Index POLITICA - Ottobre 1997


E Prodi-Maldini affrontò Rifondazione-Inghilterra

La crisi aperta da Bertinotti e compagni che ha messo in difficoltà il primo governo di centro sinistra vero ricalca curiosamente le vicissitudini della nazionale di calcio. Partita bene e incastratasi poi contro la squadra-roccia dell’isola britannica. E ora costretta agli spareggi. Così l’Ulivo con il partito di Rfc, che ha confermato la tradizione del peggior massimalismo italiano

Dopo un anno o poco più di pausa, la politica italiana ha ripreso il suo corso tradizionale e dissennato. Merito, come si sa, di Fausto Bertinotti e del partito della Rifondazione Comunista di cui il telegenico ex sindacalista è leader e segretario ab intimis. Per la verità non se ne sentiva affatto il bisogno. Star lì a battagliare su questioni pretestuose e fra bizantinismi lessicali a non finire, infatti, risulta estenuante più per chi questo tipo di politica si trova a subirla (noi) che non per chi la pratica quasi come unica ratio (lorsignori nella fattispecie in rosso). Questo per dire intanto che se saremo superati dagli eventi persino su Internet lo si dovrà imputare a un ritorno di fiamma del vecchio modo di far politica.

Il modo, come vedremo meglio più in là, si potrebbe definire, calcisticamente parlando, "all’italiana". Tuttavia, prima di sferrare il calcio d’avvio, facciamo un passo indietro.

La crisi inattesa alla fine è arrivata nel corso di una settimana convulsa fra il 7 e il 9 di ottobre quando a due riprese, in Parlamento, dove l’opposizione aveva giustamente preteso che esso si svolgesse, un dibattito serrato e persino drammatico si è consumato, sotto gli occhi di mezza Italia incollata alla televisione, sul nodo della finanziaria . Una finanziaria "leggera" rispetto alle ultime, ma più ricca di tutte le precedenti di aperture sul terreno della tutela sociale che si possa oggi riconoscere ai ceti più deboli. A Fausto il fatuo non è bastato e nel secondo round alla Camera, non si capisce quanto in combutta con Cossutta, reliquia dell’era brezneviana, in nome e per conto suo e non già del proletariato privo di voce e orbo di guida, il sardo Diliberto ha emesso il verdetto di condanna a morte del primo governo di centro sinistra vera che l’Italia abbia avuto da trent’anni in qua.

Mentre scrivo queste note sono in atto , da un paio di giorni per la verità, i più diversi tentativi onde porre rimedio allo "sbrego", come direbbe Miglio, procurato dalla lacerazione a sinistra di un patto in origine di desistenza solo elettorale, ma rimasto in vita sino ai primi di ottobre di quest’anno anche per la buona amministrazione del paese. Tant’è vero che Rifondazione e Bertinotti, pur scalpitando e minacciando, avevano concorso abbastanza disciplinatamente al varo dei molti provvedimenti nel cui quadro dev’essere inserita anche l’ultima e fatale "finanziaria" della quale è stato pretestuosamente criticato un presunto assetto iniquo e squilibrato. Oltre a non esser tale vale appena la pena di ricordare che esso comunque era noto da lunghissimo tempo ai neocomunisti che ne avevano accettato, in realtà, la filosofia e l’impianto. Ma allora perché rompere e, soprattutto, perché dannarsi poi l’anima per ricucire?

Sulle ragioni che hanno indotto Bertinotti a tirare la corda finché non si spezzasse si possono avanzare alcune ipotesi plausibili e persino comprensibili: la paura di finire annullati nel blocco dell’Ulivo perdendo identità, voti e consensi; la verifica ripetuta di un fastidioso atteggiamento di sicurezza dei partner, specie pidiessini e infine i problemi interni di partito. A ciò si aggiunga, per merito in un certo senso dell’infausto Fausto, la questione delle incompatibilità caratteriali dove non è difficile scorgere il peso dell’arroganza di D’Alema versus l’egocentrismo di Bertinotti oppure lo spirito di concorrenza di quest’ultimo nei confronti della Cgil e del sindacato, sentiti su certi temi più come antagonisti che come alleati.

