Index MUSICA - Ottobre 1997


Una musica da "suicide"

Esattamente vent’anni fa usciva a New York un disco fuori da ogni genere ma che per la sua forza dirompente è diventato una specie di simbolo dell’anticonformismo. Martin Rev e Alan Vega, i due autori, non ne fecero altri. Ma ora si può anche dire: la loro inquietante e scabrosa opera prima è forse la più riuscita rappresentazione in note della decadenza post-industriale

Suicide - "Suicide" (Red Star)

Poiché sono già in molti a celebrare anniversari illustri (la morte di Elvis) mi piace celebrarne uno forse oscuro ma non meno significativo. Sono infatti vent'anni giusti da quando comparve sulla scena newyorkese questo dischetto, citato da intere generazioni di musicisti come una delle principali fonti di ispirazione. All'apparenza innocuo, il primo e in realtà unico album dei Suicide è in realtà un micidiale ordigno esplosivo di cui ancora oggi si sentono le vibrazioni.

Da ragazzi, se si voleva saggiare il supposto anticonformismo di qualche appassionato di musica, lo si sfidava ad ascoltare tutto d'un fiato tre dischi: "Trout Mask Replica" di Captain Beefheart, "Metal Machine Music" di Lou Reed e appunto l'omonimo dei Suicide, al secolo Martin Rev (tastiere) e Alan Vega (voce). Pochissimi ce la facevano.

Il duo si forma a New York nel 1972, proponendo le prime performances in gallerie d'arte contemporanea. I club e gli impresari musicali infatti rifiutano sistematicamente di farli esibire. Raramente riescono a terminare un concerto: gli spettatori se ne vanno dopo pochi minuti o più spesso li insultano e li aggrediscono. Faticano molto per trovare un contratto discografico finché la piccola etichetta Red Star acconsente a stampare la loro opera prima. E' uno degli esordi più memorabili e allo stesso tempo un canto del cigno, giacché dopo altre sfortunate esperienze Vega e Rev decidono di proseguire ciascuno per proprio conto carriere meno "estreme" (soprattutto Vega piazzerà alcuni singoli di un certo successo). Tornerano a incidere sporadicamente grazie all'interessamento di un loro grande fan, Rick Ocasek dei Cars, e a riunirsi per alcune tournées nel corso degli anni '80.

"Suicide" a vent'anni di distanza non ha perso il suo fascino scabroso e la sua scontrosità. E nonostante il pronostico di Alan Vega secondo cui "era solo questione di tempo", Suicide sarebbe diventato un disco di successo nel giro di un paio di decenni. Non è tanto un disco difficile (come si usa dire a volte) quanto un disco spiacevole, che mette di cattivo umore. Le trame ossessive di Rev e il canto psicotico di Vega aggrediscono l'ascoltatore dal primo all'ultimo minuto, lo trascinano in una trance senza via d'uscita. Come i citati Beefheart e Reed, i Suicide sfidano le convenzioni della musica popolare ma la differenza è che lo fanno senza alcun intento intellettualistico. L'operazione dei Suicide è l'equivalente avanguardistico dell'approccio de-evoluto e antiumano particato da gruppi come i Devo in ambito pop-rock. Essa proclama la scomparsa biologica e generazionale del soggetto per cui la musica popolare giovanile era stata originariamente concepita e vi sostituisce un linguaggio fortemente non espressivo, ripetitivo e distaccato.

Ogni ombra di soggettività e di emotività, ogni possibilità di riflessione e comunicazione risulta negata, sommersa in una stasi quasi catatonica. Incubi martellanti come "Ghost Rider" e "Rocket USA", le atmosfere angosciose di "Ché", le pulsazioni anemiche di "Girl" emergono direttamente dai meandri della metropoli come fumi di fabbrica e scorie tossiche. Vega e Rev non fanno nulla per emendarli, per smussarne le asperità, secondo il loro principio per cui la musica dovrebbe "essere un momento rivoluzionario, un momento per mettere gli uni contro gli altri." "Suicide" è la rappresentazione musicale più riuscita che sia mai stata data della decadenza post-industriale.

M.B.