Index CULTURA - Giugno 1997

Meneghello, l’emigrante dalla doppia identità

Il successo e la "filosofia" dello scrittore vicentino che vive dagli anni ’50 tra Inghilterra e Italia dimostrano che le diversità linguistiche e culturali sono fonte di arricchimento e non contrastano affatto con la fedeltà e la lealtà alle proprie radici e convinzioni civico-politiche. Come invece vorrebbero suggerire le ultime folate di separatismo nel Nordest

Da quando Internet ci collega in giro per il mondo non c’è quasi più gusto a coltivare certi hobbies sofisticati che una volta appagavano e riempivano di soddisfazione i soggetti apparentemente e geograficamente più emarginati.

L’aristocratica schizofrenia del provincialismo che si convertiva puntualmente in aperture cosmopolitiche e in risarcimenti in grande del piccolo tran tran quotidiano ha subito un colpo forse irrimediabile.

Le logiche della comunicazione virtuale e dei collegamenti in rete rendono inessenziale una parte almeno della mobilità tradizionale e tuttavia non hanno ancora surrogato del tutto certe esperienze spartite che anzi, negli ultimi decenni, hanno avuto modo di moltiplicarsi e di proporsi in modo nuovo creando una varietà mai vista di globetrotters reali e di persone effettivamente in movimento sulla faccia del pianeta.

Fra i precursori di un simile modo di vivere gli intellettuali, in senso lato, avevano fatto più volte la prova dello sdoppiamento ambientale e culturale e ce ne avevano spesso parlato, se bravi scrittori, nei loro libri.

Luigi Meneghello , tra gli italiani, è uno di loro e di quelli ormai di più lungo corso.

La sua vicenda è abbastanza nota: cresciuto nella provincia fascista e rurale del profondo Nord, nel Veneto dell’entre deux guerres, studente modello e "littore" giovanissimo nel 1940, ufficiale di leva all’inizio della guerra e poi partigiano fra il 1943 e il 1945, alla conclusione del conflitto tenta di dare un senso (anche politico) all’impegno resistenziale nelle file del Partito d’Azione e ne esce, come tanti suoi compagni, amaramente deluso. A questo punto, più o meno, matura la decisione di abbandonare, pro tempore, l’Italia e di tentare un’avventura e una sfida stimolanti altrove, in Inghilterra, dove poi, studioso e docente universitario, rimarrà sino ai giorni nostri non senza ritornare ogni anno "a casa", un po’ per vedere come la va (o meglio come l’andava) in patria e un po’ per farci alcune, meritate vacanze.

Messa giù in tre righe ammetto che viene un po’ brutalizzata quella ch’è invece una intensa storia di vita. Meneghello, come scrittore, l’ha raccontata però in tanti suoi romanzi. In ordine, anche se non quello cronologico di uscita alle stampe, oltre all’opera prima Libera nos a Malo, Fiori Italiani, I piccoli maestri, Bau-séte, Il dispatrio per non parlare dei frammenti distribuiti qua e là in altri lavori (Jura, Maredè, Maredè ecc.) ossia la sua intera narrativa ("Tutti i libri che ho pubblicato - segnala da sé l’autore - sono collegati fra loro, come vasi intercomunicanti: c’è dentro lo stesso fluido che passa dall’uno all’altro. Forse è un esempio del "continuo narrativo" di cui ho sentito parlare dai narratologi..."). Alcuni delle sue riflessioni senz’altro più "conversevoli" Meneghello le ha messe assieme ora in un volume pubblicato in Italia da Rizzoli.

Si intitola "La materia di Reading e altri reperti" e contiene una serie appunto di conversazioni tenute in diverse occasioni fra il 1988 e il 1994 per lo più "ricostruite" a memoria (o meglio sulla scorta di appunti : la "scaletta" originale) e per lo più più concepite come commento della sua produzione letteraria pregressa.

Per un verso si tratta certo di autopromozione, ma la cosa non è così semplice perché da un altro la pratica nasconde un’ossessione, quella del "pensarci su", di tipo quasi filosofico ed esistenziale .

