Index LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Maggio 1997



Non solo libri

Recensioni, schede e notizie

AVVISO AI NAVIGANTI. Gli editori che volessero proporre volumi o riviste per recensione devono inviarli al seguente indirizzo: Nautilus, Ashmultimedia, via Fra' Paolo Sarpi 16, 36100 Vicenza, all'attenzione di Giulio Mozzi.

Un grande libro. Antonio Moresco, Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, pp. 278, L. 35.000

Un bell’esordio. Matteo Galiazzo, Una particolare forma di anestesia chiamata morte, Einaudi, pp. 135, L. 16.000

Per lettori veloci. Luciano Comida, Librobus: cosa e come leggere in autobus, Stampa Alternativa, pp. 32, L. 1.000

False novità. Labranca remix, a c. di Tommaso Labranca, Castelvecchi, pp. 117, L. 14.000

Jazz. Charles Mingus, Peggio di un bastardo, trad. Stefano Torossi, a c. di Claudio Galuzzi, Marcos y Marcos, pp. 320, L. 24.000

Letteratura e vagabondaggio. Magazine littéraire, aprile 1997, pp. 106, FF 32, L. 10.100

Letteratura e denaro. Lire, aprile 1997, pp. 122, FF 30, L. 11.000

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Un grande libro. Antonio Moresco, Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, pp. 278, L. 35.000

Questo è un libro grande e stupefacente, ancora più grande e stupefacente se si pensa che è stato scritto - dice Moresco nel breve testo introduttivo - su «quaderni, agendine, fogli sparsi, biglietti del metro e ogni altro pezzo di carta che mi trovavo per le tasche, in casa o mentre camminavo, giorno per giorno, velocemente, senza progetto, senza prospettiva, senza neanche lontanamente pensare a una sua possibile pubblicazione futura» (p. 9).

Di che cosa si tratta, quindi. E’ una serie di testi (da due righe a varie pagine), divisi per anni (dal 1981 al 1991), prevalentemente in forma di lettera [ad amici vivi o morti, a persone mai conosciute, a personalità della cultura e dell’editoria (Giovanni Raboni, Maria Corti, Francesco Leonetti, Elvio Fachinelli, Goffredo Fofi...)]. In questi testi Moresco parla: 1. del suo lungo periodo di militanza politica estrema, culminante nella fondazione di "Servire il Popolo"; 2. della sua dedizione alla scrittura, principalmente alla redazione del grande romanzo (tuttora inedito) Gli esordi; 3. dell’impossibilità di essere non diciamo pubblicati, ma nemmeno ascoltati o letti dalle case editrici e dalle personalità della cultura e dell’editoria.

E’ il romanzo di uno scrittore deluso (o fallito)? No. Tra l’altro, Lettere a nessuno si interrompe proprio subito prima che Moresco trovi un editore: Bollati Boringhieri, appunto, che nel 1993 gli pubblica Clandestinità e nel 1995 La cipolla (due libri, è da dire, molto belli). (Non sappiamo quando sarà pubblicato Gli esordi, ma ci auguriamo al più presto.) E’ casomai il diario di un essere umano che non trova alcun altro essere umano al mondo. E’ un clone di Formidabili quegli anni? No, niente di più opposto al crasso epicismo di Mario Capanna o di altri sopravvissuti di lusso: nel raccontare gli anni di militanza (e di fame, e di fatica assurda, e di intollerabili rapporti umani) la scrittura di Moresco si fa a dir poco furente. Non c’è ombra di senso di colpa, e tuttavia la vita di quegli anni è resa per quel che è stata: un innamoramento collettivo per qualcosa che, a riguardarlo oggi, appare privo di senso. E’ il libro di un pazzo? Sì, se chiamiamo pazzo colui che dice ciò che non si deve dire e pensa ciò che non si deve pensare.

Lettere a nessuno è uno straordinario libro autobiografico, è una sarcastica descrizione del funzionamento dell’industria culturale italiana, è il racconto di un’illusione che non è stata di pochi, ma che a pochi ha reso e a molti è stata fatale. Che alcuni intellettuali di grido ne escano fatti a pezzi non è tanto importante; è importante la considerazione alla quale arriva Moresco sul finire del libro: «Si concede ancora, per un po’, che i libri vengano scritti dagli autori; ma la ragione del loro essere è già fuori di essi...» (p. 269), ossia nelle mani dell’industria editoriale, delle consorterie di ex militanti dei gruppi vincenti, dei clan editorial-familiari.

Osiamo dire che la prosa di Moresco è la più forte che abbiamo incontrato nell’ultimo decennio. La lettura è obbligatoria.


