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LETTURE&SCRITTURE Novembre 1998


Mangio, ergo sum

Pochi dubitano che il rapporto uomo-cibo sia più complesso della semplice necessità biologica. Ora un saggio scritto a quattro mani prende in esame riti, significati e aspetti culturali dell'alimentazione nel mondo Occidentale. Tra ricerca di un naturale che non esiste, disagi e manifestazioni psicologiche come anoressia e bulimia e perfino la struttura della stessa società

Isabella Brugo, Guido Ferraro, Caterina Schiavon, Manuela Tartari – Al sangue o ben cotto, Meltemi, pp.165, L.28.000

asangue.jpg (20271 byte)Che il pasto, col suo corollario di scelta e preparazione dei cibi, costituisca una sorta di filosofia e possa paragonarsi ad un vero e proprio linguaggio l’aveva chiarito vent’anni Mary Douglas fa sulle orme di Levi-Strauss, considerando come la distinzione fra alimenti commestibili e non - caposaldo di ogni regola alimentare - istituisca una grammatica che separa l’ordine dal disordine e consente solo un limitato ventaglio di strutture alimentari imponendo una gerarchia prescrittiva alla loro ripetizione. Insomma il cibo sarebbe in stretto riferimento con i paradigmi di ogni ambito normativo. Ossia, detto in parole povere, cibo uguale cultura.

Ma allora se guardiamo con occhio antropologico al panorama culinario contemporaneo siamo costretti a prendere atto di come, con buona pace di Levi-Strauss, il cibo "crudo" o naturale alla fin fine non esista, in quanto esso è paradossalmente sempre "cotto" solo per il fatto di essere scelto tra gli altri come genuino o non manipolato artificialmente. Appare dunque quanto mai opportuno l’invito a riflettere intorno al rapporto tra azione trasformatrice della nostra cultura alimentare e cibo in quanto supposta entità naturale, propostoci dal saggio scritto a quattro mani da Isabella Brugo, Guido Ferraro, Caterina Schiavon e Manuela Tartari su miti e riti intorno al cibo.

E ritengo si possa concordare senz’altro con Ferraro sul fatto che è davvero problematico precisare quale sia il senso dell’aggettivo naturale nel contesto culinario, in quanto raramente tale termine si riferisce a prodotti d’agricoltura biologica o biodinamica, essendo indicata come naturale pure la cucina crudista, vegetariana, mediterranea o persino macrobiotica ad onta della sua complessità; per non parlare di quella nostalgica, intesa a recuperare ricette del buon tempo andato. Benché, ad onta dell’aura mitologica che circonda questa idea di ritorno alla natura, i nostri tabù alimentari obbediscano piuttosto ad una razionalizzazione rigorosa: ci vietiamo (teoricamente, almeno) ciò che fa male alla salute, è antigienico o squilibrato dal punto di vista nutrizionale. Così anche gli eccessi o i disordini alimentari oggi non vengono più considerati dei peccati di gola all’insegna della colpa, ma della malattia.

Non a caso anoressia e bulimia (il rifiuto del cibo o l’assunzione smodata di esso) rappresentano le figure patologiche emblematiche d’una realtà in cui sempre più finisce per prevalere sulle altre una concezione che potremmo chiamare dietologica, la quale rivela come si stia assistendo a diffidenza e sospetto nei confronti del cibo. A questo proposito risulta particolarmente chiarificatore l’intervento di Caterina Schiavon sul comportamento degli adolescenti che presentano tali disturbi alimentari: una condotta caratterizzata "dal bisogno di esercitare un controllo totale su loro stessi e sulla realtà che li circonda". In quanto, attraverso il rifiuto o l’abuso del cibo (ovvero mediante l’estrema trasgressione delle regole alimentari) si esprime implicitamente il rigetto nei confronti del modello culturale incarnato da adulti/genitori.

Ancora sull’ossessione contemporanea del controllo, al di là d’un ambito francamente patologico, Isabella Brugo analizza mitologie e tecnologie nella cucina contemporanea, i cui strumenti oltre ad essere macchine del tempo - capaci cioè di incrementare la produttività di ogni massaia nell’ottica dell’organizzazione industriale del lavoro - si configurano come "luoghi" in cui alchemicamente avviene la metamorfosi dal cosiddetto naturale al culturale. Grazie alle macchine che rendono possibile abolire "distanze e sacralità, ritmi e pause", consentendoci di gustare qualunque cibo in qualunque momento facendoci beffe di stagioni e latitudine, si accentua la hybris, la tracotanza di abolire ogni limite, che è poi il mito per eccellenza dell’Occidente.

Ma non si correrà il rischio di enfatizzare il ruolo del cibo ritenendo, come sostiene Manuela Tartari, che le regole alimentari "si correlano ai generali sistemi in base ai quali l’esperienza globale della vita viene organizzata e dotata di significato"? Non per l’antropologa Audrey Richards (già allieva di Malinowski, secondo il quale alla sessualità si deve l’input che favorisce aggregazione e rapporti sociali) se è il bisogno primario di alimentarsi a costituire la causa principale che muove l’essere umano ad elaborare comportamenti che tendono a costituire contesti relazionali denotati da stabilità, quali in primo luogo la famiglia, quindi una comunità più allargata. In tutti i casi al di là di ogni considerazione esaustiva, il cibo - sin da quando cucinarlo ci ha distinto dagli animali - legato com’è a filo doppio con emozioni, rituali & ideologie sembra proprio da rubricare tra i protagonisti della commedia umana.

Francesco Roat