Index ECONOMIA - Novembre 1997

Il lavoro? Una scuola continua

Qual è il ruolo della scuola in particolare e dell’educazione più in generale alla fine del ventesimo secolo? E’ vero che "chi sa di più" trova un posto di lavoro maggiormente qualificato? Quanto può incidere la formazione sulle capacità di aggiornamento del lavoratore? E’ il know-how la cosiddetta "strada maestra" per sconfiggere la disoccupazione e comunque per limitarne i dannosi effetti? Questi sono alcuni interrogativi cui abbiamo cercato di dare risposta grazie all’aiuto di alcuni noti economisti (ed ex ministri) italiani come Barucci, Tremonti e Giugni

 

Nel libro "La fine del lavoro nell’era del post-mercato"(Baldini&Castoldi, pagg.519, lire 38.000), l’economista americano Jeremy Rifkin insiste sulla necessità di ripensare interamente la struttura del sistema del lavoro per l’intero pianeta.

A pochi anni dalla fine del secolo, infatti, se da un lato le "macchine mangia posti di lavoro" sembrano essere arrivate a sottrarre al controllo dell’uomo realtà lavorative che fino a ieri apparivano "sicure" (un esempio eclatante in tal senso sono alcune fattorie californiane interamente gestite da un computer), dall’altro l’occidente sembra non riuscire a produrre personale sufficientemente "qualificato" per le esigenze del mercato. L’internazionalizzazione del lavoro e la spregiudicatezza delle grandi holding finanziarie hanno messo in seria difficoltà i lavoratori di tutto il mondo.

La disoccupazione, poi, è arrivata ad essere il problema principale per milioni di giovani in cerca del primo impiego e per altri milioni di persone che il posto di lavoro l’hanno perso a causa delle macchine e della recessione.

Qual è la ricetta che Rifkin propone per arrivare a sconfiggere la disoccupazione nel medio e lungo periodo? Sebbene non esistano formule magiche, oltre ad insistere su strumenti macroeconomici quali "settimana corta" e "riduzioni proporzionali del salario" l’autore del libro suggerisce una maggiore attenzione ai problemi della scuola, ed un investimento maggiore sulla formazione culturale dei lavoratori.

Partendo, infatti, dalla considerazione che il ventisei per cento delle persone impiegate negli Stati Uniti non è in grado di scrivere una lettera al fornitore della sua carta di credito per il controllo dell’estratto conto, Rifkin sottolinea come i lavoratori debbano avere la capacità di diventare "imprenditori di se stessi", sfruttando al massimo le proprie conoscenze ed esperienze lavorative e le proprie capacità di adattamento.

Non è, però, solo la voce di Rifkin a suggerire maggiore attenzione verso la scuola in particolare e la formazione più in generale per intensificare la lotta alla disoccupazione: il recente "rapporto Delors" in Europa ed il documento finale del G7 di Houston del 1994 sono solo alcuni atti pubblici che dimostrano la presa di coscienza dei principali paesi industrializzati riguardo le specifiche possibilità di scuole ed università nei confronti dei problemi del lavoro.

Scrive a tal proposito John Kenneth Galbraith: "Qualunque analisi sulla competività dell’economia americana pone l’accento sulla necessità di una forza lavoro adeguatamente istruita e altamente qualificata. A ulteriore conferma di ciò, a proposito delle spese per l’istruzione si parla di ‘investimento umano’. Scopo di ogni investimento è trarne un profitto; l’istruzione diventa così un aspetto, anzi una componente fondamentale, della politica economica." Così, il celebre economista americano nel suo ultimo libro "La buona società" (Rizzoli pagg.157 - lire 24.000), dedicato al ripensamento del Welfare State nel Duemila, inizia il capitolo intitolato in maniera assai significativa: "Il ruolo decisivo dell’istruzione".

La scuola insomma, viene chiamata in causa come responsabile principale della formazione professionale degli studenti. Per Siro Lombardini, docente di Economia Politica all’Università di Torino "La qualificazione del lavoro e la ricerca, ovvero i due fattori da cui oggi dipende il progresso tecnico e quindi il tasso economico di crescita sono entrambi determinati dalla scuola. Un paese che abbia una scuola efficiente che formi lavoratori flessibili e adattabili alle diverse esigenze del mondo del lavoro si ritrova con un enorme patrimonio professionale e culturale. La scuola è una delle principali risorse di una nazione e mentre una scuola "povera" di contenuti e scarsamente formativa mette in condizioni difficili uno stato, una "buona" scuola che ponga solide basi per la ricerca, costituisce un fattore primario di sviluppo". Fondamentale è il rapporto tra ricerca e nuove strategie economiche: "Per sconfiggere la disoccupazione c’è una sola soluzione nel lungo periodo ed è quella di ridurre l’orario di lavoro. Per fare questo è, però, necessario un progresso tecnico che può essere determinato solo dalla ricerca. Risulta chiaro che la strategia vera per realizzare tutto ciò è quella di raddoppiare la produttività, dimezzando le ore di lavoro senza ridurre il salario o almeno riducendolo in maniera limitata. Una scuola che possa raggiungere risultati del genere sarebbe dunque non solo un pilastro per salvare l’economia degli stati, ma anche per salvaguardarne le istituzioni democratiche, visto che solo delle persone critiche e flessibili possono affacciarsi con una certa dose di sicurezza sul mondo del lavoro del prossimo secolo".

