Index Attualità - Febbraio 1998


Strategie di sconfitta

Nel malaugurato caso di un secondo Desert Storm contro Saddam Hussein, il Pentagono dovrà risolvere un dilemma paradossale: che tipo di guerra fare. Perché l’aviazione dell’Iraq è inesistente, i depositi di armi chimiche non si possono bombardare per non creare fumi letali e i civili proteggono i palazzi residenziali del dittatore. Catturarlo? Bisognerebbe occupare militarmente Baghdad con migliaia di soldati. Con alle spalle lo spettro di un nuovo Vietnam

Impossibile prevedere cosa succederà: mentre scriviamo tra Usa e Iraq tira aria dall’odore di polvere da sparo, ma la speranza è che all’ultimo momento la diplomazia riesca a fermare un secondo Desert Storm. Non tanto per amore di Saddam Hussein, ma perché meno ci si spara e meglio è, a qualsiasi latitudine.

Il problema nasce dal fatto che l’Iraq è troppo ambiguo sulla possibile esistenza di armi chimiche e biologiche sul suo territorio. Come dimostrano i continui stop agli ispettori Onu con la scusa che sono americani. E gli Usa, manco a dirlo, si dicono sicuri che quei depositi proibiti ci sono ancora. Una questione di ripicche e sfumature che sta però portando vicino all’attacco militare, previsto dagli osservatori verso metà febbraio.

Insomma mentre leggete queste righe la grana-ispezioni potrebbe essersi già risolta pacificamente. O i cacciabombardieri dell’Us Navy potrebbero già essere sopra Baghdad. Comunque sia, in una nota della corrispondente per gli affari militari della Cnn sono riassunti molto chiaramente i mille dubbi che assillano il Pentagono in caso di guerra. Molti di più del primo Desert Storm. E che spiegano anche perché il segretario di Stato Madeleine Albright abbia tentato con tanta insistenza di trovare una via d’uscita diplomatica alla questione.

Le opzioni militari in caso di attacco (sia che gli Usa agiscano da soli che con altri partner occidentali) sono a dir poco mediocri. E, anzi, il rischio maggiore è di vedere gli Stati Uniti ricadere dentro una situazione tipo Vietnam: cioè un pantano senza fine dove più si spinge con forza e più si affonda. Tutte le strategie di attacco segnate sulla lavagna hanno infatti pesanti controindicazioni. Vediamo le principali.

Ad esempio l’uso di missili "cruise" (quelli lanciati dalle portaerei e capaci di colpire bersagli con grande precisione) o di raid aerei per eliminare le basi missilistiche irachene certo ridurrebbero il pericolo per l’aviazione alleata. Ma c’è veramente questo pericolo? E che risultato avrebbero questi raid? Quello di non far sparare qualche razzo a Saddam, ma non certo di convincerlo alla resa. Così come bombardare o bloccare gli aerei iracheni sembra del tutto inutile: l’applicazione in vigore da anni della "no-fly restriction" sui cieli dell’Iraq ha già messo ko la forza aerea del dittatore, formata quindi da piloti poco addestrati. "Per Saddam sarebbero punture di spillo" spiega Lawrence Korb, osservatore della Brookings Institution.

Un obbiettivo più sensato potrebbero essere quei circa 200 depositi sparsi per il Paese sospettati di contenere armi per la guerra chimica o biologica. Un bersaglio che tra l’altro sarebbe direttamente collegato al rifiuto di Saddam Hussein di far entrare gli ispettori Onu americani. Politicamente perfetto. Ma questa volta il limite è militare. Anzi tecnologico: bombardare depositi con sostanze ad alto rischio è un vero guaio. E il Pentagono lo ha già detto: non abbiamo bombe che producono abbastanza calore nell’esplosione da distruggere questi materiali senza creare fumi tossici se non letali. Insomma una Chernobyl incontrollabile, con i venti che spargono in giro per l’Iraq e anche oltreconfine molecole mortali. E se fumi e polveri finiscono su una città?

Insomma niente da fare neanche qui. C’è allora una terza opzione per il Pentagono: indebolire il sostegno e la credibilità di Saddam bombardando direttamente le forze di sicurezza del dittatore e le sue truppe più fedeli, la Guardia Repubblicana. Ma, ammesso che la cosa funzioni, cosa ne penserebbe l’opinione pubblica mondiale di una scelta che prevede l’uccisione premeditata di uomini (anche se soldati) invece che di edifici, basi aeree o depositi? Brutta storia.

Tentiamone un’altra, ha suggerito qualche testa-d’uovo-con-stellette dell’Us Army: distruggiamo i famosi palazzi-residenze del dittatore. Sempre una lezione è, e magari lo peschiamo anche mentre è in casa. Peccato che il leader iracheno abbia già provveduto riempiendo le sue lussuose dimore con civili a mo’ di scudi umani.

Roba da spaccarsi la testa. Lo stesso Korb ha commentato che "forse per la prima volta va riconosciuto a Saddam di aver agito con ragionevole perspicacia per proteggere i soui interessi". Visto che anche una quinta possibilità va scartata: un attacco mirato con obbiettivo l’uccisione del dittatore. Sono due i problemi, infatti: le scarsissime possibilità di riuscita e la legge Usa che vieta l’assassinio su commissione (non la pena capitale che è la stessa cosa, ma gli americani su questo proprio non ci sentono). Si potrebbe organizzare un blitz per catturarlo, ma qui siamo alle trame da libro di fanta-politica: servirebbero migliaia di soldati per occupare nientemeno che Baghdad, con migliaia di civili pronti a scendere in strada. Più che un pantano, queste sono sabbie mobili.

Così alla fine, secondo l’analista della Cnn, si torna al punto di partenza: se un attacco limitato e simbolico non servisse a niente (come è probabile), il passo successivo sarebbe usare ancora più forza. Con risultati imprevedibili. Compreso lo spettro del Vietnam, quella piccola stupida guerra tra il gigante Usa e il nano asiatico che sarebbe durata pochi mesi. Solo che non è andata proprio così.

a.m.