Index LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Aprile 1997


Corso di scrittura a puntate (8)
a cura di Giulio Mozzi

Le precedenti puntate del corso di scrittura narrativa hanno trattati questi argomenti: l’incipit (Nautilus, agosto 1996); la voce narrativa (Nautilus, settembre 1996); la molteplicità del personaggio (Nautilus, ottobre 1996); la redazione dei giochi di ruolo (Nautilus, novembre 1996); come si scrive un racconto cannibale (Nautilus, dicembre 1996); ci sono regole nella scrittura? (Nautilus, gennaio 1997); elementi di metrica (Nautilus, febbraio 1997).

In questa puntata presentiamo un saggio di Monica Benucci a proposito di On Moral Fiction, un importante libro (non ancora tradotto in Italia) di John Gardner, ben noto tra gli aspiranti scrittori italiani per Il mestiere di scrittore (Marietti, L. 16.000) sicuramente il più bel libro sull’apprendimento (e l’insegnamento) dello scrivere finora pubblicato in Italia.

Libri da leggere per scrivere, di Monica Benucci

On Moral Fiction, di John Gardner

La pubblicazione di On Moral Fiction nel 1978 (New York, Basic Books) viene spesso considerata l’evento più importante della carriera letteraria di John Gardner, noto in Italia soprattutto per la sua attività d’insegnante di scrittura creativa (On Becoming a Novelist, 1983, tradotto come Il mestiere di scrittore, Marietti). Narratore, medievalista e docente universitario, nel ‘76 Gardner era stato insignito del National Book Critics Circle Award, ottenendo con il romanzo October Light il riconoscimento della critica per la migliore opera narrativa dell’anno pubblicata da un autore americano vivente. Inoltre, aveva ormai all’attivo vari best-seller (Grendel, The Sunlight Dialogues, Nickel Mountain) e una produzione che spazia dalla saggistica accademica al poema epico, includendo alcuni drammi radiofonici e opere di narrativa per l’infanzia. Da questa posizione di scrittore affermato su vari fronti, Gardner prende le mosse per riflettere sulla propria e altrui produzione letteraria in un pamphlet dal tono autorevole che, oltre a guadagnarsi un articolo in prima pagina sul «New York Times» Magazine, ha provocato un durevole dibattito internazionale sullo stato dell’arte contemporanea.

Come esplicita il titolo, discutendo di Moral Fiction (narrativa morale) Gardner inserisce se stesso e le proprie predilezioni letterarie in quella che definisce la «grande tradizione morale» di Omero, Dante e Tolstoj. La prima parte del libro («Premises on Art and Morality», Premesse sull’arte e la moralità) è dedicata all’argomentazione di un assunto basilare dell’estetica gardneriana: «true art is moral» (la vera arte è morale), nel senso che tutta l’arte degna del nome è «seria e benefica», cerca di migliorare la vita e non di degradarla, è un gioco contro il caos, la morte e l’entropia, un tentativo per tenere a distanza di sicurezza il crepuscolo degli dei e il nostro (1).

Gardner è consapevole di appellarsi ad una concezione old-fashioned, tradizionale dell’arte, che si presta facilmente ad essere equivocata e bollata come tradizionalista o magari reazionaria. Pur non negando il ruolo della letteratura come espressione di uno specifico contesto storico e culturale, Gardner sottolinea la capacità della narrativa di fornire exempla, valori e modelli di comportamento non prefissati in astratto ma sottoposti a verifica attraverso l’azione dei personaggi (2). L’antagonista dichiarato è rappresentato dalla maggior parte della produzione letteraria contemporanea, che Gardner definisce arte falsa e vuota come un barattolo di latta («tinny art»), incapace di dare al lettore nutrimento morale, etico ed estetico. Si tratta spesso di opere che ci fanno perdere tempo celebrando brutture e/o futilità, che invece di perseguire un’attenta e onesta ricerca di valori, traggono origine dal disprezzo o dall’indifferenza per l’umanità. Quest’arte fallace si riscontra non solo nella produzione dichiaratamente commerciale e di consumo, ma anche nella cosiddetta arte «seria». Come già notava Gombrich più di vent’anni addietro (3), Gardner osserva che la nostra epoca se da un lato tende all’omologazione, dall’altro magnifica l’originalità individuale come pregevole di per sé. L’artista stesso viene considerato interessante soprattutto per la sua stranezza, perché sa dare forma e vita a qualche dettaglio curioso, o a ciò che è spiritualmente o fisicamente strambo, mentre la saggezza, l’acutezza di sguardo e l’universalità passano facilmente in secondo piano.