Assai caustico è, invece, il giudizio sulla situazione italiana da parte di Antonio Martino, docente di Economia Politica presso l’Università Luiss di Roma ed ex ministro degli Esteri: "Purtroppo nella scuola italiana sono presenti delle incongruenze che rendono molto difficile realizzare programmi e percorsi culturali efficaci nel breve e lungo periodo. Innanzitutto, il modello che Einaudi chiamava "centralistico e napoleonico" , valido per tutti, è assolutamente inaccettabile. Le esigenze degli studenti e del mondo del lavoro mutano con tale celerità da non poter far ritenere che l’adeguamento della formazione alle necessità del momento dipendano dalle decisioni del ministro della Pubblica istruzione , dal suo ministero e da una maggioranza più o meno stabile in Parlamento. Inoltre fino ad oggi è stata sempre privilegiata l’istruzione classica, anche per ottimi motivi è vero, dato che questo modello di studi insegna a disprezzare quei soldi che non consente di guadagnare. Tutti i tipi di lavoro, però, hanno la stessa dignità e richiedono basi di studi che debbono venire differenziate senza riguardo a questo oppure a quest’altro tipo di istruzione. E’ chiaro che non esistono verità assolute nel mondo della scuola e della formazione, però è anche altrettanto vero che solo la libera concorrenza tra scuole e tra forme di insegnamento può portare alla formazione di individui culturalmente flessibili e capaci di adattamento alle esigenze del mercato".

Parte da un misto di scetticismo e di severe considerazioni riguardo le reali possibilità dei sistemi educazionali, la proposta provocatoria di Giulio Tremonti, docente di Diritto Tributario all’Università di Pavia ed ex ministro delle Finanze per "velocizzare" i tempi dell’accesso alla formazione: La struttura della ricchezza è cambiata: la ricchezza gira nel mondo liberandosi dai vincoli nazionali, cercando la manodopera ad un costo più basso. Ciò significa che le masse lavoratrici occidentali si trovano strette in una morsa. Da un lato gli stipendi si livellano verso il basso a causa tra l’altro anche delle macchine "rubalavoro", dall’altro i costi del lavoro sono occidentali e quindi bisogna lottare con i bassi costi della manodopera di Sud America, del Lontano Oriente e, soprattutto, dell’Est Europeo. L’Occidente, che non può competere con il resto del mondo dal punto di vista della forza lavoro, può, però, essere concorrenziale sul piano del capitale umano, grazie ad oculati interventi sulla formazione e sull’informazione. Fondamentale per gli stati è sì investire nella scuola, ma altrettanto importante è investire nella televisione pubblica: il servizio pubblico, infatti, non deve occuparsi di varietà o di spettacoli di intrattenimento, ma deve fare cultura. Se i figli dei ricchi, per esempio, studiano le lingue viaggiando, quelli che non possono permettersi di viaggiare devono potere imparare le lingue dal tandem costituito da scuola e televisione. E’assurdo che gli stati non sfruttino in pieno per fini di pubblica utilità la televisione che è lo strumento formativo più potente che esista. Io trovo, poi, necessario che superato l’handicap della lingua i nostri giovani che si affacciano al mondo del lavoro, abbiano una disposizione intellettuale ed un’attitudine spirituale migliore per potere diventare "competitivi" sul mercato.

