Index MUSICA - Agosto 1997

Peter Green, all’inferno e ritorno

La storia di questo bluesman londinese autore di "Black magic woman" dei Santana e poi famoso con i "Fletwood Mac" conferma la cosiddetta "maledizione del blues". Perché salito i cima ai vertici della musica tra gli anni ’60 e i ’70, precipitò lentamente ai limiti della follia entrando e uscendo dalle cliniche psichiatriche dopo aver fatto i lavori più disparati e umili. Ora Greenbaum (il suo vero nome di ebraica) è tornato a suonare e cantare con un gruppo tutto suo tra concerti dal vivo e cd. Anzi, è tornato a vivere Peter Green and Splinter group

C’è una costante nella musica e specialmente in quella blues: gli artisti spesso sembrano portarsi dietro maledizioni oscure che ne minano l’esistenza in maniera pesante. La storia di Peter Green segue ordinatamente questo filone "noire" che parte da Robert Johnson e i suoi patti con il diavolo per finire, non ultimo, con Kurt Cobain (suicida). Questa storia però forse non finirà in maniera così tragica perchè ci sono importanti segnali che qualcosa sta per cambiare e una volta tanto l’happy end avrà il sopravvento. Peter Green è tornato, ragazzi !

L’anno scorso al festival blues di Pistoia la serata dedicata al suo ritorno ha segnato una data storica nel mondo della musica blues, da lì infatti ha preso ufficialmente il via la rinascita artistica di un uomo che arrivato ai limiti della follia ce la sta mettendo tutta per tornare ad essere il fenomeno musicale che era.

Peter Greenbaum (ebreo) nasce il 26 ottobre 1946 a Londra. Nella sua adolescenza alterna l’uso del basso alla chitarra, ma è con quest’ultima che si guadagna popolarità e rispetto tra le varie band emergenti nella swingin london dei primi anni sessanta. In quegli anni circolano per la città personaggi del calibro di John Mayall ed un certo Eric Clapton. Ed è proprio grazie ad un litigio che Mayall si appresta a sostituire Clapton con il nostro Peter. E’ l’inizio di quella che è stata sicuramente una carriera sfolgorante: in certi momenti infatti la popolarità di Peter Green ha gareggiato con quella dei mitici Beatles. Chi non ricorda "Black magic woman" di Carlos Santana ? Bene, quel pezzo è uscito dalla vena artistica del nostro Peter, bluesman bianco e per giunta ebreo. Infatti in quegli anni non sono pochi i suoi singoli che rimangono in vetta alle classifiche inglesi contendendosi i primati con i pezzi dei Rolling Stone e dei Beatles.

Nel 1969 con i "Fletwood Mac" la popolarità è enorme e i suoi conti in banca salgono vorticosamente. Ma qualcosa già allora comincia ad incrinarsi, i rapporti con il resto della band si fanno sempre più tesi e l’anima artistica di Peter vive sempre più con difficoltà lo show business dell’epoca: in fondo lui è sempre e solo un musicista di blues. Di tutta la produzione di quegli anni la gemma più rara che ha lasciato è un album doppio intitolato "Blues Jam in Chicago" uno degli album di blues più belli in assoluto con collaborazioni di artisti del calibro di Otis Spann, Willie Dixon, Shakey Horton ed altri.

In breve la vita di Peter cambia radicalmente, il rifiuto verso quel modo di vivere è totale. Così molla tutto, band, soldi, popolarità e la sua mente precipita in abissi dai quali non riuscirà più a risollevarsi. Barelliere presso un ospedale e guardiano in un cimitero sono alcuni dei lavori che si troverà a fare, mentre il suo stato di salute mentale precipita sempre di più nell’apatia e nella paranoia. Con vari tentativi di cura in varie cliniche psichiatriche e travagliati momenti di rinascita artistica più o meno, ma quasi sempre meno, riusciti.

Si arriva così al 1996 ed è grazie alla testardaggine di alcuni suoi amici che i tentativi di farlo rinascere hanno successo e la sua apparizione a Pistoia Blues nonostante la sua evidente difficoltà a suonare, ha del miracoloso. Con lo Splinter Group parte un tour che attraversa tutta l’Europa e sancisce la definitiva rinascita artistica di una stella di primaria grandezza. Il cd è la fedele testimonianza di tutte quelle serate passate a fare del blues ma soprattutto passate a cercare di essere il musicista di una volta. La band esprime una forza non comune e nel disco non sono pochi i momenti in cui Peter ha ancora bisogno dell’aiuto di Nigel Watson per fare dell’ottimo blues. Ma non importa: quello che conta è il risultato finale. E quello è senz’altro positivo, le composizioni di Robert Johnson come "Travelling riverside blues" e "From four till late" sono cantate da lui con molta fatica e suonate forse solo da Nigel, ma il bello è proprio questo. Ora si può legittimamente sognare di ritrovare in Peter Green il suono e la grinta che ne fecero il più nero dei bluesman bianchi. E scusate se è poco.

Già adesso comunque di questo album non si butta via niente, il blues è suonato con il giusto feeling da una band di tutto rispetto. Cozy Powell alla batteria , Neil Murray al basso, Spike Edney alle tastiere e il nosto Nigel Watson alla chitarra danno un groove speciale al disco e il nosto Peter si inserisce egregiamente in questa perfetta macchina da blues. Sperando in un prossimo "Blue jam in Chicago", non resta intanto che dargli un "bentornato, Peter".

Marco Pasetto