Index Cultura - Dicembre 1997

Lo sviluppo dell’identità

3^ puntata

Nei due numeri precedenti abbiamo visto inizialmente il percorso che permette ad ognuno di sviluppare la propria identità (ottobre). E come tale la crescita può essere beneficiata dalla preponderante azione di quello che abbiamo chiamato il Vero Sé, o in qualche modo inibita dall’azione del Falso Sé (novembre). Questo mese affronteremo il rapporto che ogni persona costruisce con due variabili fondamentali nel processo di costruzione della sua identità: il tempo e lo spazio

Il tempo nella vita psichica

Quanto descritto nei numeri precedenti si apre ad alcune osservazioni in merito ad alcuni problemi che l'uomo di oggi vive e che appaiono importanti, anche alla luce del necessario tentativo di favorirne lo sviluppo più idoneo.

Il primo luogo occorre riflettere sul significato del tempo.

Da un punto di vista culturale l'esperienza del tempo ha subito in questi decenni un mutamento decisivo.

La visione del mondo e della natura come entità astratta, indipendente dall'uomo e soggetta a leggi certe e immutabili, sembra entrata definitivamente in crisi.

Oggi si assiste ad una spinta per un ricollegamento dell'uomo con la natura e con le sue leggi in una sorta di equilibrio ecologico nel quale i mutamenti dell'uno influenzano quelli dell'altro e viceversa, e in cui il tempo dell'uomo e il tempo della natura tornano a collegarsi.

In questa direzione sembra che l'uomo contemporaneo vada scoprendo che il tempo non è più solamente un tempo storico o un tempo meccanico, e divenga sempre più importante la ricerca di un tempo interiore che poi è il tempo dei propri personali ritmi di evoluzione e maturazione.

L'uomo sembra percepire che vi è una distinzione tra il tempo dell'azione e il tempo della riflessione e della elaborazione; quanto detto può essere inteso, in altri termini, come il percepire che c'è un tempo dell'essere nel mondo e un tempo del rifugiarsi nel proprio spazio interiore.

Ma questa è un'esperienza per molti versi inquietante perché prefigura l'incertezza e l'ansia che ogni processo di interiorizzazione prevede: riflettere e rielaborare ha sullo sfondo il cambiamento e cambiare non è, al fondo delle cose, piacevole e gradito a nessuno, questo al di là delle affermazioni esteriori. Questa tra l’altro è una traccia interessante per analizzare il proliferare di molte organizzazioni che forniscono all’uomo risposte "certe" e "deresponsabilizzanti" circa il suo futuro (su questi aspetti sarebbe interessante aprire un dibattito su queste pagine).

Su questa difficoltà personale si inserisce il "tempo" della società, del lavoro, nel quale tutto procede sempre più velocemente, fino alla saturazione del tempo stesso. Una società cui le istituzioni decidono, o vengono demandate a decidere, la ripartizione delle ore; ed ancora il "tempo" della società del consumo, in cui viene privilegiata la dimensione dell'"usare" rispetto a quella del "vivere" il tempo.

In questo senso molte delle stesse conquiste dell'uomo contemporaneo mostrano tutta la loro ambivalenza.

Così, ad esempio, l'enorme velocizzazione dei tempi dell'informazione, fino all'esperienza di vivere in tempo reale gli avvenimenti del mondo intero, indubbiamente hanno dato un grandioso contributo alla crescita della libertà individuale, ma hanno anche messo a dura prova i tempi di rielaborazione individuale di cui l'uomo è capace. Si vedano, a questo proposito, gli studi sui brainframes di Derrick de Kerckhove.

L'evoluzione tecnologica è stata fonte di benessere, ma chiede modalità e tempi di adattamento che appaiono spesso non alla portata di tutti i membri della società o comunque non compatibili con i vari momenti che ognuno si trova a vivere: è come se l'uomo non avesse più tempo di fermarsi se lo ritiene per sé stesso importante, fermarsi a riflettere, a ripensare e, perché no, a sognare.