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Un bell’esordio. Matteo Galiazzo, Una particolare forma di anestesia chiamata morte, Einaudi, pp. 135, L. 16.000

Rischiano di farsi ricordare come il miglior libro d’esordio del 1997 questi racconti di Matteo Galiazzo, genovese, classe 1970, già presente (con il miglior pezzo, a nostro avviso) nell’antologia Gioventù cannibale (Nautilus, ottobre 1996) nonché redattore del Maltese [una delle più interessanti riviste di narrativa, sospesa tra under e overground, che si producano in Italia (Nautilus, agosto 1996); di Galiazzo i lettori di Nautilus hanno già potuto leggere il racconto «Acqua», pubblicato nel numero di dicembre 1996.]

Rischia di farsi ricordare come il miglior libro d’esordio dell’anno, questo Una particolare..., per due ragioni: uno, per la varietà e la felicità dell’invenzione narrativa; due, per la qualità della lingua. Una lingua che ad alcuni è sembrata «di plastica» ed effettivamente, se vogliamo come d’uso girare la critica in complimento, di plastica è: è una lingua alla quale non viene affidata nessuna missione salvifica (non come fanno certi odierni difensori della letteratura ad ogni costo), né viene mai usata espressionisticamente (ed è per questo che in realtà Galiazzo, con i cosiddetti cannibali, c’entra come i cavoli a merenda). Potremmo chiamarla una lingua inespressionista, o più esattamente una lingua che si dà fin dall’inizio come falsa e tuttavia, essendo l’unica lingua che abbiamo, non viene ridotta al puro gioco combinatorio ma viene agita come possibilità (per quanto ardua) di comunicazione. E se consideriamo che nell’anno Domini 1997 e in Italia i pericoli maggiori per chi scrive sono le trappole dell’iperletterarietà, del generazionalismo e del filosofeggiamento, ci rendiamo conto che una lingua con queste caratteristiche in queste trappole non ci cadrà mai. E non sarà un caso se l’ultimo dei racconti, «Apocalisse di Calimero», forse il più bello (mentre «Tempo» è l’unico che non ci convince), raccontando dell’invenzione delle parole da parte di Adamo, mette in mostra proprio la falsità e vacuità della lingua. «Un giorno Dio [...] disse [a Adamo] di trovare un nome a tutte le cose che vedeva, e Adamo cominciò tutto contento. Questi li chiamerò sassi, disse Adamo. Bravo, bravo il mio Adamo, sassi, sì, bene, gli disse Dio, continua. [...] Anche quando le cose erano finite e non c’erano più nomi da trovare, [Adamo] aveva preso gusto a questo gioco e continuava, continuava. Nella sua mente si affacciavano nomi sempre nuovi, nomi a cui però non corrispondeva nessun oggetto, nomi come: tristezza, prestigio, carattere mite, prepotenza, relazione adulterina, odio, eleganza, stupro, correttezza, lungimiranza, inventiva, bellezza, invisibilità, gelosia, patria potestà, diritto di voto, comfort, sicurezza, contabilità, deficit, Bot, ragione sociale, processo dialettico, storia, gloria, supremazia, codice fiscale, contraddizioni dello stato occidentale, taylorismo, propensione al suicidio, asimmetria nell’informazione, depressione, narratologia, lucidità mentale, decoro, politica, masticazione inversa, morale, pentimento, amore» (pp. 117 s.); tuttavia il libro si chiude a p. 133, così come si apre nella dedica, nel nome di Simo/Simona, «che porta la felicità e la bellezza». Parole alle quali, quindi, un senso umanamente condivisibile sarà stato trovato.


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Per lettori veloci. Luciano Comida, Librobus: cosa e come leggere in autobus, Stampa Alternativa, pp. 32, L. 1.000

Se volete divertirvi, questo libretto vi divertirà. Se siete di quelli che leggono in autobus, questo libretto vi aiuterà a prendere coscienza. Se siete di quelli che non leggono in autobus, per punizione dovrete acquistare questo libretto da 31,5 lire a pagina e leggerlo tutto in un unico viaggio (durata stimata: 32"). Luciano Comida (del quale non sappiamo nulla) ha avuto una buona idea e l’ha realizzata egregiamente. La prima questione è quella del tempo. Calcolate attentamente i tempi dei vostri spostamenti periodici in autobus, suggerisce Comida, e poi cercate dei libri la cui lettura sia adatta a quei tempi, libri leggibili "a piccoli morsi". Sconsigliabile quindi Stephen King, i cui romanzi "letti cinque minuti adesso sette minuti stasera dieci minuti domani, non riescono a decollare e a prender vita" (p 11). Accettabile invece (tanto per stare sui libri grossi) Fratelli d’Italia di Arbasino: il libro è del tutto privo di colpi di scena, pertanto la lettura può interrompersi in qualunque momento senza particolari danni. Megli ancora i racconti brevi e le raccolte di articoli o di recensioni (suggeriti da Comida: Tornabuoni, Bobbio e Baricco). Utili gli aforismi: si può leggerne uno o due e poi guardar fuori dal finestrino meditando (o fingendo di meditare).

