Index CULTURA - Maggio 1997


All'attacco, italiani del 7° Cavalleggeri

Emilio Franzina presenta un libro di Cesare Marino su Carlo Camillo di Rudio, cospiratore agli ordini di Mazzini prima e ufficiale del generale Custer a Little Big Horn poi: un testimone e protagonista d'eccezione tra i tanti italiani di quel mondo avventuroso e dimenticato che fu anche, al di là di tanti eventi, l’Ottocento in terra d'America

Non sono poche le vite degne di essere narrate. Ma le vite fuori dell’ordinario, di norma, si conoscono bene perché son poi quelle dei personaggi di primo piano nelle vicende politiche o economiche di una determinata epoca. Eppure non tanto la gente ordinaria, quanto i protagonisti che potremmo definire minori o di complemento (una cosa un po’ diversa dai "comprimari") spesso esibiscono parabole esistenziali meritevolissime di venir meditate perché rappresentative, in fondo, di una medietà a suo modo significativa.

Ci sono, in altre parole, uomini e donne che senza mai assurgere ai fasti della grande storia aiutano a comprenderne, con le loro esistenze, i retroscena e almeno alcuni dei presupposti La premessa andava fatta prima di introdurre in discorso la figura sino a ieri dimenticata di Carlo Camillo di Rudio, un testimone e attore d’eccezione di quel mondo avventuroso e dimenticato che fu anche, al di là di tanti eventi, l’ottocento italiano. E’ un secolo, questo, che nei ricordi dei più si collega a stereotipi e a meste rimembranze scolastiche di tipo risorgimentale, ma che, se ben rivisitato, propone squarci di "normale eccezionalità" a cui la temperie e la cultura del tempo, assieme alle immancabili peripezie politiche di stagione, diedero forma compiuta di romanzo. Devo confessare, a questo punto, una deplorevole lacuna che poco tempo fa ho addirittura trasferito in un libro ambizioso (e già che ci sono chiedo venia per l’autocitazione , ma la faccio: Emilio Franzina, Gli italiani al nuovo mondo. L’emigrazione italiana in America 1492-1942, Milano Mondadori 1995). Sino a ieri, lo ammetto, avevo del di Rudio, un nobile bellunese vissuto fra il 1832 e il 1910, una conoscenza vaga e del tutto legata alla circostanza, peraltro non banale, della sua partecipazione, nel 1858, al fallito attentato contro la persona di Napoleone III da parte del rivoluzionario repubblicano Felice Orsini.

Rammentavo, un po’ confusamente, le polemiche politiche e storiografiche d’inizio ‘900 fra lui, unico sopravvissuto - oltre all’ex imperatrice Eugenia Montijo - e Alessandro Luzio una specie di Renzo de Felice di allora in occasione del cinquantesimo anniversario del gesto che era costato la testa all’Orsini e che, senza far danni alla vittima designata, appunto Napoleone il piccolo, aveva provocato la morte di numerose persone. Non avevo mai fatto caso al particolare che vedeva il vecchio di Rudio intento a difendere la sua versione dei fatti dalla lontana California da dove rimbalzavano nel 1908 , riaprendo antiche ferite mai rimarginate per intero, voci e ricordi di prima mano intorno ad una pagina anche altrimenti nota del patrio Risorgimento. Fu leggerezza, da parte mia, ma un poco anche l’effetto di una mancanza di notizie di questo tipo (cioè di prima mano), l’aver trascurato la collocazione geografica dell’ultima residenza del conte bellunese per risalire magari da essa ad una storia di vita che si sarebbe rivelata, se percorsa a ritroso, assolutamente interessante. Poco male, visto che a rimediare ci ha pensato, dall’America, uno studioso che per merito ancor prima che per fortuna ha potuto mettere le mani su un libro intervista ormai introvabile, e infatti ignoto sin qui, del 1913: Cesare Crespi, Per la libertà. Dalle mie conversazioni col Conte Carlo di Rudio, complice di Felice Orsini, San Francisco Canessa Printing 1913. Il volume raccoglie una lunga intervista fatta al di Rudio poco prima che venisse a morte sulle remote sponde del Pacifico e costituisce, per interposta persona, una sorta di autobiografia narrata dove le tecniche giornalistiche e quelle della storia orale ante litteram si fondono nel racconto mirabolante di cui, dicevo, è venuto a dar conto oggi Cesare Marino.

