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redarrowleft.GIF (53 byte) Letture & Scritture Ottobre 1999

 

E come ali delle bucce di banana

Essere sospesi, sentirsi destinati ad abitare un interstizio fra la terra e il cielo. Ecco la condizione, o meglio vocazione, che accomuna i protagonisti dell’ultimo libro di Nico Orengo. Un racconto diviso fra realismo e magia della parola

Nico Orengo, L’ospite celeste, Einaudi, pp.131, L.24.000

Orengo.JPG (15244 byte)Essere sospesi, sentirsi destinati ad un’a-topia, ad abitare un interstizio fra la terra e il cielo. Ecco la condizione, o meglio vocazione, che accomuna i protagonisti dell’ultimo libro di Orengo, sempre in bilico fra la gravità/grevità delle umane passioni e un altrove che più oltre non si può: fatto di sogni, presenze angeliche e stelle eteriche.

C’è Miro, il ragazzo che - munito di ali fatte con bucce di banane - spicca un impossibile volo incontro alla sua dea (Josephine Baker) e finisce per cadere precipitevolissimevolmente al suolo riducendosi a un "fagotto con due occhi che sanno piangere". C’è sua sorella Clementina, alla ricerca del cranio d’un mitico elefante di Annibale, pronta a gettarsi tra le braccia di tutti pur di evitare il rischio dell’amore. Ci sono i "Mutus Liber": Tiziana, Rosario e Paolo (lui, veramente, è morto da un po’): timidi ermetici alla ricerca dell’invisibile oltre il qui e ora di materia e caducità. Ci sono gli astronomi Tyco Brahe, Keplero e Gian Domenico Cassini, metà scienziati e metà esoteristi, che nella volta celeste vorrebbero trovare la stella a cui orientare l’astrolabio dell’anima. C’è infine e soprattutto la Liguria, oltre ai molteplici ambiti della terra e del cielo che questo eccentrico romanzo attraversa: dai satelliti di Saturno agli aeroplani fatti con piume d’uccello per librarsi nell’immaginario; da Praga a Torino, magiche entrambe. La riviera ligure, tanto cara allo scrittore: paesaggio naturale fisicissimo ma insieme luogo della memoria, dell’affabulazione e del cuore, fatto di ricordi, sensazioni, colori e profumi che la freschezza della prosa di Orengo riesce ad evocare con tal pregnanza iconico/espressiva da far cogliere quasi visivamente al lettore il "precipitare di olivi, fichi e vigne e limoni, roveti rossi e rosmarini viola" sulla costa fra Savona e Sanremo; quasi olfattivamente "i profumi che venivano dalle coltivazioni di garofani e limoni vicino agli ulivi di Mentone".

Sì, perché le operazioni alchemiche a cui accenna l’Ospite celeste sono appunto il risultato della contaminazione fra elementi di terra e firmamento. Così gli antichi mortai che conobbero la frantumazione d’erbe, spezie e carni possono venir qui trasmutati in "volte e cupole di cielo" con cui catturare squarci d’eternità, o di poesia, visto che in ciò sta forse il messaggio sotteso a questo insolito libretto (e uso tale parola nel senso affettuoso del termine): far scaturire tra le righe di storie verosimil-fantastiche un metaforico stupore per l’umana condizione esistenziale di esseri che, pur corporalmente ancorati alla terra, mai smettono di figurarsi utopie o metafisiche, anelando a spiccare sempre e comunque il volo verso una modalità altra da quella consuetudinaria. In una sete di oltre, esemplificato non a caso attraverso la navigazione post-moderna nell’universo virtuale di Internet, che Miro utilizza poi solo per evadere dal suo corpo senza più né gambe né ali.

Ancora una volta dunque questo racconto è abilmente sospeso fra realismo e magia della parola. Una parola allusiva che senza mai essere banalmente sapienziale o saccente apre spiragli stranianti di significazioni ed emozioni sempre al limite del dicibile stesso. Come a Fuencaliente, dove tra luci ed ombre, fra abisso e terraferma la notte accesa da un faro mostra all’incrocio degli oceani la visione-simbolo d’"una cucitura che si perdeva verso l’orizzonte per prendere poi una corrente di cielo".

Francesco Roat

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