fatto di un qui e ora da assaporare senza urgenza alcuna, è pure quello di un osservatorio privilegiato sul mondo e sugli uomini. Si tratta appena, sottolinea Sgalambro, "di ritirare la rappresentazione gettata sul mondo come una rete per catturarlo"; in un filosofare, dunque, non più giovanile – fatto di sistemi asseverativi o saccenti – e che, a mio parere, avvicina il vecchio di Sgalambro al mistico e al contemplativo.

Il trattato, infine, muta all’improvviso in un’eccentrica lettera/apologo ad una donna amata o ad un’amica, in cui l’io narrante-filosofo celebra gli aspetti positivi della vecchiaia: a suo dire l’età per eccellenza; l’unica vera età dell’uomo, allorché, conclusisi i cicli riproduttivo, lavorativo e sociale, in piena libertà si può davvero "cominciare a vivere".

Francesco Roat

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