Anche di lui, come autore e come ricercatore, sapevo sino a ieri ben poco. Il fatto è che Marino, italiano di origine siciliana, è cresciuto e ha studiato nel Veneto, al Liceo Canova di Treviso mi è parso di capire, ma si è poi trasferito in Virginia dove lavora come anropologo presso il Museo di Storia Naturale , Smithsonian Institution, di Washington. L’emigrazione intellettuale e il diverso ambito disciplinare mi precludevano la conoscenza della sua attività, alquanto intensa a giudicare dalle notizie riportate nel risvolto di copertina dell’appassionante libro che a sua volta egli, vestendo i panni dello storico, ha voluto dedicare al di Rudio. L’opera, di cui raccomando caldamente la lettura, non è apparsa in Italia presso un grande editore, bensì è stata stampata dal libraio bellunese Alessandro Tarantola e si intitola Dal Piave al Little Bighorn. (Belluno 1996,pp.441,£. 36.000). Come sottotitolo reca un illuminante explicit che letteralmente dice: "La straordinaria storia del Conte Carlo Camillo di Rudio da cospiratore mazziniano e complice di Orsini a ufficiale del 7° Cavalleria del generale Custer." Ce n’è abbastanza, come si capisce, per incuriosire chiunque e non solo un eventuale cultore di studi risorgimentali o, ancor più facilmente, un appassionato di "custeriana" e di storia del Far West o delle genti indiane d’America.

Marino, senza dubbio, lo è non foss’altro per esser stato a suo tempo consulente del National Congress of America Indians e membro, negli Stati Uniti, di importanti organizzazioni intertribali. Domenico Buffarini, romano residente anche lui nel Veneto e anche lui affetto, in molti sensi, dalla sana "infatuazione" per la storia e la vita degli indiani d’America (di ieri, ma soprattutto di oggi), mi ha confermato a voce la serietà e l’impegno dell’antropologo siculo-veneto-americano che del resto, negli Stati Uniti, ha pubblicato molti apprezzati lavori sulle popolazioni indigene e addirittura , nel 1989, (The Indian Nations: The First Americans ) adottato nelle scuole pubbliche primarie e secondarie nei programmi pilota di educazione multiculturale. Quel che conta, però, è davvero questa sua trouvaille - mi permetto di chiamarla così - affidata alle pagine del libro edito meritoriamente da Tarantola, ma pazientemente costruito in vent’anni di itineranti ricerche fra archivi e biblioteche del vecchio e del nuovo mondo. La complessità degli itinerari d’indagine dipende naturalmente dalla apparente singolarità del personaggio e soprattutto dalle infinite e a tratti incredibili peripezie della sua esistenza equamente distribuite di qua e di là dell’Atlantico nell’arco degli oltre cinquant’anni (più o meno dal 1848 ai primi del nostro secolo) durante i quali egli fu attivo come cospiratore, come "bombarolo", come rivoluzionario, come galeotto, come soldato blu e infine come veterano della guerra civile e delle guerre indiane d’America. Su tutto fanno spicco, in una carriera talmente stipata di avventure e di colpi di scena, il sodalizio con Orsini e la milizia agli ordini di Custer.

Ma è nel suo insieme che la vita del di Rudio esige di essere esaminata perché (mi sbaglierò, tuttavia non di molto) essa finisce per essere esemplificativa di uno spezzone considerevole di storia degli italiani dell’ottocento in spola fra Europa e America. Alle categorie degli avventurosi e degli avventurieri c’è il rischio infatti di applicare talvolta l’etichetta deviante dell’anormalità tout court desunta da un giudizio sbrigativamente moralistico e dalla constatazione del fatto che in fin dei conti essi formarono (e formano) solo un’infima minoranza nel gran mare delle esperienze legate all’emigrazione oltreoceano. Proprio la vita del di Rudio, invece, ci ricorda il contrario perché nel suo svolgimento essa ci mette a contatto con una varietà di figure senz’altro instabili e irrequiete, ma quasi tutte del suo tipo e non tutte esattamente marginali o secondarie come qui sotto vedremo riassumendone in breve le gesta salienti. Dietro all’incredibile uomo d’azione capace di portare a casa la pelle in mille frangenti obiettivamente pericolosi e quindi assai poco imputabile di opportunismo o, peggio, di vigliaccheria (di lui Charles K. Mills, uno storico americano del 7° Cavalleggeri, ha scritto anni fa che "lungi dall’essere un codardo, Di Rudio fu un realista. E un sopravvissuto nato...") si staglia e a tratti si intravede un mondo se non brulicante, almeno fitto di personaggi minori (esuli, soldati, millemestieri, rivoluzionari di professione ecc.) accomunati nel destino di una mobilità, spesso circolare, fra punti distantissimi della terra dove si recarono obbedendo a impulsi e a condizionamenti dissimili in origine da quelli a cui dovevano sottostare gli emigranti in cerca di lavoro o di benessere, ma negli esiti ben di rado differenti dai loro. E comunque con un andamento passibile di narrazioni e di trasposizioni (letterarie, filmiche o televisive) tanto godibili quanto istruttive.