Scettico è, invece, Piero Barucci, docente di Storia delle teorie economiche all’Università di Firenze ed ex ministro del Tesoro sulla possibilità di formazione con programmi educazionali che non vengano adeguati in tempi rapidi: "Sarebbe ideale, nonché auspicabile trovare un giusto bilanciamento per i programmi scolastici tra le istanze solidaristiche della democrazia e le esigenze del mercato. Questo, però, è assai difficile da realizzare. Credo che il modello di una scuola flessibile, ovvero con una preparazione ridotta ad un numero preciso di materie cardine che sia comune a tutti gli ordini di studi e con una grande gamma di possibilità di specializzazione, possa costituire una buona alternativa ad un modello sbilanciato in questo oppure in quell’altro senso. Nella scuola italiana, oggi, si insegnano troppe cose in maniera spesso non adeguata. Distinguendo tra una buona conoscenza di base e una formazione di tipo più specialistico credo che bisognerebbe formare i giovani con una serie di nozioni che vadano dalla storia all’informatica e solo in seguito metterli di fronte ad una scelta di questa o piuttosto di quella specializzazione. Alcune esperienze di questi anni hanno dimostrato, infatti, che un eccesso di qualificazione può essere addirittura nocivo al curriculum professionale di un lavoratore ed anche oggi non c’è nessuno al mondo che possa dire con esattezza quali saranno tra vent’anni le esigenze del Mercato". Continua poi Barucci: "Il lavoratore di questi anni deve essere disposto a cambiare spesso lavoro e deve essere preparato all’idea che non è il titolo di studio (diploma o laurea che sia) a permettergli di trovare un impiego adeguato, bensì le sue capacità di adattabilità, le sue caratteristiche professionali e le sue esperienze lavorative. In tal senso, dunque, non è importante chi sia a formare in maniera continua il lavoratore dopo che questo esce dal mondo della scuola, ma che egli sia capace di raggiungere quel grado di flessibilità tale da permettergli di porsi in maniera agile e concorrenziale nel mercato del lavoro.

Il professore Mario Baldassarri, docente di Economia politica, presso l’Università "La Sapienza" esprime un dubbio che può essere sciolto solo da un rinnovamento totale del sistema formativo: "Il problema vero, oggi, è quale binomio scuola-occupazione è ipotizzabile per gli anni a venire. Due fatti nuovi hanno, infatti, modificato il rapporto formazione/occupazione. Innanzitutto non basta più conseguire un diploma per trovare un lavoro che rimanga, poi, lo stesso per tutta la vita: la formazione e l’aggiornamento professionale oggi devono essere fattori permanenti nella vita lavorativa delle persone, che per cambiare quattro o cinque lavori devono avere una preparazione adeguata. Inoltre dal confronto dell’esperienza americana con quella europea risulta necessario collegare una buona cultura di base fornita dalla scuola ad una specializzazione altrettanto efficiente. Bisogna, dunque, che si formi quest’unione di una duttilità e di una flessibilità intellettuale maturata fino ai diciott’anni grazie agli studi di base con una qualificazione ricevuta in seguito con studi successivi o magari sui posti di lavoro. Non bisogna, infatti, commettere l’errore della scuola americana che selezionando soltanto i migliori, ha abbandonato ad una cultura "bassa" la maggior parte dei suoi cittadini e lavoratori. Oggi negli Stati Uniti si sono resi conto dell’errore compiuto. Così come dieci rondini non fanno primavera, un’economia sana ha bisogno necessariamente di una cultura "diffusa" e distesa in maniera omogenea tra tutti i lavoratori". E se gli studenti sono i principali protagonisti di queste innovazioni, anche il personale docente non può assolutamente venire escluso da questo nuovo sistema di formazione: "La scuola italiana che finora non ha puntato a risultati davvero concreti per uniformarsi a questa linea di pensiero deve stabilire un programma che leghi per primi docenti e non docenti alla formazione continua.

Quali sono allora i corsi di formazione che devono essere istituiti ? Dice Renato Brunetta, docente di Economia del lavoro alla II Università di Roma: "I nostri occupati hanno un terzo di educazione in meno rispetto gli altri paesi europei, da ciò deriva chiaramente la necessità di innalzare l’obbligo scolastico fino ai diciotto anni e di puntare ad un aumento della qualità dell’insegnamento. Personalmente sono contrario a corsi di formazione ben delineati, perché non credo che sin da oggi si possano conoscere le esigenze future di un paese. Facciamo un esempio: per avviare un corso di studi sui Beni culturali e portarlo a compimento ci vogliono almeno vent’anni. Non è detto, però, che tra vent’anni la domanda di personale formato nell’ambito dei Beni culturali sia la stessa di oggi. Importanti sono, dunque, le nuove regole che obblighino la scuola a stare in sintonia e a dialogare con il mondo del lavoro. Dare e ricevere segnali, adattando con piccoli aggiustamenti i propri percorsi formativi mi sembra il juste milieu per arrivare a quel tipo di compromesso che se da un lato non espone la scuola ad errori macroscopici, dall’altro obbliga il mercato alla giusta attenzione verso il mondo della scuola. Più che un lavoratore flessibile credo sia giusto auspicare un individuo flessibile, culturalmente attrezzato e capace di costruirsi una propria formazione che lo renda in grado di orientarsi attivamente per la ricerca del lavoro e, perché no, anche nella vita più in generale. Va detto, però, che se bisogna richiedere flessibilità al lavoratore, la stessa duttilità va chiesta anche al sistema delle imprese, che pretende di reclutare lavoratori con determinate caratteristiche che poi, però, non sa sfruttare e che, magari, vengono sottoutilizzate. Le regole ed il cambiamento devono essere necessariamente a trecentosessanta gradi, altrimenti il caricare d’aspettative solo il mondo della scuola senza produrre altri cambiamenti si rivelerà davvero inutile".