Il Librobus è un gioiellino di saggio sull’ovvio. Vi si discute su come scegliersi il posto (di giorno dalla parte dell’ombra, se l’autobus ha un percorso abbastanza rettilineo; di sera sotto una luce), su come sostenersi (in caso di autobus pieno) alle varie maniglie e sbarre (utile consiglio: "prova ad allenarti a casa e impara a reggere un libro con una mano sola", p. 22). Si spiega meticolosamente che un libro tascabile è più pratico di un in-folio, come si piega un giornale quotidiano, che per prendere appunti è meglio aspettare che l’autobus si fermi, che "gli ombrelli si distinguono in due gruppi ben diversi. quelli bagnati e quelli asciutti" (p. 17), ecc. Da notare le osservazioni sull’effetto-look dei libri: "Leggere un libro in pubblico mette in gioco l’immagine che vogliamo dare di noi stessi [...]. Certo, non tutti [...] sono in grado di cogliere i segnali che i libri emettono, [...] ma esiste una quota di persone che [li] osserva e valuta"(pp. 14-15). A dire il vero manca, e si sente, un capitolo su "La seduzione in autobus per mezzo dell’esibizione di libri" (magari in un’eventuale ristampa?), tuttavia non manca l’astuto consiglio per gli sporcaccioni: "La sovracopertina di un libro prestigioso può essere usata anche per nascondere al proprio interno un libro disdicevole" (p. 23).

In somma, un libretto divertente ed economico che suggerisce però, e crediamo che Comida ne sia del tutto consapevole, l’esigenza di fondare una nuova scienza: l’antropologia della lettura moderna e contemporanea. Magari l’industria editoriale ci spenderebbe pure qualche soldo...

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False novità. Labranca remix, a c. di Tommaso Labranca, Castelvecchi, pp. 117, L. 14.000

Si sottotitola pomposamente Il primo libro mondiale di letteratura campionata questa ultima fatica sfaticata dell’ex trashologo, ora curatore d’anime mie, Tommaso Labranca. La faccenda è questa: impegnato dal contratto a fornire a Castelvecchi un libro da stampare entro gennaio 1997, e non essendo in grado o non avendo voglia di scriverlo, Labranca s’è rivolto ad amici e colleghi: ciascuno dei quali ha preso un frammento, un’idea, un’ispirazione, una frase magica od altro dai precedenti libri di Labranca (due in tutto, precisiamo) o da suoi articoli - e ne ha ricavato un vero e proprio remix. Diciamo che si tratta di qualcosa che poteva diventare un’arguta esercitazione di autoparodia; disgraziatamente ne è venuto fuori qualcosa a metà strada tra il nonsense, l’autocelebrazione precoce e il delirio di potenza culturale. Tra l’altro, niente di più vecchio e scontato in letteratura che il remix, o remissaggio, o la parodia o l’imitazione ecc. (i Promessi sposi non sono forse il remix in chiave cattolico-unilinguistica di un manoscritto d’anonimo secentesco? e Shakespeare che remixa Bandello? e Thomas Mann che remixa Mosè? E Altman che remixa Carver? e Baricco che remixa Baricco?). Da segnalare comunque il furente pezzo di Tiziano Scarpa nonché le effettivamente divertenti (e poco labranchiane) «Maccheronee Mix» di Davide Bregola, che con le loro 33 pagine fanno da sole più di un quarto dell’intero libretto.