Non è difficile intendere quanto una vita come quella del di Rudio si presti a questi fini. La sua è una storia già scritta che supera le fantasie possibili, è il soggetto o il copione di un avvincente romanzo che attende solo di essere messo in bella, di un film o di un documentario televisivo bisognoso appena di venire girato con gli attori giusti. E’, insomma, un caso classico di realtà romanzesca ,ovvero, e di più, è la prova che attraverso una casistica minore e sfuggente ci si può avvicinare un po’ meglio allo spirito di un’intera epoca. Lo spirito del tempo o dei tempi di Carlo Camillo di Rudio è poi quello di un romanticismo dispiegato che facilita i compiti del narratore (anche se in precedenza, e ne sa certo qualcosa Marino, deve aver complicato i problemi del ricercatore e dello storico) disponendolo favorevolmente nei confronti di una realtà composita e intessuta di altre vite, queste sì in prevalenza silenti e dimenticate, delle quali possiamo soltanto immaginare la trama.

Fra i soldati e gli ufficiali a disposizione di Custer nel giugno per lui fatale del 1876 di Rudio non era, ad esempio, il solo italiano e nemmeno il solo con freschi trascorsi patriottici risorgimentali. Se non altro, accanto a lui, dovremmo citare il trombettiere di giornata del generale, John Martin alias Giovanni Martini, un garibaldino di Mentana che ancor giovane era emigrato in America arruolandosi nel 7° : sino ad oggi andava anzi a lui la palma dell’"italiano tipo al Little Bighorn" perché aveva potuto raccontare molte e molte volte, a storici e giornalisti, sino al 1922 l’anno in cui morì a Brooklyn, la faccenda famosa del messaggio disperato di cui per incarico di Custer era stato inutilmente latore allo scopo di ottenere soccorsi. Custer, accortosi troppo tardi del guaio in cui si era cacciato pensando di aver a che fare con un piccolo accampamento e trovatosi invece dinanzi al più imponente dei villaggi mobili indiani, degli indiani "ostili" a cui dava spensieratamente la caccia, l’ordine di sollecitare i rinforzi a Martini lo aveva impartito , per la verità, a voce . Era stato il suo aiutante di campo tenente Cooke a stilare in fretta e furia un testo scritto ("Benteen come on Big Village Be Quick Bring Pack ecc.") per paura che il giovane green italian recruit, ancora poco avvezzo all’inglese, non avesse a sbagliarsi. Il Benteen cui si rivolgevano Cooke e Custer , tramite Martini, era poi il comandante di reparto nel corpo di spedizione da cui dipendeva il quarantaquattrene tenente di Rudio già disperso (e per questo salvatosi) al momento in cui scattava la trappola diel suo coetaneo capo e sciamano Toro Seduto e del grande guerriero Cavallo Pazzo.

Per tornare però agli italiani di Custer c’è da dire che Martini e di Rudio non erano nemmeno loro isolati se al campo base di Yellowston era rimasto ad esempio, con la banda del reggimento così cara al generale dai lunghi capelli, anche il torinese Felice Vinatieri, suo direttore da circa tre anni. Vinatieri, classe 1834,si era diplomato al Conservatorio di Napoli ed espatriato in America aveva preso parte ai primi due anni della guerra di secessione prima di rientrare per qualche tempo in Europa ( a Lisbona). Dal 1867, ritornato negli Stati Uniti, si era arruolato nel 22° Reggimento Fanteria di New York rimanendo per tre anni a Fort Sully sempre come Band Leader e solo successivamente era passato nel 7° partecipando alla spedizione delle Black Hills. Scampato al disastro del Little Bighorn e congedatosi sarebbe morto nel suo letto a Yankton nel 1891. Né l’elenco si esaurisce con lui se mettiamo nel conto, fra i soldati, un genovese chiamato Augustus Devoto e il romano Giovanni Casella, che il nome se lo era cambiato in un improbabile John James.