Più in là si spinge Alberto Quadrio Curzio, preside della facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano e presidente della Società italiana degli economisti: "La formazione è essenziale per ridurre i livelli di disoccupazione in quanto la conoscenza è il principale "fattore di produzione" dei nostri giorni. In tal senso i curricula formativi del nostro paese vanno rivisti ed aggiornati alla luce del nuovo rapporto tra Mercato e mondo del lavoro in modo tale da favorire nel medio e lungo periodo un benefico effetto sull’occupazione. Oggi si ha l’impressione che una serie di attività lavorative vengano svolte con un grado di conoscenza non adeguato. E’ per questo che bisogna evitare che i curricula professionali vengano adeguati ad una "professionalizzazione rapida" che non sia seguita da un periodo di continuo aggiornamento professionale.

Io credo che una più stretta collaborazione tra la scuola e gli ordini professionali favorirebbe in maniera positiva il rinnovamento dei programmi senza che i contenuti di questi venissero subordinati agli interessi di questa oppure di quella categoria.

Ma a chi, dunque, affidare il compito di questa formazione "neutra" partecipe sia della cultura imprenditoriale che di quella democratica e formativa ? Continua Quadrio Curzio: "Bisognerebbe affidare il compito di formare ed aggiornare il lavoratore dopo il conseguimento del diploma o della laurea a delle fondazioni. Queste fondazioni, nate dal crogiuolo di varie forze sociali (scuola, sindacati, camere di commercio) sgraverebbero lo Stato già troppo carico anche di questa responsabilità e favorirebbero, invece, una sorta di regionalizzazione del problema lavorativo, mettendo a diretto contatto i lavoratori con le esigenze del territorio in cui abitano. Le fondazioni, come avviene all’estero, avrebbero anche il pregio di porsi come "enti terzi" rispetto allo stato ed al mondo imprenditoriale evitando al docente di fare l’imprenditore ed all’imprenditore di fare il docente. Non sono favorevole ad un tipo di istruzione troppo specialistica. La specializzazione, infatti, va moderata ed usata in maniera funzionale rispetto al corso di studi scelto.

Conclude questa panoramica di pareri Gino Giugni, docente di Diritto del lavoro presso l’Università di Roma "La Sapienza" ed ex ministro del Lavoro : Il principio della scuola come "strada maestra" per la lotta alla disoccupazione è valido, come è stato sottolineato dall’ultimo rapporto Delors su crescita ed occupazione. Che sia applicabile in Italia è, però, tutto da vedersi, perché qui è il sistema che va cambiato. Il problema del rapporto tra formazione ed occupazione va affrontato fin dalla prima elementare, operando non solo una politica di formazione, ma anche una politica di educazione lungo tutto l’arco della vita del lavoratore, perché non è più pensabile di svolgere un’unica professione per tutta la vita. Dice ancora colui che è stato definito come il "Padre dello statuto dei lavoratori": La formazione monoprofessionale non regge all’impatto del cambiamento ed alle pressanti esigenze del mondo del lavoro e quindi una formazione flessibile deve costituire il dato costante, altrimenti rischiamo una stasi occupazionale dovuta al cambiamento stesso. Io credo che il mondo della scuola debba cambiare percorsi ed itinerari formativi solo in seguito ad una grande opera di monitoraggio del proprio lavoro. Trovo necessario che a cadenze periodiche si compia un analisi della qualità di know-how che la scuola imprime nelle conoscenze professionali del singolo studente e che si verifichi se queste conoscenze possano essere valide così come sono oppure vadano modificate per aprire a nuovi modelli professionali e culturali. Bisogna, cioè, imparare ad apprendere. Nell’inserimento e nell’istituzione di nuovi modelli professionali, però, vorrei si facesse attenzione ad alcuni aspetti davvero importanti: sarebbe disastroso, infatti, se la scuola insegnasse il valore della "competitività" tra gli studenti. La scuola è un luogo di socializzazione e di educazione civica all’interno del quale deve prevalere il modello della solidarietà e non quello della competitività.

E come Quadrio Curzio, anche Giugni insiste sulla necessità di affidare a entità neutre e non completamente dipendenti dallo Stato i nuovi corsi di formazione professionale: "Penso che per essere efficace questo tipo di formazione professionale non possa venire affidato in toto alle imprese. Proprio per la sua caratteristica composita di fase di apprendimento e fase di formazione va affidata ad un intervento pubblico differenziato su vasta scala, combinato con l’apporto logistico delle singole aziende".

m.s.