Va detto, a onor del vero, che non tutto si può ridurre a fattori o a motivi d’ordine psicologico: a parte la spocchia ben nota di D’Alema, Rifondazione poteva ben lamentare la mancanza di un accordo preventivo sui singoli punti della finanziaria presentata quindi, nelle linee essenziali, a sua informale insaputa e comunque senza il beneficio di una discussione preliminare. La discussione si è avuta poi in aula e si è visto come sia andata, ma intanto non sarebbe stato male aver tolto a Bertinotti un alibi corposo del quale era prevedibile che si sarebbe servito. Il punto, peraltro, sta proprio qui perché non è detto che la crisi fosse prevedibile più di tanto. Qualcuno dei commentatori politici che vanno per la maggiore è giunto a sostenere che la rottura sarebbe stata preparata freddamente a tavolino ed anche con largo anticipo sull’appuntamento parlamentare d’inizio ottobre. Personalmente non ne sono persuaso anche se è pensabile che di fronte agli eccessi di sicurezza di Prodi e a qualche punta di sicumera di Mussi e di D’Alema, da parte dei neocomunista una qualche riflessione nel corso dell’estate ci sia stata.

Più controverso e però di nuovo non legato soltanto ai lati brutti del carattere dei contendenti mi sembra si sia rivelato lo scontro a distanza col sindacato, anche per il peso che le dichiarazioni di Cofferati sulla possibilità di addivenire a un taglio misurato delle pensioni di anzianità hanno finito per acquistare durante il dibattito già in corso alla Camera. Le idiosincrasie personali tra Fausto il presenzialista televisivo e il serissimo antidivo Cofferati, detto il cinese, vanno ben oltre, insomma, la scelta dei luoghi o dei modi della moderna propaganda: in gioco c’è il ruolo del sindacato, non solo della Cgil, ma di tutte le maggiori confederazioni, nel nostro paese e in più la vertenza su chi ne debba ispirare le decisioni. All’unisono gli esponenti del Polo sono insorti indignati e non si sono lasciati scappare l’occasione per denunciare la difformità del comportamento sindacale oggi rispetto a un paio di anni fa quando era stata proprio la mobilitazione degli iscritti alla cosiddetta "triplice" a dare al Governo Berlusconi un primo imponente scossone.

Tornando però a noi occorre commentare, dopo averne segnalato le possibili giustificazioni o spiegazioni minime, la natura e gli effetti del gesto d’intransigenza compiuto da Bertinotti. Esso si inserisce, in realtà, nel solco di una tradizione, quella del peggiore massimalismo italiano e mette a nudo l’irriducibilità ideologica e pratica dei neocomunisti ad una prospettiva di pragmaticità e di buon senso. Oddio! Pragmatici lo sono alla maniera "realista" di Cossutta, memore sia della doppiezza togliattiana sia della lezione terzinternazionalista su strategia e tattica. Il loro orizzonte, però, deve rimanere quello utopico e svicolare di fronte alla pessima riuscita fatta in più di cinquant’anni dai regimi comunisti incarnatisi sin qui nella storia dell’Europa e del mondo. Quanto agli effetti, non credo ancora ad una rottura irreparabile specie dopo aver misurato le reazioni dell’opinione pubblica di sinistra, compresi non pochi neocomunisti (più di simpatie che di tessera peraltro) di "base".

Essendo lo sbocco della crisi obbligato: o nuove elezioni o inciucio alla grande (nella versione "tecnica" con un apporto di voti Ccd e Cdu tale da prefigurare l’inattesa resurrezione della Dc, nella versione berlusconiana con una convergenza tipo bicamerale di "larghe intese") su Bertinotti e su Rifondazione grava per intero la responsabilità dell’estinzione di un governo che non aveva, per il senso comune, mal operato. Questo si è percepito e anzi si è sentito nei giorni seguiti al dibattito alla Camera e questo devono aver inteso i rifondaroli nostrani che, complice o auspice Jospin con le sue misure di riduzione degli orari di lavoro, si sono detti disponibili, già lunedì 13 ottobre ad una ripresa delle trattative con l’Ulivo il quale, dal canto suo, ha dato presto mostra di gradire. In discussione è ritornato il nodo delle 35 ore settimanali e chi vivrà vedrà.

