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redarrowleft.GIF (53 byte) Letture & Scritture Giugno 1999


Che confusione in quella City

Più che un romanzo, è una raccolta di esercizi di stile. Dove sembra contare più la ricerca di modi di scrivere creativi e di effetto che quello che si racconta. E' l'ultimo lavoro di Alessandro Baricco: una "City" dove storie e intrecci sono strade e quartieri, ma dove a comandare è l'arte di usare le parole

Alessandro Baricco, City, Rizzoli, pp.321, L.28.000

City.JPG (8138 byte)Non mi è facile tentare un profilo critico di City, l’ultimo libro di Baricco (sulla cui copertina troviamo scritto romanzo, ma si tratta di una definizione di comodo), causa tutta una serie di aspetti che, leggendo le trecentoventuno pagine di questo testo eteroclito per scelte stilistiche e contenuti narrativi – o ancora e solo narratologici? –, di volta in volta mi sono apparsi convincenti e dissuadenti, felici invenzioni fabulistico-espressive e sperimentalismi un po’ fine a se stessi: ovvero esercizi di stile aventi come scopo – o almeno come effetto – lo scatenare nel lettore "maraviglia" e plauso nei confronti di chi, sia detto subito onde evitare equivoci, resta comunque un godibilissimo fabbricante di intrecci e un abilissimo maestro di scrittura.

Ma, appunto, qui iniziano le note dolenti o almeno dissonanti: in quanto troppi brani di City – di là dalla storia o dalle storie narrate, cioè dal cosiddetto romanzo – appaiono come congegnati quasi solo a risolversi in pagine d’effetto o esercitazioni stilistiche da scuola di scrittura creativa. E rifacendoci alla metafora della città da cui il titolo al libro, a giustificazione della caleidoscopicità inflativa formale e contenutistica del "romanzo" in oggetto, sarà pur vero che qui, come sottolinea lo stesso autore nel risvolto di copertina, le storie rappresentano i quartieri e i personaggi le strade di un testo costruito come una City; ma essa (assieme al gomitolo multicolore di racconti e stilemi) finisce per dilatarsi a metropoli, in una ipertrofia di trame, registri, toni e piani narrativi che rischiano di trasformare la scrittura di Baricco in un barocco enfatico nel tentativo di troppo dire, esplorare, raccontare e soprattutto produrre un’opera di fascinazione ed autofascinazione.

Mi si potrebbe obiettare: ma è proprio questo il pregio, la prospettiva così post-moderna di City. Il suo essere giusto un paradossale romanzo di formazione all’insegna dell’eterogeneità delle vicende e della varietà di percorsi espressivi. Sì, ma il rischio di smarrirsi (e intendo in termini di tenuta estetica e insieme romanzesca, o narrativa, se il termine suona più gradito) nei dedali di City è alto. Per farmi capire meglio dirò che, stante la bravura del raccontare intorno ai vari modi di raccontare, Baricco – a differenza di quanto gli è accaduto negli altri lavori precedenti – qui è come se avesse compiuto una scelta coscientemente contraddittoria: cercare di sorvegliare al massimo (dal punto di vista del virtuosismo della pedaliera stilistica) l’architettura formale, forzandola tuttavia sino a farla esplodere in mutazioni incontrollate quasi da scrittura automatica e ibridazioni di genere (in City si passa da racconti di grande fluidità descrittiva a brani di insistito lirismo, dialoghi cinematografici, sceneggiature tipo spaghetti-western, capitoli svincolati dai lacci e lacciuoli ortografici della punteggiatura, infine a pezzi di saggistica pura, come la lezione di filosofia-estetica tenuta circa a metà testo dal personaggio del professor Bandini) germinanti una miriade di microstorie irrisolte (non semplicemente lasciate sospese, bensì abbandonate al lettore).

Si ha, inoltre, l’impressione di troppa carne al fuoco: talmente vasti sono i panorami narrativi e metanarrativi dispiegati da una City in cui siamo costretti a vagabondare a effetto di spaesamento nei confronti del racconto/del raccontare tradizionale – ma dovremmo avere già abdicato, nella visuale del nostro disincanto, alle pretese di esaustività narrativa, di completezze, di storie conchiuse – non certo catartico bensì semplicemente letterario. Un solo esempio, poche righe emblematiche: "non c’è in nessuna donna tutta la donna che c’è in un tacco a spillo perso per strada: e se questo è vero l’autenticità sarebbe allora una metropoli sotterranea percepibile per il bagliore di feritoie minuscole che la annunciano, oggetti-luminescenze intagliati nella superficie blindata del reale, fiammate che sono annunciazione e scorciatoia, segnale e porta, angeli (…)". A parte l’impiego un po’ abusato del feticcio, si sprecano in City gli orizzonti-feritoie che promettono annunciazioni ed agnizioni le quali finiscono poi per ridursi a frasi d’effetto, lacerti di poesia, giochi di prestigio, funambolismi di parole: "costellazioni di eventualità" onde illuminare una prosa forse eccessivamente pretenziosa nel suo sforzo di esplicare (sia pure in modo allusivo e metaforico) l’inesplicabilità della City: della vita, insomma.

Francesco Roat

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