Nella premessa fuori testo è Meneghello stesso a riferire il parere calzante di una sua antica "compagna di studi" della Padova del tempo di guerra che venuta ad assistere alla presentazione della ristampa di uno dei suoi libri pare avesse confidato ad un comune amico dopo aver battuto garbatamente le mani: "Prima ci mette vent’anni a fare un libro, poi altri venti a pensarci su."

Il fatto è che nel pensarci su sta la chiave di tutto o quasi tutto Meneghello, compresa la doppiezza , nel senso buono del termine ,delle sue esperienze esistenziali e culturali.

A Reading, nel Berkshire, dove approdò nel 1948 e dove fece carriera accademicamente parlando e nel Veneto in cui regolarmente ritornava fu giocoforza che esse maturassero mettendo alla prova, ma anche mettendo a frutto gli esiti di una "polarità" che si era venuta formando sino ad "investire quasi ogni aspetto della <sua> vita intellettuale."

Arrivando in Inghilterra, infatti, egli ebbe subito la sensazione di entrare in contatto "con un sistema culturale radicalmente diverso. Sentivo allora - continua Meneghello - e lo verificai in seguito, che dal punto di vista di un italiano la differenza era molto più grande che non sarebbe stata per esempio in Francia, o in altre parti del Continente.

Trovandomi dunque nel mezzo di questo sistema così diverso, cominciai ad assorbire una buona dose della sua sostanza, e la assorbivo con avidità. Non si trattava di una cultura che ne soppiantava un’altra, ma della formazione di un secondo polo culturale.

Il risultato finale fu infatti una forma di polarità....Era come se per poter pensare, o perfino sentire, occorresse lasciar fluire la corrente tra i due poli...."

Ho abbondato nelle citazioni da La materia di Reading , la prima delle conferenze che, come si è detto, dà anche il titolo al libro, per due ragioni: una sostanziale relativa ai contenuti e in qualche rapporto con l’attualità di un dibattito oggi più che mai in corsosulle identità e le appartenenze (a maggior ragione nel Veneto "serenissimo") e un’altra più privata e personale. Partirò da quest’ultima perché alla performance verbale di quell’ormai lontano 25 novembre 1988 ero presente, mischiato, con mia moglie e mia figlia, fra il pubblico composito degli amici di Meneghello venuti da varie parti del mondo (ce n’erano da New York e da Parigi, da Bruxelles e da Barcellona) ad ascoltare nel teatro della facoltà di lettere dell’Università di Reading la celebrazione dei quarant’anni di vita del centro, poi dipartimento di studi italiani fondato dall’allora giovane conferenziere e sostenuto con passione da Donald J. Gordon un professore scozzese "italianato" di cui pure si ritroverà un commosso profilo nel libro edito da Rizzoli.

L’atmosfera era quella tipica degli incontri fra lo scrittore e il suo pubblico di lettori con in più l’aggiunta di un pizzico di emozioni, se così si può dire, "istituzionali".

Incontri non frequentissimi per la verità e incrementati appena, in quei mesi, dal lauro letterario conferito a Meneghello dal premio Bagutta per il suo Bau-séte fresco di stampe.

Su di una rivista italiana (e veneta) di storia che all’epoca dirigevo, sotto le mentite spoglie di Ampelio Scàraba, un altro del gruppo venuto dall’Italia notò che si trattava comunque di occasioni di grande intensità emotiva proprio perché l’autore a decenni di distanza dalla loro pubblicazione ritornava sui suoi libri (per "pensarci su"....). Ma a Reading l’avvenimento acquistava, ai nostri occhi, un sapore del tutto particolare.