La vera arte, al contrario, a prescindere dalla sua apparente novità, è distinguibile per una caratteristica fondamentale: ci aiuta a capire la realtà. Dunque come mai, si chiede Gardner, siamo tanto restii ad ammettere un fatto così ovvio come il potenziale educativo dell’arte? (4). Una possibile risposta sta nel cinismo e nel nichilismo tuttora imperanti, nella convinzione moderna che siamo tutti colpevoli, cosicché non esisterebbe alcun efficace modello positivo di comportamento, nella vita quanto nell’arte. Persino l’arte di evasione e disimpegnata ha ormai assunto questo tono cinico, sadico e disperato che un tempo sembrava appannaggio dell’arte seria e meno conformista. All’onestà, che si basa sulla riflessione, è subentrata la sincerità, fondata sull’emozione del momento, mentre l’arguzia ha preso il posto della profondità (5).

Secondo Gardner, il problema centrale dell’arte attuale sta nell’aver dimenticato la fondamentale scoperta dantesca che l’amore è fonte di conoscenza, e questa mancanza di amore - parola decisamente fastidiosa per la coscienza critica contemporanea (6) - ha debilitato intellettualmente la nostra letteratura, producendo arte propagandistica, violentemente denigratoria nei confronti delle istituzioni e della classe dirigente, oppure apparentemente imparziale e descrittiva. La confusione, il dubbio e la disillusione sono ormai considerati emozioni imprescindibili per l’essere umano civilizzato, ma in realtà, prosegue Gardner, l’amore come mezzo di conoscenza ha permesso alla grande arte di tutti i tempi di comprendere l’alterità attraverso l’imitazione empatica di tutto ciò che percepiamo come esterno a noi stessi, permettendoci nel contempo d’illuminare meglio, grazie a questo percorso, la nostra stessa identità. Un simile atteggiamento, per quanto possa implicare uno sguardo ai limiti dell’inesprimibile, o una moralità che si scontra con il moralismo di alcune epoche, procede dall’assunzione di un preciso punto di vista sul mondo e la realtà.

La seconda parte del saggio s’intitola «Principles of Art and Criticism» (Principi dell’arte e della critica) e si articola in quattro sezioni: «Moral Fiction», «Moral Criticism», «The Artist as Critic» e «Art and Insanity». Nel primo capitolo, Gardner approfondisce e illustra con esempi le idee esposte nella prima parte, concludendo con un’invettiva contro la letteratura «affascinata dall’abisso», ossia dedita al «culto della violenza, del sesso, del cinismo e della disperazione», dichiarandosi contrario a qualsiasi forma di censura, ma anche convinto che questa produzione influisca (negativamente) sulla società, e non viceversa.

In «Moral Criticism» (La critica morale), sono descritte le motivazioni, finalità e caratteristiche della buona critica letteraria, utilizzando gli stessi parametri di moralità impiegati per individuare la ‘vera’ letteratura. Inoltre, viene ripresa l’idea, accennata nella premessa iniziale, che la moralità abbia la sua principale e più antica manifestazione artistica nella triade etico-estetica costituita da Bellezza, Bontà e Verità («Beauty, Goodness, and Truth»), definite come «valori assoluti relativi», nel senso che rivestono validità universale pur essendo sensibili ai mutamenti del contesto storico e culturale.