A questo punto verrebbe voglia di chiedersi, celiando, se per caso non ci fosse qualche italiano anche tra i pellerossa, ma sembra evidente che la parabola del conte di Rudio parla per sé e per un momento storico nel quale era già capitato, poniamo, che alcuni americani, come Chatam Roberdeu Wheat, avessero prima militato nelle file dei Mille di Garibaldi convinti di battersi (ad esempio sul Volturno) per una causa giusta e avessero combattuto subito dopo, per gli stessi motivi, rispondendo all’appello del governo confederato: Wheat d’altronde, virginiano, era sudista di nascita e e finì per morire in battaglia nel 1862 a Gaines’ Mill. In un caso un cospiratore mazziniano e un combattente garibaldino, nel secondo un altro garibaldino accorso in Italia dall’America con vari compagni di cui sappiamo anche meno di Devoto e di Casella, ma che ideologicamente non dovevano granchè dissentire da loro, e tutti destinati a contraddirsi visto l’impegno poi profuso, rispettivamente, nelle guerre indiane (cioè contro gli indiani) e in quella civile, che in parte era stata anche, come ben si sa, una guerra occasionata dalla questione razziale e dal problema dell’abolizionismo. Precisamente contro di esso, nella sua versione idealizzante propagandata da Lincoln, i confederali, contrari alla fine della schiavitù, avevano dichiarato la propria secessione dagli yankees e un uomo generoso dello stampo di Wheat non aveva trovato nulla da eccepire.

Il fatto è che da un lato prevalevano, tanto in Europa quanto in America, le vedute del nazionalismo incurante dei diritti di razze ritenute inferiori, ma da un altro spingevano anche le ragioni più urgenti del bisogno . Tant’è vero che al pari di Martini e del conte di Rudio, furono numerosissimi gli europei di fede probabilmente democratica che, emigrando, finirono per combattere in guerre per loro intriganti. E mi verrebbe voglia qui di aprire una parentesi, pertinente peraltro, sul vicentino Adolfo Farsari, patriota liberale e volontario nella seconda guerra d’indipendenza che arrivato nel 1863 in America si arruolò nell’esercito dell’Unione salvo accorgersi in fretta della pretestuosità del leit motiv abolizionista e della durezza delle circostanze che proprio allora cominciarono ad ingrossare le file dei nordisti dove i "volontari" europei si arruolavano a frotte per procacciarsi, come che fosse, un impiego. Di Rudio non aveva fatto eccezione, giunto a buon punto della sua vita errabonda e rischiosa, quando, pur munito di lettere commendatizie di Mazzini e di varie personalità progressiste inglesi, aveva indossato nel 1864 la divisa yankee come soldato semplice nel 79° Reggimento Fucilieri di New York, tra gli Highlanders per lo più scozzesi di uno dei tanti reparti impegnati nel sanguinoso conflitto civile.

La chiamata del 1863 era stata a dir poco fallimentare al Nord e al posto degli americani D.O.C., col sistema della surrogazione pagata, erano subentrati in grande quantità gli europei emigrati di fresco e senza lavoro. Dal fronte (New Berne, North Carolina) nel luglio pro- prio del 1864 , giusto un mese innanzi l’arruolamento del di Rudio, Farsari, in forza da un anno al 12° Cavalleria di New York, scriveva a casa, a suo padre: "A proposito di razionalità! Il volontario è così ben veduto dal North (America) e sono così entusiasti per esso (quantunque io creda che in un milione e mezzo, essendo quasi tutti stranieri, non ci siano dieci che si battano per la patria, ma bensì per la moneta) che a spese del governo si imbalsamano i corpi dei soldati morti e quindi vengono consegnati a chi li domandano oppure vengono mandati se possibile al grande cemitero che si farà o che si sta facendo a Chattanooga in memoria dei morti pella libertà dei schiavi. La guerra qui non si fa secondo quel principio ma bensì per altri, e se non fosse che quello è il principio apparente simpatizzerei pel South. Il north ha prima venduto al South tutti i neri che avevano perché non recavano alcun frutto, e quindi hanno mosso guerra al South per la liberazione di quegli stessi schiavi; avrei molte cose a dirti intorno a questo soggetto".

