Index Attualità - Dicembre 1997


Buddista per caso

Sta facendo il giro d’Europa per presentare il suo ultimo film, "Sette anni in Tibet". Dove è un nazista redento che sposa il pacifismo dei monaci. Ma anche se nella vita si professa pacifista e tollerante, Brad Pitt, ultimo "bello" del cinema, non intende farsi coinvolgere dalla moda buddista di Hollywood. Perché, dice in questa intervista, "sono solo un adulto che si mette su del cerone"

Brad Pitt è assolutamente uguale a come appare sullo schermo. Alto, ma non troppo, biondo, occhi di un azzurro intensissimo perennemente distratti da chissà quali pensieri. Bello, non molto espansivo, quando parla accompagna le parole con marcato accento di chi è cresciuto in una piccola città di provincia del Missouri. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione del suo ultimo film Sette anni in Tibet, diretto dal regista francese Jean-Jacques Annaud.


Mister Pitt, lei ha dichiarato che non è stato molto facile girare alcune scene del suo film, perché non era capace di avvertire il dolore in maniera così profonda quanto richiedeva il suo personaggio Heinrich Harrer...

È, vero, ma sa questo capita a tutti gli attori. È il nostro mestiere, ma ci sono certe giornate in cui ti svegli ed è difficile recitare come si dovrebbe.

Sette anni in Tibet racconta la storia di una grande amicizia tra un alpinista tedesco e il Dalai Lama all’indomani dell’occupazione cinese del Tibet. È, però, anche la storia della trasformazione di un uomo da egoista e cinico ad attento ai valori della vita...

Non è un caso, infatti, che Harrer abbia passato gli ultimi quarantacinque anni della sua vita a lavorare per la pace. Era un nazista, era un uomo orribile. Poi l’umiliazione del campo di concentramento britannico, il vagare solo per due anni sul confine tra India e Tibet e l’amicizia per il giovane Dalai Lama l’hanno migliorato e trasformato.

Lei è universalmente riconosciuto come un "sex symbol" degli anni Novanta. Quanto influisce questa consapevolezza sulla scelta dei film da intepretare?

Sono tutte sciocchezze. Anch’io verrò messo da parte un giorno come tutti i divi hollywoodiani. Desidero solo interpretare pellicole che rimangano e che non svaniscano via con gli anni. Qualche film va, qualche altro no. Questa è la storia.

Cosa pensa della ventata di buddismo che spira su Hollywood ? Molti divi da Tina Turner a Richard Gere sono, infatti, buddisti.

L’attrazione che il buddismo esercita sugli americani si spiega facilmente. Fin da piccoli ci hanno messo in testa valori come denaro e successo. Una volta realizzato il cosiddetto "Sogno americano" e raggiunti sia i soldi che il successo, si scopre di non essere felici, e che c’è un vuoto profondo e inspiegabile. E allora il richiamo di quel mondo lontano e irraggiungibile diventa importante. Noi viviamo in una società violenta e egoista. Una piccola nazione pacifica e serena come quella tibetana ci appare un miracolo.

Lei, però, non sembra essersi avvicinato eccessivamente ai principi del buddismo...

Io non sono buddista, ma sono vicino ai suoi principi. Credo nel rifiuto della violenza, nella semplicità e nel rispetto della cultura altrui. Vengo da una famiglia religiosa, che mi ha insegnato a rispettare le idee degli altri e le loro religioni. Sono, però, insofferente delle regole, delle leggi e delle costrizioni. Non so stare dentro una disciplina.

E in che cosa crede?

Un film come Sette anni in Tibet significa la scoperta di una cultura e di un intero universo. Implica il conoscere prospettive, principi di vita, di un mondo che non conoscevo e questo ti modifica. Personalmente, però, credo nella famiglia, nel matrimonio, nel sostegno reciproco e non vedo l’ora di avere dei figli. Da buon americano del Missouri penso che più delle prediche contino i fatti, le proprie azioni e su questo gli uomini vanno giudicati.

Qual è il suo rapporto con la natura?

Mi è sempre piaciuto stare da solo, in contatto con la bellezza, il silenzio e la serenità della natura. Per me è sempre stata un rifugio. Era come varcare la soglia di mondi irreali e bellissimi. Gli alberi dietro casa mia erano un mondo a parte.

Cosa pensa della cultura tibetana e della lotta per la sua salvaguardia che alcuni suoi colleghi stanno portando avanti?

La cultura tibetana è come la foresta pluviale amazzonica. La sua scomparsa toglierebbe ossigeno a tutto il mondo.

Lei pensa che film come Sette anni in Tibet possano modificare l’atteggiamento cinese nei confronti del Tibet?

Non lo so...forse se la maggior parte dei cinesi vedesse il film...sa io rimango sempre un po’ stupito di queste domande. Io sono solo un attore, cosa vuole gliene freghi a qualcuno di quello che io penso riguardo alla politica. Io sono solo un adulto che si mette su del cerone...

 

Marco Spagnoli