Index Attualità - Ottobre 1998



Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Danilo D'Antonio del Laboratorio Eudemonia. Sono alcune idee che possono far discutere ma che, proprio per questo, potrebbero innescare un dibattito interessante

Per una evoluzione del pubblico impiego

Tra le tante innovazioni oggi necessarie nel nostro modo di vivere, almeno una riguarda il pubblico impiego. Vi sono dei lavori che, per loro utilità comune, o per l'amministrazione di beni e servizi comuni, o la sicurezza di tutti (quindi: educazione, sanità, impieghi comunali, provinciali, regionali, statali, protezione civile, polizia, carabinieri, finanza, vigilanza, ecc. ecc.) sono categorizzati sotto il nome di pubblici impieghi: essi servono la collettività e l'intera collettività se ne serve.

Come tutti sappiamo, oggi il pubblico impiego viene affidato a persone scelte tramite particolari procedure che intendono selezionare i più idonei, tra i tanti che vorrebbero svolgerlo. Una volta selezionate le persone più idonee, è uso assegnare ad esse l'impiego in questione per l'intera durata della loro vita. Ebbene: andrebbe tutto a meraviglia, se non fosse che, essendo i posti disponibili di numero ben inferiore rispetto a quello, non solo degli aspiranti, ma, cosa molto importante, anche degli idonei, ciò che si assegna a quei pochi prescelti, in pratica, non è tanto un lavoro, bensì un vero e proprio privilegio rispetto al resto della società, privilegio d'altronde di origine del tutto ingiustificata. Se riconosciamo, infatti, la società, nella sua interezza, essere depositaria del diritto di usufruire dei pubblici beni e servizi, allo stesso modo dobbiamo riconoscerle il diritto di equa partecipazione alla amministrazione e svolgimento di tali beni e servizi.

Quando nacque l'impiego pubblico in senso moderno, determinate mansioni cominciarono da subito ad essere assegnate a determinate persone in una corrispondenza univoca. In maniera del tutto naturale, infatti, si perpetuò lo schema del lavoro classico, in cui una persona, iniziando una attività lavorativa, facilmente sviluppava una certa fedeltà ad essa, e la continuava, salvo rare eccezioni, fin dopo il termine della sua stessa vita, attraverso le generazioni successive. Fu estremamente semplice, quindi, per il pubblico impiego sposare questo stesso sistema. Oltre a ciò, putroppo, vi è stato in seguito anche un esacerbamento di questa concezione, esasperazione avvenuta ad opera del fenomeno del "favoritismo", in cui l'assegnazione a vita di un posto di lavoro garantiva una fedeltà di eguale durata al politico che lo avesse assegnato. Oltre che aggravare in generale la situazione, questo fenomeno ha ritardato di molto la presa di coscienza del fatto che in realtà il lavoro di pubblica utilità non può essere di proprietà esclusiva di alcuno, proprio per sua stessa definizione di pubblica attività. Finora abbiamo concepito questa definizione solo in un senso (che ognuno, cioè, possa usufruire dei suoi servizi), ma oggi, con la situazione di tremenda disparità che si è venuta a creare nel campo dell'occupazione e dei redditi della popolazione, non possiamo non renderci conto di come il pubblico impiego debba essere considerato tale sotto tutti gli aspetti, anche e soprattutto dal punto di vista della sua esecuzione.

Occorre, in somma, al più presto, prendere in seria considerazione l'idea di abolire l'iniquo privilegio dell'impiego pubblico assegnato a vita a pochi eletti, in favore di una sua più equa ripartizione tra tutti coloro che desiderassero svolgerlo e dimostrassero di possederne tutti i requisiti necessari. Ci attende un compito estremamente semplice: effettuare il conteggio delle ore di lavoro necessario al buon andamento della nazione, contare il numero delle persone disponibili ed idonee a svolgerlo, distribuendo poi equamente le prime tra le seconde.

E' da considerare, poi, al di là di quella che potrebbe sembrare una pura questione di teorica equità, che, introducendo una tale riforma, le cose nel nostro Paese comincerebbero a funzionare molto meglio in vari àmbiti:

• l'introduzione di una intelligente rotazione del personale all'interno delle pubbliche strutture apporterebbe immediatamente un flusso di fresca energia creativa, rimuovendole da quella condizione di eterno immobilismo, che noi tutti ampiamente verifichiamo, dovuto al senso di proprietà esclusiva che ogni impiegato, di qualsiasi livello, oggi attribuisce al "suo" posto di lavoro. Ogni nuovo dipendente apporterebbe il suo contributo originale, personale, diverso da ogni altro, introducendo una capacità creativa e produttiva senza eguali, lungo una linea di costante rinnovamento e miglioramento. Per giunta, coloro che fossero momentaneamente sostituiti da altri, avrebbero l'opportunità di riacquistare le forze e ritemprarsi lo spirito, oltre che di tenere costantemente aggiornata la loro preparazione tecnica, gettando, quindi, le basi per una vita senza dubbio complessivamente migliore innanzitutto per se stessi. La genìa dei pubblici dipendenti stanchi, annoiati e senza speranza di un futuro mutevole e per questo più interessante scomparirebbe per sempre, per far posto ad un gioioso, attento, accurato ed efficiente esercito di pubblici dipendenti.

• un manifesto senso di giustizia ed uno spirito di istintiva collaborazione si diffonderebbe subito all'interno della società. Si dissolverebbe quel clima di reciproca sfiducia che ci opprime, ormai da tempo, un po' tutti in varia misura, sfiducia causata proprio da situazioni simili a questa, qui descritta, per disparità, irragionevolezza ed ingiustizia. Cadrebbe inoltre quella distinzione tra stato e cittadino che oggi facilmente tende a separarci dalle istituzioni, e ci ricorderebbe invece che lo stato siamo noi tutti, non solo alcuni e nessuno escluso.

• non essendo più il pubblico impiego proprietà di pochi privilegiati, bensì diritto e perfino dovere di noi tutti, e potendoci invece concretamente identificare con lo stato, sarebbe possibile, con estrema facilità e guadagno per tutti, razionalizzarlo e renderlo efficiente ben oltre il livello attuale.

Naturalmente la retribuzione pro capite derivante dal, e proporzionale al, proprio contributo alla società sarebbe inizialmente inferiore a quella percepita dai pubblici dipendenti di oggi. Questo, però, lungi dall'essere un fatto negativo, ci permetterà di divenire finalmente più consapevoli dell'effettiva ricchezza del nostro Paese e di distribuirla più equamente. Saranno impediti inutili sprechi e spese vane da parte di pochi eletti, mentre sarà permessa una più ampia diffusione di un sano benessere. Inoltre, ristabilendo l'equilibrio tra gli interessi in gioco, sarà più semplice individuare e sviluppare quegli aspetti più convenienti delle attività pubbliche ed eliminare rami secchi e saprofiti.

Nel tempo, impegnando più saggiamente e produttivamente le forze umane in gioco, potremo perfino giungere al punto di compiere una magica quadratura del cerchio. Dando più impulso alla scienza ed alla ricerca ed aiutandoci con la tecnologia, potremo continuare lungo una positiva strada intrapresa, sì, già da tempo, ma ancora spesso rallentata dalle nostre irrazionalità: costruire una società equilibratamente più ricca, affannandoci molto, molto meno che oggi.

 

Danilo D'Antonio