Questa esperienza è tanto più paradossale se si considera che il cosiddetto "tempo libero" è una tangibile conquista dei nostri anni: una conquista forse così "pericolosa" da non poter essere vissuta pienamente. D’altra pare, come osserva Abbate, tempo libero è proprio una brutta parola, che sa di pianificazione, di un quotidiano dove le ore sottratte al lavoro vengono circoscritte con un segno di matita sul calendario. "Il tempo libero dovrebbe glorificare, forse, la nostra certezza di riconoscere il bene e le pianure della vita, e non dovremmo buttarlo via, non dovrebbe trovarci inermi, poveri ed ottusi consumatori di merci scadenti, di gioie poco autentiche fatte di inutili corse, di inutili gite, di un’euforia coatta che non porta nulla alla coscienza se non l’incerta consapevolezza d’esserci nel mondo".

La stessa esperienza del tempo risulta essere un fenomeno complesso: vi sono eventi con una durata ed un esito tutto sommato prevedibile (ad esempio sappiamo che un bambino nasce circa nove mesi dopo il concepimento); altri eventi sono più aperti nel tempo, cosa ben realizzabile nell'esperienza del bambino piccolo che non sa quando la madre, momentaneamente assente, tornerà da lui, o se tornerà, tanto da essere spesso veramente angosciato. Ancora vi sono momenti particolarmente intensi - dare alla luce un bambino, il piacere sessuale, le vette del misticismo, probabilmente la stessa transizione alla morte - che contemplano un'allentarsi dei legami del tempo che può portare fino alla regressione a temporalità più primitive, ad una perdita parziale del senso di identità.

Ma la privazione che l'uomo subisce di questo "tempo" ha anche dei suoi proseliti, appare per certi versi ricercata. L'ideologia contemporanea dell'azione come regola principe della società raccoglie tanti seguaci perché viene a rappresentare un grande meccanismo di difesa verso l'ansia che nasce dalla possibilità e dalla difficoltà del cambiamento o, in termini diversi, dalla paura sempre insita nell'esercizio della libertà, della scelta tra diverse opzioni.

Lo spazio e la sua valenza psicologica

La rilevanza psicologica dello spazio è stata troppo spesso trascurata, nonostante in questi anni si siano sviluppate numerose indagini sulle necessità territoriali sia dell'uomo che degli animali. E' ormai innegabile che l'essere umano ha dei bisogni spaziali che gli sono fondamentali in quanto organismo biologico (benché sotto questa aspetto, come in altri, egli sia più flessibile di altre forme di vita nelle sua capacità di adattarsi). Si tratta di bisogni modellati dal costume culturale e dal particolare atteggiamento personale verso i bisogni e i significati delle costanze percettive.

L’antropologo Edward Hall sostiene che: "L'uomo ha molti bisogni, pulsioni o tropismi. Tra questi, quelli più comunemente presi in considerazione sono la fame, la sessualità, l'autoaffermazione. Ma altrettanto fondamentale può essere il bisogno di far valere un diritto o di organizzare il territorio, per non parlare del bisogno di mantenere modelli di ben definita distanza dai nostri simili" (p 42)

E’ chiaro che il termine spazio lo stiamo usando sia nella sua accezione di spazio psicologico, sia in quella di luogo fisico. Anzi proprio sugli intrecci tra questi due aspetti e sulle conseguenze per il nostro continuo lavorio di costruzione di una identità, che vorrei portare l’attenzione dei lettori.

Da questo punto di vista una particolare riflessione merita il significato che ha la casa, intesa come luogo che la persona abita. Jung sosteneva che la casa ha una valenza intrapsichica, tanto che egli la assumeva come strumento di analisi per l'animo umano. Egli affermava che esiste un rapporto tra la persona e la sua abitazione e che l'abitazione attuale ha un rapporto triangolare con la casa di origine, con la casa dell'infanzia. Si tratta di un rapporto spesso conflittuale e non sempre efficacemente risolto in modo positivo, ma questo processo appartiene alla ricerca personale di una propria individualità e di una propria indipendenza, cosa che viene di fatto ostacolata con l'entrata in una "casa" istituzionale (dal collegio alla caserma, dall’ospedale alla casa di riposo) nella quale i significati degli spazi sono predeterminati rispetto alle scelte della persona.

La casa può allora essere considerata come un luogo privilegiato dove una persona si rapporta e vive con le sue superfici, con i suoi oggetti che costituiscono un modo privilegiato di espressione del proprio inconscio, nel senso che ciò che sta fuori è l'espressione del mondo interno della persona, anche se sta fuori di essa.

