Index MUSICA - Aprile 1998

Paolo Conte non ripete

Anche l’avvocato-jazz di Asti come Paganini odia le repliche uguali a se stesse. E ama cambiare spesso quelli che chiama i "colori" della sua musica. Eppure da quando ha cominciato la sua carriera di cantautore lo stile di fondo è rimasto quasi immutato. In attesa, racconta in questa intervista, che qualcuno gli insegni l’elettronica...

Quasi sessantenne, Paolo Conte non ha perso il suo fascino. Piemontese di Asti è un avvocato un po' particolare che a cavilli e codici preferisce ovattate atmosfere jazz e storie quotidiane, raccontate da dietro un pianoforte da cui sporgono i baffi, gli occhi ed il naso di un grande "charmère".

Perché in Paolo Conte c'è una ricerca continua delle sonorità?

Io la ricerca dei suoni la faccio sempre perché mi devo un po' anche divertire, visto che, facendo tante tournee un po' dappertutto, devo sfuggire quanto più mi è possibile alla ripetitività del repertorio. Quindi cambio "i colori" per poter avere ogni sera un motivo nuovo di interesse. E poi c'è un motivo psicologico, i musicisti devono essere sempre tenuti sulla corda, perché ripetersi può fare molto male.

Che cosa è cambiato in lei a livello stilistico?

Nulla. Dentro di me, a livello stilistico non è cambiato nulla. A me piace sperimentare, però io mi stupisco quando si trovano dei cambiamenti nella mia musica. A partire dai primi dischi i giochi, in realtà, erano già fatti. Non ero più giovanissimo ed il mio stile era già delineato. Nei concerti, è vero, ho cambiato qualcosina, perché all'inizio li facevo da solo al pianoforte, poi ho potuto iniziare a permettermi delle orchestre più grandi. Il vecchio sogno di fare più musica che parole l'ho covato, forse, fin dalle origini ed adesso lo attuo perché il successo e le possibilità economiche mi permettono di farlo.

Lei è uno dei pochi artisti italiani ad avere successo anche all'estero. Che differenza c'è tra il pubblico italiano e quello straniero?

Oltre la barriera della lingua, nessuna. Il tipo di gente è lo stesso.

Per chi compone Paolo Conte?

Questo privilegio di comporre per me l'ho sempre avuto, me lo sono sempre dato nel senso che non ho mai voluto mettere in atto una strategia per arrivare al successo, ma devo dire che il sogno di comporre esclusivamente per sé stessi e non farsi più vedere non so se è realizzabile. Nell'artista, il pubblico è qualcosa di implicito.

Lei ha anche l'hobby della pittura: che differenza c'è tra dipingere e suonare?

La pittura ti può permettere un isolamento, ti fa stare più tranquillo, ti eccita meno, ti costringe meno a verificare i risultati e se è buona o se è cattiva ti accontenti. Con la musica, invece, hai la necessità del pubblico.

Che cosa pensa della musica elettronica?

A me quello che dà fastidio dell'elettronica è l'uso che se ne sta facendo da più di vent'anni, perché è un uso limitato, ovvero la musica elettronica viene trattata come un surrogato degli strumenti tradizionali. Ma un domani che se ne facesse un discorso globale, ovvero tutto elettronico, allora potrebbe essere molto interessante.

Quindi dobbiamo desumere che Paolo Conte, tra le sue sperimentazioni, ama giocare con la musica elettronica?

No, io sono negato addirittura nel mettere la spina nel muro quindi figuriamoci per il resto. Se avessi degli assistenti che mi preparano tutto, potrei anche pensare di farlo...

Uno dei suoi ultimi album si chiama: "Novecento". Che cosa pensa degli atteggiamenti, forse un po' "esagerati" della gente che vive questi ultimi anni del secolo?

Nelle notti di insonnia, avendo ancora qualche nostalgia del mio vecchio mestiere, mi invento dei processi fantasma e sto elaborando sempre più una mia teoria, alla quale credo abbastanza, ovvero quella dell'epidemia. Tantissimi comportamenti umani, specialmente di questi anni, sono sotto il segno dell'epidemia e per questo chiederei delle attenuanti basate "de iure condendo" su questo concetto.

Marco Spagnoli