In Francia c’è già stata l’alzata di scudi di Confindustria, qui Fossa è prevedibile che tirerà su come minimo le barricate, ma intanto si comincerà a trattare sulla base di un disegno di legge ventilato dai Verdi e di probabile applicazione allungata (una riforma a regime solo dopo il 2000?). Come andrà a finire, dunque, non so, benché ritenga che

le cose si aggiusteranno con due brutte figure equamente distribuite fra le parti in causa e con un lieve, ma proprio lieve recupero dell’opposizione polista. La figura peggiore, anzi, diciamolo, pessima l’ha già fatta con Rifondazione Fausto il vanesio: se anche porterà a casa un qualche risultato (ma non certo l’affondamento della finanziaria illustrata da Prodi) è lui il vero sconfitto nel braccio di ferro col governo di centro sinistra e lo si capisce dalla paura che gli ha messo, quasi come alle destre, la prospettiva di un confronto, meglio di un redde rationem, elettorale. L’altra brutta figura è dell’Ulivo rivelatosi non tanto "succube", quanto alla mercé dei rifondatori e incapace di gestire in modo efficace i rapporti con loro. Il Polo, dal canto suo, schivata la iattura delle elezioni anticipate, alle quali sarebbe andato allo sbando o con un leader diverso dal Berlusca le cui azioni (politiche) sembrano in netto declino, ha incassato solo una boccata di ossigeno. Prima della bella pensata di Bertinotti era dato a ragione per morto o quasi morto: adesso si è rimpannucciato e può strillare al lupo comunista che si sta mangiando uno alla volta gli alleati. Non è granché, ma al momento può bastare.

Non basta invece a noi e, crediamo, all’opinione pubblica responsabile di tutto il paese, che dalla crisi minacciata si esca senza averne provato le conseguenze attraverso un sorta di compromesso a tempo. Evidentemente il difetto, come si diceva una volta, sta nel manico e delle due l’una: o si riformerà la legge elettorale o in Italia una stabilità di governo rimarrà ancora a lungo chimerica.

In prima istanza a Prodi è andata come alla Nazionale di Maldini che dopo aver fatto bene quasi tutto si è ritrovata davanti ad uno scoglio insuperabile, l’Inghilterra più rocciosa e ben disposta degli ultimi anni, così da dover attendere il responso di uno spareggio, il 29 ottobre venturo, nientemeno che con la Russia.

Siccome presumo, benché possa essere smentito dai fatti, che nel giro di qualche giorno Ulivo e Rifondazione, sputtanandosi un tantinello, ce la faranno a rimettersi insieme per un anno o due, non c’è che da augurarsi che a Maldini e ai suoi ragazzi un’impresa consimile riesca nel calcio: sarebbe un’altra qualificazione all’italiana, ma che lo stellone protettore ci sia lo avrebbero già dimostrato gli uomini di buona volontà dell’Ulivo contro ogni tentativo o sforzo in contrario di Bertinotti e di Cossutta (a proposito: per chi tiferanno i due nello spareggio coi russi?).

Le uniche elezioni che si profilino sull’orizzonte rimangono dunque quelle della Lega secessionista di Bossi e precederanno di tre giorni l’incontro decisivo degli azzurri, quelli veri per i quali è lecito gridare "Forza Italia". Senza essere sospettati di voler fare il tifo per il partito azienda di Berlusconi e per i mille problemi che la sua esistenza (ma sarebbe meglio dire sopravvivenza) sta creando ogni giorno di più all’opposizione di destra che nemmeno dello svarione terribile dei suoi antagonisti ha potuto, come si è detto, approfittare più di tanto perché paralizzata dalle sue proprie contraddizioni e da un ormai arcinoto conflitto di interessi. Interessi in conflitto, intendiamoci, ce ne sono anche nell’altro campo ma sembrano, come pure si è visto, di tipo del tutto diverso.

Finché alcuni di essi riguarderanno la lotta per avere la leadership di classi e ceti sociali tradizionalmente cari alla sinistra c’è il rischio che procurino qualche problema di troppo all’interesse generale del paese.

Emilio Franzina