Ricordando quello che si era detto a proposito dell’importanza dei confini per lo sviluppo dell’identità (Nautilus, settembre 1997), possiamo parlare della casa come una sorta di superficie intermedia tra il mondo interno e quello esterno della persona; come un'interfaccia che lega assieme immagini altrimenti spezzettate, con una funzione analoga a quella della pelle che contiene, raccoglie, accomoda le parti interne della persona; dà ad esse una forma riconoscibile, le difende dalle intrusioni dell'esterno (vedi i lavori di Anzieu e di Bick sulla funzioni della pelle) .

Questa riflessione ci deve far pensare a come molte volte il nostro desiderio di tornare a casa, la nostra nostalgia per la casa possa esprimere anche il desiderio del ritorno in una sorta di "grande culla" dove le angosce possono trovare ricompensazione; tant’è che spesso il ritorno fisico presso la casa agognata risulta, alla fin fine deludente.

La casa vissuta non è dunque uno spazio inerte, ma "spazio abitato che trascende lo spazio geometrico" (Bachelard).

La casa prende dall'interno la propria forma, così come un vestito, che per sentirselo addosso non deve essere né troppo stretto né troppo largo, ma modellato su di sé, con quel tanto di comfort armonioso che non incute né timore, né depressione.

Non solo, ma la funzionalità degli spazi e degli oggetti non coincide sempre con il loro significato psicologico, ad esempio una maniglia non è solo funzionale all'apertura di una porta, ma trasmette anche significati di apertura. Nel regno dei significati la maniglia apre, così come la chiave chiude.

Sempre nel regno dei significati sono importanti tutti i "nascondigli" e le cose necessarie a nascondere: nascondere nella casa, nell'animo, agli altri, a noi stessi. Ecco allora che comodini ed armadi diventano oggetti e soggetti che hanno il significato della segretezza, dell'intimità, del mistero. "Lo spazio interno dell'armadio è uno spazio di intimità, uno spazio che non si apre di fronte a chiunque" (Bachelard). E allora, per ritornare all’esperienza delle nostre case: in quante di esse è accettato il diritto che i suoi membri possano avere spazi privati accessibili solamente a loro stessi, di cui gli altri non hanno le chiavi?

Un altro aspetto è quello degli angoli: ogni angolo, sia esso ricercato per nascondersi, sia esso incontrato "perché ci si sbatte il muso", è nell'immaginazione una solitudine, invoca l'immobilità, l'essere intrappolati. Heidegger dice che "molte costruzioni albergano l'uomo, ma poi succede che egli non abiti in esse se per abitare un luogo non si intende solo l'avervi il proprio alloggio".

Infine occorre riconoscere nella case degli spazi abitativi dei singoli soggetti, delle singole persone e non solo dell'intera famiglia, o, nel caso dell’istituzione, dell'intero gruppo degli ospiti e degli operatori.

Ciò significa ritrovare nella casa luoghi, ambienti, ritmi, colori che connotino la differenza, che connotino degli spazi personali e non solo delle funzioni. Questa comporta passare del neutro, dall'asettico al personale, un personale che si concretizza in spazi riconoscibili, individuali e differenziati nuovamente per i significati che hanno più che per le loro funzioni.

Seppur la nostra riflessione si è interessata dei significati, dobbiamo constatare come anche in questo campo siamo alle prese con una pericolosa deregulation per quando riguarda un altro significato dello spazio: la distanza.

Basti pensare alla confusione che gli attuali mezzi di comunicazione pongono tra il vicino e il lontano, un tempo parametri fondamentali delle relazioni umane.

Virilio presenta un interessante esempio in proposito. La solidarietà è basata, tradizionalmente, sull’amore per il prossimo. Oggi, invece, ci viene detto di amare il lontano come noi stessi. Non il lontano in senso metafisico, ma quel lontano che vediamo nel video, colui che non puzza, colui che non ci infastidisce. E qui assistiamo ad una fondamentale inversione: il lontano la vince sul prossimo. Come diviene più facile amare questo lontano che non disturba, non fa rumore, non viene a bussare alle nostre porte, non ci secca. E come scompare d’incanto il prossimo che disturba, infastidisce, con la sua sola presenza accanto a noi.

Ma ecco presentarsi anche un’altra inversione: un tempo il lontano, l’estraneo era il nemico, colui da cui difendersi, ora invece questa presenza asettica diviene più amichevole di colui che sta nella porta accanto. Ed ecco la solitudine dei grandi agglomerati urbani.

a.z.