Index Cultura - Gennaio 1998

Lo sviluppo dell’identità

4^ puntata

Dopo aver visto cosa si intende per sviluppo dell’identità (ottobre), le influenze che hanno su di essa il Vero Sé e il Falso Sé (novembre), abbiamo esaminato il legami tra questo faticoso cammino e due parametri fondamentali della nostra vita: il tempo e lo spazio (dicembre). Ora cercheremo di tratteggiare una strategia di fondo per aiutarci in questo difficile cammino

Dal "fare" all'elaborare.

Un aspetto sintomatico di questa fase storica lo si può rilevare all’interno dell’apparente contraddizione di una società che fa’ della libertà individuale un valore dichiarato e contemporaneamente pone pesanti limitazioni alla necessità che l'uomo ha di produrre una sua elaborazione personale delle cose e del senso della sua vita. Da un lato si mostra all'uomo la possibilità della libertà e contemporaneamente gli offre l'omologazione del pensiero e del sentire come soluzione all'ansia della ricerca che, prima che collettiva, è necessariamente individuale. In questo senso parlavo di apparente contraddizione, perché nei fatti le due spinte colludono comunque al non cambiamento.

Appare invece necessario riscoprire il valore e gli spazi della personale rielaborazione che è prima di tutto dialogo con sé stessi, confronto con gli altri e ripensamento delle personali strategie nell’affrontare la realtà.

Imboccare questa via sembra rappresentare la più autentica possibilità per costituire un valido ed efficace strumento per la prevenzione del disagio psicologico e per la costruzione di un rapporto interumano autenticamente tollerante: chi ha la possibilità di capirsi può modificarsi, chi tocca con mano le proprie difficoltà e impara a non vergognarsene diviene più facilmente tollerante anche verso quelle degli altri

Per esemplificare al meglio questo punto mi voglio riferire ad un'esperienza formativa condotta in questi anni a favore di personale addetto all’assistenza, ma che può essere tranquillamente tradotta anche per i problemi che vivono i genitori verso i figli, le coppie nelle loro relazioni interpersonali e via dicendo.

In campo assistenziale, l'operatore, a qualsiasi livello lo vogliamo considerare, è troppo spesso lasciato completamente allo scoperto per quel che riguarda la gestione delle sue relazioni interpersonali con il paziente, con i parenti del paziente, con i colleghi di lavoro. Ad aggravare la sua posizione c’è la spinta ad un male inteso volontarismo, secondo il quale l'operatore, per il fatto stesso di svolgere un lavoro assistenziale, "deve" avere un buon rapporto con il suo assistito; se poi non ci riesce, se poi questo gli comporta una serie di problemi personali, non gli resta che sbrogliarsela da solo (Zuliani).

Di fronte a questa situazione che di fatto nega o banalizza la complessità e la difficoltà delle relazioni interpersonali, l'operatore è coinvolto da una parte in sentimenti di insoddisfazione e di frustrazione per il suo ruolo professionale e, dall'altra, nel timore per lo spessore di un coinvolgimento emotivo che sente, ma di cui non coglie le reali dimensioni.

Nella misura in cui questa situazione relazionale diviene soggettivamente intollerabile l'operatore erige delle difese che lo spingono a chiedere sempre più accentuate rassicurazioni tecniche. Ecco allora che importanti evoluzioni scientifiche, come la capacità di compiere diagnosi sempre più selettive o di progettare operatività sempre più raffinate, rischiano di essere utilizzate per separare il "malato" dalla sua "malattia", per poter rivolgere l'attenzione a quest'ultima molto più rassicurante e meno coinvolgente (Zuliani).

Ma come ci ha ben insegnato Balint le relazioni interpersonali sono inscindibili dall'aspetto tecnico: le relazioni interpersonali sono un po' la trama di una stoffa su cui si può proficuamente intessere l'ordito delle conoscenze tecniche e scientifiche, l'uno senza l'altra dà dei risultati informi.

In questo senso il rimedio più efficace per quello che possiamo definire il burn-out degli operatori sta in una autentica attività formativa che deve essere indirizzata a mettere in luce e a riconoscere quegli aspetti relazionali che intervengono nei rapporti con i pazienti e con i loro familiari.

Questo è possibile solamente attraverso il metodo della discussione e della condivisione delle problematiche personali, di quegli interrogativi che risuonano all'interno di ognuno, ma che il singolo non si sente abilitato a condividere con gli altri.

Gli operatori possono così constatare come, al di là delle qualifiche professionali e dei titoli di studio che li differenziano, provino analoghe emozioni, paure, gelosie, nutrano gli stessi dubbi e perplessità di fronte alle evenienze professionali che ogni giorno intervengono nel loro rapporto con gli assistiti, con i loro familiari, fino con i colleghi di lavoro.

La comprensione delle dinamiche relazionali che ne scaturisce diviene un importante spunto per verificare e modificare il coinvolgimento emotivo dell'operatore nella sua relazione lavorativa, per consentirgli di elaborare più corrette distanze emozionali dai conflitti presenti, per favorire la ricerca di soluzioni più adeguate per una loro positiva risoluzione.

Non si tratta di una via facile, certamente è una via che non richiede "edificazioni", né tanto meno l'organizzazione di strutture, ma prevede la possibilità e la disponibilità di un luogo e di un tempo per il confronto e l'elaborazione.

Non è una via facile perché non tollera mascheramenti proposti da un facile "fare", ma chiede le doti fondamentali della pazienza per i tempi individuali e la tolleranza, che è condivisione, delle difficoltà di ognuno.

Questa appare anche la via maestra per il superamento di quello che oggi appare come il neo-individualismo che si esplicita in un culto dell'istante, del qui ed ora in cui non c'è autentico spazio per le relazioni con gli altri.

Questa tendenza trova la sua più evidente espressione nel narcisismo che ha come conseguenza sia la mancanza di pietas verso il passato, sia l'afflosciarsi di ogni tensione verso il futuro che sia altro dall'oggi o da un ripetersi ossessivo di tanti "oggi".

In fondo il limite di Narciso non è stato quello nella conoscenza de sé (nell'essersi visto bello), ma nel proprio sottrarsi ad essa mediante l'autocontemplazione che taglia fuori da ogni possibilità di fare esperienza. Narciso, infatti, al contrario di Edipo, non vive e non ha storia.

Le conseguenze intrapsichiche di quanto detto sopra sono un tentativo di svalorizzare l'Io nelle sue funzioni di mediatore tra il Super-Io, l'Es e il mondo esterno.

Un Io debole, minimale, lungi dall'essere liberato è un Io senza identità. Ed ecco il paradosso massimo del nuovo individualismo: l'esplodere dell'esigenza di un'identità omologata a cui aderire, con un Io che diviene rigido per resistere all'angoscia di non esserci, come già evidenziato nelle pagine precedenti.

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