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LETTURE&SCRITTURE Novembre 1998


Reportage, frammenti da un altro mondo

E' un racconto scritto come mini-sequenze di un film: c'è un fotografo, la guerra del Kosovo, la gente che fugge, i soldati. Ogni scena uno scatto. E in ogni scatto la consapevolezza di assistere ad una tragedia moderna

Primi piani:

Campo lungo, freddi grigi spigolosi. Messa a fuoco: un vicolo, asfalto bagnato e calcinacci, un uomo dai vestiti laceri inginocchiato dietro l’angolo del palazzo sporge la testa. Scatto.

Tartagliare distante di una mitragliatrice, vento sferzante contro il viso. L’uomo si alza e corre senza badare alla direzione, riparandosi la testa con entrambe le braccia. Immagino stia pregando il suo Dio, in questo momento; riesco quasi a sentire i suoi pensieri inframmezzati dal battito accelerato del cuore. Scatto.

Inciampa: ora è nuovamente in ginocchio ma questa volta allo scoperto, i lineamenti del viso sono contorti e rigidi per il terrore, come scolpiti sulla pietra. Bellissima immagine. Scatto.

Altri due uomini escono da una porta e lo afferrano per le braccia, aiutandolo in tutta fretta a raggiungere il riparo. Scatto.

I tre si rintanano come topi nei muri.

Uno scheletro urbano, grigie pareti perforate da finestre nere come orbite vuote contro un cielo cinicamente azzurro.

Tanto orrore sarebbe meglio sopportato sotto una cappa di nubi cineree. Comunque, scatto.

La strada è semivuota, le poche persone camminano rasente muro e corrono quando devono necessariamente attraversarla. La polizia ha riportato l’ordine, ma appena fuori città si spara ancora e la gente ha paura.

Inquadro una bambola sporca sopra una panchina, il vestitino rosa è strappato, la testa è per metà scucita dal collo e pende in una posa innaturale. Ottimo simbolismo. Gioventù violate: scatto.

All’erta, la macchina sempre pronta a cogliere una qualsiasi immagine che potrebbe fugacemente sparire prima di essere immortalata. Rumore di auto in corsa, un furgoncino blindato appare da una laterale. E’ la polizia serba che pattuglia le strade da poco liberate dopo un vero e proprio assedio. Scatto. Era l’ultimo.

Nascondo il rullino in una tasca interna e mi avvio verso il rifugio dove mi attende un funzionario governativo.

Sento già la voce del mio capo: "Ehi, questa si che è roba buona! Sei una forza da prima linea."

E infatti mi ci trovo, in prima linea. Maledizione.

Mezzi busti:

Un viso spigoloso e sporco di polvere, un’espressione arcigna ed uno sguardo che perfora.

- Quanti uomini hai ucciso?

Lui si eleva in tutta la sua modesta altezza, abbracciando il fucile mitragliatore che lo rende potente e letale. Mi risponde con una buona pronuncia italiana.

- Sette... o forse otto.

- Perché li hai uccisi?

- Erano albanesi.

Guardo la sua divisa: è un poliziotto serbo, un rappresentante della legge ed un garante dell’ordine. Assomiglia più ad un mercenario.

- Solo per questo?

- Non è un motivo sufficiente? - sembra sinceramente perplesso.

Tento una provocazione: - Ma voi non dovreste mantenere l’ordine?

- Noi obbediamo agli ordini.

- Quali ordini?

- Uccidere i terroristi albanesi.

- I separatisti dell’Elk, certo. Ma sono stati distrutti anche interi villaggi.

Scuote la testa ed alza le spalle: ora è meno borioso.

- Chi vi ha dato questi ordini?

- Ora basta.

L’ho punto sul vivo, mi invita ad allontanarmi abbassando la canna del mitra.

- Posso farti una fotografia?

Preme la canna contro il mio fianco: sembra essere un no. Meglio non insistere.