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Jazz. Charles Mingus, Peggio di un bastardo, trad. Stefano Torossi, a c. di Claudio Galuzzi, Marcos y Marcos, pp. 320, L. 24.000

Bene ha fatto Marcos y Marcos a ristampare questa autobiografia romanzata di Charles Mingus (scritta nel 1971 con l’amico scrittore Nel King), già pubblicata in Italia dal Formichiere e da anni introvabile (la traduzione è stata rivista da Galuzzi). Mingus, per chi non sapesse, è stato uno dei maggiori compositori di musica jazz; e inoltre un contrabbassista virtuoso. Del libro si può dire che è godibile in sé e che è raccomandabile non solo agli ascoltatori di jazz ma a tutti coloro che amano la narrativa "parlata": non sappiamo se sia merito di Mingus, di King, di Torossi o di Galuzzi, fatto sta che ci sono pagine e pagine che corrono via (come un torrente in piena, si sarebbe detto una volta). Pollice verso sulla confezione editoriale: la postfazione di Galuzzi è enigmatica e non si capisce che cosa voglia dire (per fortuna dura solo quattro pagine); la cronologia è ben dettagliata ma impaginata pesantissimamente; infine la discografia è vergognosa: un elenco di titoli senza distinzione tra dischi ufficiali, concerti, raccolte ecc., che allo specialista non dirà niente di nuovo, e al non specialista non dirà nulla del tutto.


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Letteratura e vagabondaggio. Magazine littéraire, aprile ‘97, pp. 106, FF 32, L. 10.100

E’ curioso e interessante questo numero monografico del Magazine littéraire dedicato all’«errance» (essendo troppo falsa la parola «erranza», abbiamo preferito tradurre con «vagabondaggio»; più esatta, ma inutilizzabile, la traduzione: «spostamento fisico privo di meta precisa»). In Francia come in Italia si sprecano i titoli dedicati al tema canonico (da On the Road in qua) "la letteratura e il viaggio"; ma in effetti viaggio e vagabondaggio, voyage ed errance sono cose ben diverse. Il Magazine littéraire in perfetto stile francese, prende la parola errance in tutti i suoi significati possibili: e così abbiamo un articolo sulla passeggiata (che, come genere letterario, sarebbe stata inventata da Diderot e Rousseau: l’articolo è di Michel Delon); uno sul vagabondaggio linguistico di Beckett (tra inglese e francese, art. di Evelyne Pieiller); uno sull’errance all’incontrario, ossia sui 35 anni di permanenza presso la casa del falegname Zimmer dell’ormai folle Hölderlin (di Jacques-Pierre Amiette); uno sul vagare a piedi di Peter Handke (di Aliette Armel)... Completa lo "speciale" (di quaranta pagine) un vagabondaggio nella banlieue (la periferia) parigina raccontato dallo scrittore Jacques Réda (del quale, a p. 51, una bellissima fotografia in casco e Solex che varrebbe da sola l’acquisto della rivista).


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Letteratura e denaro. Lire, aprile 1997, pp. 122, FF 30, L. 11.000

E’ un servizio intitolato «Ce que gagnent vraiment les écrivains» (che cosa guadagnano veramente gli scrittori) il piatto forte dell’ultimo numero di Lire, la più diffusa (insieme al Magazine littéraire) rivista popolare francese d’informazione bibliografica. A dire il vero il servizio (pp. 38-45) delude non poco; mentre è gustoso il pezzo di Paul Auster (pp. 46-49) che lo chiude, «Le diable par la queue» (il diavolo per la coda; inedito, ci pare, in Italia). Il servizio è deludente perché ci sono pochi numeri, e poi perché non è possibile parlare di quanto guadagnano gli scrittori senza considerare: uno, come è fatto il prodotto-libro e quante voci concorrono a formarne il costo (ci sono casi in cui l’editore guadagna meno dell’autore, e spesso l’unico a guadagnarci davvero è il distributore di zona - almeno in Italia); e, due, che il guadagno dello scrittore non è costituito solo dalle varie forme di diritti (vendite in libreria, vendite ai club del libro, edizioni economiche, diritti cinematografici, traduzioni ecc.) ma anche dalle opportunità economiche che il più o meno rilevante successo del libro procura all’autore (collaborazioni giornalistiche, conferenze, corsi di scrittura...); senza contare gli eventuali premi (in Italia si va dal milione dello Strega ai 25 milioni del Palazzo al Bosco). E’ vero che queste opportunità, per essere sfruttate, richiedono ulteriore lavoro; è vero però lo scrittore, più è di successo, più può, letteralmente, farsi pagare per apparire. E’ gustoso invece il pezzo nel quale Paul Auster racconta di aver campato per qualche tempo, in Europa, scrivendo sotto pseudonimo libri gialli. Chi abbia letta la Trilogia di New York (cf. Nautilus, ottobre 1996) potrà godere anche dell’elaborato gioco letterario (Quinn, il protagonista di Città di vetro, che è il primo romanzo della trilogia, è uno scrittore "fallito" che campa scrivendo romanzi gialli e, nel corso del romanzo stesso, arriva a far conoscenza di Paul Auster in persona...).


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