Index LETTURE&SCRITTURE Aprile 1998


Dio distratto, ti amo lo stesso

La storia di un ebreo del ghetto di Varsavia che cerca di resistere al nazismo. E nonostante la sconfitta non perde la fede nel Signore di Israele che in quel periodo oscuro sembra essersi dimenticato della pietà

Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, trad. di Anna Linda Callow e Rosella Carpinella Guarneri, Adelphi, pp.91, L.12.000

"Credo nel sole anche quando non splende; credo nell’amore anche quando non lo sento, credo in Dio anche quando tace". Questa scritta - graffiata sul muro d’una cantina di Colonia, dove avevano trovato rifugio per tutta la seconda guerra mondiale alcuni ebrei - testimonia in modo esemplare una fede che, sebbene messa a dura prova dall’Olocausto, trova la forza (o la follia, secondo taluni) di non deflettere; riassume compendiandolo in un rigo l’intero libro di Giobbe e, tenendo conto del suo drammatico contesto, allude a come si possa trovare una conciliazione col proprio Dio anche dopo Auschwitz.

Non a caso sulla figura di Giobbe - di colui che interroga Jahweh, o si interroga sullo scandalo del male nel mondo, nonostante Dio – il pensiero contemporaneo è tornato insistentemente (da Kirkegaard a Jaspers, da Jung a Bloch), in quanto la problematica dell’oppressione e della sofferenza di cui patisce l’innocente accomuna credenti e non nella riflessione filosofica intorno al senso (o al non senso) d’un esistere comunque segnato dal dolore e votato alla morte.

E su un Giobbe del novecento si incentra il suggestivo racconto dell’ebreo lituano Zvi Kolitz, "Yossl Rakover si rivolge a Dio", vero e proprio Salmo moderno pubblicato nel 1946 da una rivista argentina in lingua yddish e presentato come il testamento di un appartenente alla resistenza che lottò per difendere il ghetto di Varsavia nel ’43. Per anni il testo, ristampato su un periodico yddish negli USA e quindi tradotto in tedesco, in francese ed in ebraico conosce un bizzarro destino: quello di essere considerato un documento autentico e non il frutto sia pure geniale della fantasia di un narratore. L’eco che lo scritto suscita è straordinario. Thomas Mann parla di "documento umano religioso e sconvolgente", Emmanuel Lévinas, giunge a riconoscerlo "bello e vero", o meglio "vero come solo la finzione può esserlo". E’ l’inizio di un’autentica leggenda e, in parallelo, di una disputa infinita che Paul Badde ha ricostruito ed il cui resoconto Adelphi propone ai lettori accanto al testo di Kolitz e ad un breve saggio di Lévinas.

Ma veniamo al racconto. Tra le rovine del ghetto di Varsavia, dunque, preservato in una piccola bottiglia, trova scampo alla violenza nazista il testamento vergato poco prima di morire da Yossl Rakover, uno fra i coraggiosi che si opposero ai lanciafiamme delle SS, riuscendo ad organizzare sino allo stremo un’eroica benché tragica resistenza. Il messaggio del combattente è indirizzato soprattutto al suo Dio, cui si rivolge in una riflessione che lo chiama in causa proprio quando il Signore "ha nascosto il suo volto al mondo". Ma non è con rancore che Yossl Rakover parla a Jahweh; egli sa bene, come ha sottolineato Lévinas, che una divinità per adulti non può manifestarsi se non tramite "il vuoto del cielo infantile".

Quando, infatti, Dio scompare dall’orizzonte della speranza e l’uomo si ritrova senza altra risorsa che quella della propria coscienza, assurge ad una dignità morale da far sì che - dice bene Kolitz - il suo rapporto col Dio non sia più "quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro". In una prospettiva spirituale che vede l’uomo religiosamente ateo, allora, per dirla con un paradosso di Ernst Bloch, o incline ad una religiosità che rinuncia ad ogni illusione d’intervento oltremondano e si richiama alla responsabilità morale di ogni individuo. Un’etica basata sulla fratellanza che non ha bisogno di invocare vendette divine nemmeno contro i nazisti, in quanto essi "si sono già condannati da sé, e a quella sentenza non potranno più sottrarsi".

Per questo Yossl, pur soffrendo del silenzio di Dio non gli chiede nulla, nemmeno la ragione della sua assenza, denuncia solo con fierezza la propria identità di ebreo ed il proprio destino di sconfitto ma non vinto, pari a quello di quanti altri che - come gli anonimi del graffito di Colonia -, pur abbandonati dal Signore di Israele, potrebbero riconoscersi in quel combattente "colpito, ma non asservito, amareggiato ma non deluso, credente, ma non supplice, colmo d’amore per Dio, ma senza rispondergli ciecamente amen".

Francesco Roat