La platea, infatti, composta in gran parte di lettori appassionati, come avrebbe detto Silvio Guarnieri e come chiosava appunto lo Scàraba, si disponeva all’appuntamento "all’incirca come ad una apparizione della parola, propriamente al farsi carne ed ossa della parola, che, si sa, è sempre faccenda di solenne mistero. Venendo a Readingavevamo curiosità , oltre che per i luoghi, anche per il pubblico: controllare come funzionasse Meneghello in un contesto flemmatico per definizione e nel quale era presumibilmente maggiore la consuetudine con l’insegnante piuttosto che con lo scrittore." Funzionava, funzionava senza ombra di dubbio e la conferma l’avemmo anche nel dopo partita durante il buffet anglosassone in cui furono scattate numerose foto ricordo. Ne riguardo ora alcune mentre rifletto sull’essenza della Materia di Reading e degli altri reperti in cui per la malvagità dei tempi sono indotto a ricercare anche qualche risposta, connessa ai contenuti di cui sopra dicevo, ai quesiti sulla identità e sulle appartenenze. Mi colpisce un brano del testo di apertura che allora non mi aveva fatto particolare impressione anche perché ero tutto concentrato nella per me sempre ardua traduzione dall’inglese. E’ il passo in cui Meneghello riandando con la memoria alle difficoltà incontrate dentro e fuori il mondo accademico locale per impiantare e consolidare il suo istituto osserva letteralmente, e cito il testo a fronte che dev’essere proprio quello letto a suo tempo, "I know that the stress and the danger have been great, but it seems remarkable how well the department has survived. It is a great relief to be able to conclude that our foundations were sound: Roman masonry (or should I say Venetian masonry?) on the banks of the Thames."

Le fondamenta, dunque, erano solide: "murature romane (o dovrei dire venete?) qui sulle rive del Tamigi."

All’inciso non feci caso o forse, al massimo, lo imputai al fatto che tra gli italiani di Reading che si avvalsero dell’appoggio di Gordon , per via delle affinità col Warburg Institute e della comune passione per il Rinascimento, ci fu anche, a un certo punto, uno degli amici più cari e più bravi, come storico dell’arte, di Meneghello ossia Licisco Magagnato, il "Franco" dei Piccoli maestri e il futuro direttore del Museo veronese di Castelvecchio. Chissà chi ne interpreterà la parte nel film che in questi giorni si comincia a girare a Padova per la regia di Daniele Lucchetti, l’autore dell’indimenticato Portaborse?

E chissà se l’opera cinematografica affidata per la sceneggiatura a un altro personaggio noto come Domenico Starnone saprà cogliere lo spirito del romanzo.... Ma il romanzo in questione si collocava poi davvero in una "linea veneta" della letteratura novecentesca, come più d’uno ha scritto, e soprattutto in che modo, assieme agli altri di Meneghello, rendeva testimonianza di una particolare identità? Mi son venuti alla mente tutti questi interrogativi accorgendomi in questi giorni, scrivo il 12 di maggio , che dietro a tante iniziative politiche del particolarismo leghista e senz’altro dietro a certi gesti sedicenti commemorativi (per ricordare la fine di Venezia e l’avvento della municipalità rivoluzionaria del 12 maggio 1997 un manipolo di scriteriati incursori s’è impadronito per qualche ora del campanile di San Marco inneggiando a un fantomatico "serenissimo veneto governo": e tutti i notiziari televisivi del mondo ne hanno parlato) si ritrovano puntualmente le rivendicazioni culturali della diversità e della separatezza. Culturali è un aggettivo forse eccessivo per la portata delle riflessioni teoriche che si dice si staglino dietro allo stesso blitz marchesco del 9 maggio passato. E basti sfogliare per ciò l’opera di uno dei presunti ispiratori dell’atto dimostrativo su nientemeno che quattromila anni di storia dei "veneti". Lo storico, questo sì davvero "selvaggio", come Mario Isnenghi ribattezzò una volta tanti imitatori volontari, ma ben più agguerriti, degli storici municipali d’antan ,si chiama Giuseppe Segato e naturalmente non ha niente a che spartire col povero Meneghello da me chiamato in causa per assonanza di questioni e per quell’altro aggettivo (in italiano "veneto" - in inglese "venetian" e in dialetto, a secondo dei luoghi però, assai più "venessiàn " che veneto) destinato a connotare non già un’appartenenza quanto una provenienza.