In «The Artist as Critic» (L’artista come critico), all’artista è affidato il ruolo di legislatore in materia d’arte, essendo il solo capace di distinguere la vera arte dai suoi simulacri. Sfortunatamente, aggiunge Gardner, gli artisti (veri o falsi) si autoproclamano tali, dunque l’unico modo per dimostrare la veridicità delle loro affermazioni è ingaggiare leali duelli con gli avversari (7) (qui appare chiaro che Gardner, scrivendo On Moral Fiction, adotta esattamente questo metodo). Il vero artista non soltanto è in grado di percepire nella vita «il lampo di un’interezza frantumata» (8), ma sa inoltre mostrare con esattezza cosa non funziona, come potrebbe essere la realtà e cos’è possibile fare per ricomporla. Il poeta-sacerdote, come «un angelo intrappolato nell’inferno ha uno sguardo pericoloso» (9) e, benché nel mondo odierno abbia ben poco potere, è nella sua natura dare la caccia alla realtà, al di là di qualsiasi interesse.

L’ultimo capitolo, «Art and Insanity» (Arte e follia), definisce ulteriormente la figura dell’artista prendendo le mosse dallo stereotipo della pazzia creativa. La principale caratteristica che distingue la grande arte, commenta Gardner, è la sanità mentale. L’artista sa raggiungere i livelli più profondi dell’esperienza e individuare gli atteggiamenti, le emozioni e convinzioni che sono davvero significativi per un essere umano. L’artista e lo psicotico sono accomunati da alcune ossessioni: l’aver sperimentato una ferita originaria che è insita nella vita stessa, e la capacità di fuggire le limitazioni della realtà contingente attraverso un modo di essere (la creatività o la follia) che li separa dalla coscienza del proprio tempo. La creatività sana, però, è un processo dialettico che non può prescindere dalla conoscenza di se stessi; al contrario, trae origine dalla necessità di «prestare attenzione», e dalla volontà di scoprire e ricordare ciò che è realmente essenziale.

Monica Benucci

 

(1) «True art is moral: it seeks to improve life, not to debase it. It seeks to hold off, at least for a while, the twilight of the gods and us» (p.5).

(2) «Great art celebrates life’s potential» (p.83). «Moral fiction communicates meanings discovered by the process of the fiction’s creation» (p.108).

(3) «Lo scandalo è tramontato e qualsiasi esperimento pare accettabile alla stampa e al pubblico. Oggi ha bisogno di patrocinio solo l’artista che evita atteggiamenti ribelli. Sono convinto che è questa drammatica trasformazione... a rappresentare, nell’ultimo ventennio, l’evento più importante nella storia dell’arte di cui sono stato testimone» (In La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, Torino, Einaudi, 1989, p.595).

(4) «Art instructs. Why, one may wonder, would anyone wish to deny a thing so obvious? (...) Art’s incomparable ability to make us understand ought to be a force bringing people together, breaking down barriers of prejudice and ignorance, and holding up ideals worth pursuing» (pp.38, 42).

(5) «Honest feeling has been replaced by needless screaming, pompous foolishness, self-centered repetitiousness» (p.63).

(6) «»Love» is another of those embarrassing words, perhaps a word even more embarrassing than «morality»... [yet] it is for the pleasure of exercising our capacity to love that we pick up a book at all» (pp.83-84).

(7) «Since the bad artist (like the good one) is an artist at all only because he claims he is...the only available rules are those of the gunfighter. Artists have been shooting at artists for centuries. It’s a healthy sport if managed with a measure of civility, gun against gun, nothing personal or mean» (p.149).

(8) «[The artist’s] fundamental sense, as he looks at life, is of glory obstructed: a glimpsed wholeness shattered» (p.157).

(9) «The great artist...breaks through the limited reality around him and makes a new one. He says not «it surely can’t be just this!» but «listen, it’s like this!» and makes it stick. (...) Like an angel trapped in hell, he has dangerous eyes» (pp.173-4).