Una girandola di apparenti divagazioni ci ha condotti ancora una volta lontano dal campo di battaglia del Little Bighorn e soprattutto dalla figura del conte di Rudio, ma come si è visto è stato "a fin di bene" e cioè per ricordare, assieme alla natura di certe contraddizioni insite nella sua storia di vita, anche il particolare delle forse non poche altre vite dimenticate sul doppio versante dell’America e dell’Italia di metà ottocento in cui vi fu spazio, dunque, non solo per gli eroi fra gli eroi, come per antonomasia Giuseppe Garibaldi che lo fu appunto "dei due mondi", bensì pure per tanti dimenticati personaggi minori. Tale fu anche, nonostante le origini aristocratiche e a dispetto della rilevanza assunta dall’attentato antinapoleonico a cui partecipò, Carlo Camillo di Rudio. Egli era nato in una famiglia della piccola nobiltà bellunese ed era stato "instradato" tredicenne dal padre Ercole Placido, un liberale e patriota che avrebbe poi patito assieme a una sorella di "Carletto" il carcere austriaco a Mantova con i martiri di Belfiore, alla carriera militare nel Collegio militare di San Luca a Milano. Giovane cadetto, la rivoluzione delle cinque giornate lo aveva colto qui e sbalzato, come recidivo in compagnia del fratello Achille, a Graz, pressoché ostaggio delle autorità militari asburgiche. Rientrati clandestinamente e fortunosamente a Belluno, dove il conte Ercole Placido era già in contatto con Pier Fortunato Calvi, i due giovinetti si erano portati in settembre alla difesa di Venezia dove Achille perdeva la vita contagiato dal morbo colerico e dove Carletto faceva conoscenza per la prima volta con Felice Orsini.

In un susseguirsi incessante di arresti, di fughe e di tribolazioni (l’abbandono di Venezia e l’arrivo nella città eterna per militare come difensore della Repubblica Romana, l’esilio a Genova nel 1850, il passaggio clandestino in Francia e in Svizzera, le cospirazioni re- pubblicane e le prime voci di screzi suoi con Calvi e con Mazzini, l’andirivieni del rivoluzionario di professione culminato nei fatti del 1858 quando, già sposato a una cittadina inglese, fu lì lì per salire sul patibolo e graziato in extremis venne condannato all’ergastolo dell’Isola del Diavolo nella Cayenna francese, la fuga di lì dopo due anni di prigionia e l’approdo conclusivo negli Stati Uniti) la storia del contino bellunese si incrociò alla fine con quella del 7° Cavalleria di Custer e con le guerre indiane a cui prese parte sempre cavandosela come per miracolo. Proseguita sino agli anni novanta con un ampio corredo di figlie e di avventure vissute e raccontate (anche davanti alla Commissione d’Inchiesta sul disastro del Little Bighorn del 1879 e non di rado dinanzi a giornalisti affamati di notizie inedite), l’esistenza del di Rudio doppiò il capo del secolo fra Los Angeles e San Francisco dove il bellunese concluse i suoi giorni col grado di Tenente Colonnello della Riserva all’altezza quasi degli ottant’anni.

E’ ben vero che affido al bel libro di Cesare Marino il compito di illustrare in dettaglio tutte le fasi di questa turbinosa parabola. Tuttavia non avrei potuto accomiatarmi da chi ha avuto la pazienza di seguirmi sin qui senza almeno elencarle a mia volta nella dichiarata speranza che la stringatezza del riassunto invogli alla riscoperta di un tragitto di metà ottocento compiuto Dal Piave al Little Bighorn e nella quasi certezza che le parti mancanti qui (battaglie, imboscate, capi indiani, ecc.) garantiranno, a chi vorrà affrontarle per suo conto e con l’aiuto appunto del Marino, ma prima che ci ritorni su io in un prossimo articolo, un’affascinante lettura.