Non meno di altri, penso al franco-emiliano Pierre Milza e al suo Voyage en Ritalie, Meneghello, in realtà, dimostra come le polarità linguistiche e culturali siano fonte di arricchimento e non contrastino affatto con la possibilità di mantenere indenni le scelte di lealtà o di fedeltà civico-politica. Che si possa essere debitori a più culturee che ci si possa identificare in più patrie non è facile, ma non è poi impossibile e già con questo si potrebbero demolire le presunte basi etniche e biologiche delle ideologie razziste che fanno della differenza uno strumento di divisione e in prospettiva di prevaricazione. Quando invece, a "pensarci su" bene, tutto nelle storie di vita di chi , pur venendo da un luogo e rimanendovi legato, vive il mondo con atteggiamento laico, depone a favore del contrario e in particolare oggi che i principali dilemmi emergono in campo economico dal confronto fra globalismo e localismo.Non saprei dire se in punto invece di atteggiamenti confessionali, che per il Veneto han sempre voluto dire clericali o cattolici, sia pure mutato qualcosa nell’era della dialettica più spericolata fra generale e particolare , ma d’altro canto non mi mi azzarderei nemmeno a pronosticare come imminente la fine delle mentalità o anche solo delle patine superficiali di una ben nota fedeltà religiosa.

0gni tanto, parlando si presume anche per conto dei "veneti" d’oggidì, è il senatore Bossi in persona ad attaccare il Papa e il Vaticano ossia una Chiesa rea forse di contrastare qua e là l’avvento del nuovo ordine secessionista.

Certo che pure la Chiesa, specialmente nel Veneto, non è più quella di una volta . Lo stesso forse non può dirsi , per converso, dei suoi seguaci sul conto dei quali, dall’ultimo libro meneghelliano, mi piace togliere un passo dell’unico contributo scritto e non letto o non concepito per la lettura dall’autore (Batària, breve saggio estratto da un volume in onore di Giulio Lepschy - Italiano e dialetti nel tempo - edito a Roma nello scorso 1996).

Esso documenta assai bene, a mio avviso, come anche in queste faccende a prima vista fra le più viscose e intriganti quanto ad oggetto, il mutamento abbia inciso in modo notevole e inaspettato, ma confermando, per una determinata zona, la tenuta di vocazioni culturali che si credevano connesse solo alla fede religiosa e passibili quindi di annullamento dinanzi all’incedere della secolarizzazione, ma dipendenti invece da tutt’altri fattori come, percitare il più resistente di tutti , dal moderatismo (congenito?). Racconta dunque Meneghello:

"Mancava alla mia esperienza locale una cattolica intellettualmente spregiudicata... e mi parve di averla trovata un giorno al Passo del Brocòn. Lì su quei dossi bombati, così ricchi di boasse, c’era la casa di un conoscente vicentino, chirurgo e cacciatore, e nella casa sua mogllie che non conoscevo....mi piacque subito...era una di quelle donne che ai miei tempi si chiamavano di chiesa, ma molto bright e singolarmente libera nel parlare e nel pensare. Diceva cose talmente sensate sulla fede e la Chiesa e il fare i peccati e il non farli, che già pensavo: ‘Eccola, una cattolica vicentina moderna!’ e cominciavo a chiedermi, per fatale inclinazione di miscredente illuminato, come non crederla sorella. A un certo punto, un po’ per far piacere a lei, un po’ per il gusto di dire la verità, le parlai della figura di Papa Giovanni XXIII (e per un residuo di riguardo non le dissi che al mio paese era affettuosamente chiamato Giovanni Schedina, due pari e tre vittorie in casa), lodando la sua spontaneità, la naturalezza contadina e l’incredibile novità e modernità del sentire....Ma lei ...non la pensava come me. Anzi considerava quel Papa una calamità: ‘Ha fatto più danni lui’ mi disse con ardente affetto ‘ che una scrofa su un’aiola di asparagi’ Parlavamo in vicentino e le sue parole furono: ‘pì dano de na ròia te na sparesara...’ Elettrizzante. Un Papa roia! Una sparesara crudemente a sacco! Il nuovo sentire religioso generava immagini di mostruosa vividezza ma, per un onesto osservatore laico, sconcertanti....."

Emilio Franzina