Index ECONOMIA - Ottobre 1997


Nord Est, è l’ora di andare a scuola

Il tanto acclamato "miracolo" economico del Triveneto richiama l’attenzione da tutto il mondo imprenditoriale. Ma ha un grave handicap: nessuno lo sa proporre come modello riproducibile altrove. Così la buona reputazione del sistema che ha dato vita ad aziende internazionali come Benetton, Luxottica o Diesel non riesce a diventare "egemonia culturale". Finchè, spiega l’economista Paolo Gurisatti in questo intervento, non si troverà un punto di incontro tra ricercatori, imprenditori e politici per fondare una "Harvard" del Nord Est

Le piccole imprese del Nord Est, i distretti industriali, le reti si sono conquistate sul campo, sul mercato internazionale, quella che si può definire una buona reputazione produttiva. Gli operatori globali sanno che dalle nostre parti è possibile acquistare prodotti e servizi di qualità ad un prezzo conveniente. Alcuni hanno capito anche che qualità ed efficienza sono, dalle nostre parti, il frutto di un modello di organizzazione del lavoro e dell’impresa assai lontano da quello predicato dall’ortodossia economica del scientific management e della business administration americana e dallo stesso sistema giapponese del just in time e della qualità totale. Ciò che un osservatore attento non riesce però a vedere è se nel Veneto o in Emilia c’è qualcuno capace di vendere il modello, di ricavare cioè dall’esperienza produttiva e organizzativa degli ultimi anni un sistema codificato ed esportabile di gestione dell’impresa e dell’economia. Non è chiaro insomma se il Nord Est riuscirà a passare dalla buona reputazione all’egemonia.

L’aspettativa è forte e chiaramente percepibile in quasi tutti i paesi del mondo: dal Giappone al Brasile sono ormai molte le associazioni di piccoli imprenditori e le amministrazioni che vogliono conoscerci meglio, che vengono in visita, chiedono spiegazioni, suggerimenti, contatti. Tutti questi esprimono una domanda di formazione e di cooperazione di fronte a cui le nostre strutture di ricerca, le nostre istituzioni, le nostre imprese sembrano impreparate. Non si tratta di generici investimenti culturali, si tratta di organizzare una risposta soddisfacente ad una domanda internazionale. Ciò avrebbe conseguenze rilevanti non solo sulla capacità del Nord Est di darsi una più chiara identità nello scenario globale, ma anche sulla capacità delle nostre imprese di aggiungere alla reputazione del prodotto una solida reputazione di sistema.

Gli esportatori del Nord Est sanno benissimo quanto sia difficile far riconoscere, anche a molte nostre tecnologie, un rating da serie A, pur in presenza di livelli di qualità vicini e a volte superiori a quelli tedeschi o giapponesi. La possibilità di dimostrare che il successo delle nostre imprese non è frutto soltanto di una favorevole congiuntura, che lo sviluppo di reti come quelle di Diesel, Luxottica e Benetton non è occasionale e può essere replicato, è quello che manca per ottenere un definitivo riconoscimento internazionale.

Ma quanto investe il Nord Est su questa opportunità ? Praticamente nulla! Anche se alcuni studiosi (come Enzo Rullani nel Veneto e Sebastiano Brusco in Emilia) sono identificati in tutto il mondo come intellettuali organici alla piccola impresa, leader nella ricerca sul modello post-fordista di sviluppo, la maggior parte dei docenti universitari continua a tramandare il mito della grande impresa americana; al Cuoa, prestigioso centro veneto di formazione post-universitaria, si continua a proporre un master in business administration; al Centro Studi sull’Impresa e sul Patrimonio Industriale di Vicenza, embrione di archivio storico dell’economia del Nord Est, mancano i fondi indispensabili per ricostruire anche solo una mappa attendibile dell’imprenditoria minore.

Sul fronte esterno poi, salvo casi sporadici, gli investimenti in reputazione sono inesistenti. Pochissime imprese esportatrici sono in grado di portare con sé una immagine convincente del Nord Est e delle sue istituzioni, dei fattori di forza del territorio. A chi domanda un modello di sviluppo e di cooperazione (ad esempio i discendenti degli emigrati veneti, friulani, marchigiani del Brasile e dell’Argentina) il Nord Est risponde esportando merci. Eccezioni ci sono, ma restano eccezioni.

Da alcuni anni, ad esempio, con scarsissime risorse della Regione e del sistema camerale, l’Università di Padova promuove corsi di formazione in Argentina e Brasile sullo sviluppo della piccole imprese e sui problemi dell’integrazione economica. A tali corsi partecipano giovani discendenti di veneti che desiderano studiare in Italia e ai quali vengono consegnate borse di studio per sei mesi. Alcuni di loro, dopo la permanenza in Veneto sono diventati assessori alle attività economiche, animatori di centri di servizio alle piccole imprese, funzionari di associazione, hanno attivato contatti e relazioni che potrebbero portare ad una crescita degli scambi e della cooperazione industriale. Ma è una goccia nel mare! Un’esperienza interessante, ma isolata, che non produce massa critica a fronte di interventi simili dei concorrenti tedeschi e americani, presenti da tempo nelle scuole, nelle strutture commerciali del Sud America "italiano".

Non so quando e dove sarà fondata la Harvard del Nord Est, ma appare chiaro che senza un luogo di incontro tra ricercatori, imprenditori e policy makers che sappia produrre la ricetta originale del Made in Nord Est, saranno in molti ad appropriarsi di quello che giustamente Diamanti definisce un modello senza borghesia.

Investire sulla identità e sulla reputazione significa lavorare per un’ipotesi Politica con la "P" maiuscola, avere il coraggio di puntare ad una possibile egemonia. Trasformare un sistema di successo in un modello non è facile. Bisogna offrire a policy maker e ai piccoli imprenditori di tutto il mondo una strategia plausibile per crescere e svilupparsi senza incorrere nelle distorsioni delle grandi imprese e delle grandi metropoli. In questa direzione, finora, non sono stati fatti progressi significativi.

Paolo Gurisatti