Visi tristi, consunti, disperati, occhi svuotati di speranza, spalancati ad un futuro più nero di un precipizio. Nessuna emozione da parte mia, solo il freddo obiettivo che filtra la realtà per proteggere la mia mente. Un bambino dai neri capelli scarmigliati strascica i piedi a terra, mano nella mano con il padre. Scatto. Una giovane donna avanza claudicante sotto il peso di un grosso sacco, il viso segnato dalla sofferenza e invecchiato precocemente. Scatto.

- Da dove venite?

Mi risponde un rauco profluvio di voci, allora mi rivolgo solo a un uomo dal viso sfregiato.

- Tutto distrutto. Case, campi. Animali uccisi. Molti di noi uccisi.

- Hanno distrutto il vostro villaggio? - molti cenni di assenso - Chi?

Mi rispondono in coro: - Serbi! Polizia serba!

- Dove andrete ora?

Dita sottili si levano verso sud: - Albania.

Rapido, scatto un’ultima foto alla piccola colonna di profughi, e il mio pensiero va agli altri sessantamila come loro.

Al posto di blocco, un poliziotto si avvicina con il mitra spianato, per nulla ben disposto; gli scatto una fotografia. Lascio parlare il funzionario governativo che mi ha accompagnato. Li osservo discutere concitatamente: il soldato scuote la testa ripetutamente, pare non ci voglia lasciar passare.

Intervengo, forse riesco a strappare qualche informazione: - Ho sentito che c’è una fossa comune.

Il soldato continua a scuotere la testa come un cavallo infastidito dalle mosche ma sempre rivolto verso l’altro, senza degnarmi di attenzione. Mi interpongo fra i due e lo incalzo.

- Sono un giornalista italiano. E’ vero che c’è una fossa con trecento cadaveri di cittadini albanesi?

Mi punta il fucile al petto: - No potere passare. Ordini di comando. - almeno capisce la mia lingua.

- Voglio solo vedere la fossa.

- No, fossa. Tornare indietro.

Guardo il funzionario che strabuzza gli occhi. La situazione è chiara: la zona è off-limits, forse la mia informazione era esatta.

Panoramica:

Appena usciti dall’accampamento mobile della polizia serba, l’angoscia torna ad assalirmi. Guardo spaurito la campagna circostante, ma il funzionario che mi accompagna e che guida il fuoristrada mi assicura ancora una volta che l’arteria stradale Pec-Djacovica è stata completamente liberata dai terroristi.

Scatto un paio di fotografie: è tutto così tranquillo, immoto e silenzioso. Eppure tutta la regione è stata scossa da una grave crisi e in molti temono ancora lo spettro di una nuova Bosnia. L’unica speranza è che le pressioni congiunte dell’Onu e dell’ue possano convincere Milosevic a ritirare le truppe dal Kosovo; i Quindici l’hanno definita "una campagna violenta, che va oltre quelle che potrebbero essere legittimamente definite operazioni antiterroristiche", ma è meglio non discuterne con il mio compagno di viaggio serbo. Per quanto mi riguarda, seguirò la conclusione di questa terribile vicenda tramite i giornali: torno finalmente a casa, ma porto con me un bagaglio di tristi ricordi immortalati su pellicola.

- Siamo in città. - il funzionario interrompe le mie elucubrazioni.

Scendo dall’auto, voglio finire il rullino. La sagoma della città si staglia contro il cielo, in un fondale collinoso di grande bellezza. Scatto. La strada prosegue fin dentro il quartiere residenziale, sulla destra un cartello riporta il nome della città "Decani", mentre appena sotto di esso un mucchio di rifiuti è sormontato da una carrozzina per paraplegici. Ancora simbolismo: una regione mutilata dalla guerra e senza più alcun appoggio. Ultimo fotogramma: scatto e me ne vado.

Matteo Gambaro

(17/6/1998)