Index LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Aprile 1997



Letture

  • Anticipazioni: «Musica senza parole» e «Se fossi mio figlio», due racconti di Pino Roveredo da Una risata piena di finestre, ed. Lint
  • Inedito: da Vampiri di Francesco Cerioni

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Anticipazioni: Una risata piena di finestre,di Pino Roveredo

Pino Roveredo, 42 anni, triestino, operaio (in una fabbrica di tappi per bottiglie) e scrittore, ha pubblicato un anno fa il suo primo libro, Capriole in salita (edizioni Lint), giudicato da Claudio Magris il più bel romanzo stampato in Italia nel 1996. Il 21 marzo la Lint manda in libreria Una risata piena di finestre (pp. 250, lire 26.500), che raccoglie il racconto lungo (o romanzo breve, a scelta) che dà il titolo al libro, più ventiquattro racconti brevi raccolti sotto il titolo di «Rimbalzi». Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo due di questi racconti brevi.

 

Musica senza parole, di Pino Roveredo

Mauro il sordo è stato per anni un punto di riferimento della città.

- Scusi, sa dirmi dov’è la via Pascoli? - - Guardi, prosegua sempre diritto. Appena vedrà un vecchio appoggiato al muro calcoli la sua destra: ecco, quella è la via che cerca.

- Senti, dove ci vediamo?» - Facciamo alle quattro lì, dal sordo...

Il vecchio Mauro era sempre fermo lì, appoggiato al muro, all’angolo tra Via Pascoli e Via Raffineria. Dalle otto del mattino alle otto di sera impegnava le sue dodici ore di lavoro nell’impegno costante della mano tesa e del sorriso stampato sulla faccia sempre uguale. Tutti, persino i più anziani, raccontano di averlo sempre visto vecchio, tanto che avanzano il dubbio se fosse mai stato bambino, oppure se fosse nato già così. La sua cantonata, negli anni, si era trasformata in un appoggio fisso: sembrava quasi che quell’angolo fosse stato costruito per lui.

Quando ero molto giovane non sapevo ancora che anche un piccolo gesto, a volte, può procurare molto dolore, non solo a chi lo subisce ma soprattutto, negli anni, a chi lo ha effettuato. E fu così che un giorno, mentre passavo davanti al suo posteggio insieme agli amici, Franco, uno del mio gruppo, avanzò il dubbio della sua imbecillità. Allora, per beccarlo in castagna, il ragazzo gli lanciò l’urlo di uno ‘scemo’. Noi, come pecore, senza pensare, gli facemmo prontamente coro nel ripetere l’offesa. Mauro non batté ciglio, continuando a sorridere come faceva sempre, mentre con la coda dell’occhio accompagnava la nostra stupidaggine che stava scappando.

Da quel giorno ho un altro sassolino che mi procura dolore in una piega della coscienza. Adesso so che il rimorso non si cancella; eppure, ora che sono cresciuto mi sono imposto, quando vedo un vecchio all’angolo di una strada, curvo come una speranza di guadagno su una mano tesa, di lasciargli una banconota senza guardarlo: non è che dopo mi senta meglio, nella vita non succede mai che un pentimento si lasci espiare così.

Il vecchio Mauro stazionava sempre al suo angolo, dentro la pioggia, il sole, la neve. Se avesse avuto favella e sonoro avrebbe potuto dire che quel luogo era suo. Con la figura stanca e la schiena piegata per la fermata di un mestiere, sfruttava la mano tesa dentro l’indugio appoggiato all’angolo. Era diventato lui stesso una mano senza occhi e senza vergogna, esibita per il richiamo di un’offerta tintinnante, messa lì come la nemica di una dignità che urla senza farsi sentire.

Quando scendeva la sera, però, Mauro lasciava la parte dell’uomo degli appoggi per diventare l’uomo delle monete. Più erano e più sorrideva. Il suo sorriso si allargava a dismisura quando le buttava sul banco dell’osteria, mentre la bocca dell’oste si storceva in una bestemmia, perché a contarle ad una ad una non si finiva mai.

E tuttora, in quei locali di fumo e vino, c’è chi ricorda il vecchio Mauro. Ancora oggi i bevitori eterni parlano con ammirazione invidiosa dell’incredibile sete del sordo, capace di spogliare file e file di bicchieri senza esagerarsi di un accento la dimensione: con lui non c’era proprio gara.

Anche i suonatori ambulanti si ricordano di lui. Qualche volta, sotto l’influsso del vino e degli anni, parlano di lui quei due musicisti anziani che insieme non facevano l’età di Mauro e che, per accontentarsi la sete, passavano le sere di bettola in bettola con una vecchia chitarra, un violino da pochi soldi e vecchie, vecchie melodie. L’ultima tappa del loro giro era sempre l’osteria di via Raffineria, dove proseguivano fino a esaurimento dei loro repertori, sia di quello suonato e cantato, che di quello bevuto e bestemmiato.

In quell’osteria soprattutto era un piacere suonare, non era come negli altri locali dove gli anziani avventori, compiaciuti dall’esecuzione di canzoni che non ricordavano di aver più sentito dai tempi della loro gioventù, pagavano da bere agli ambulanti. Nell’osteria di Via Raffineria, puntuale come un orologio, ogni sera c’era Mauro ad aspettarli: si sedeva accanto a loro con gli occhi lucidi e non finiva di ammirarli. Quando suonavano, lui li accompagnava battendo mani e piedi; forse le esecuzioni rumorose svegliavano vibrazioni che Mauro, sordomuto dalla nascita, riconosceva come musica, e quindi come piacere. Quando i suonatori smettevano, il vecchio infilava la mano nella tasca, ne tirava fuori un mucchio di monete e le buttava sul bancone: era l’ordine che accontentava la sete dei musicisti. Questi, come vecchi juke- box, ingoiavano e poi esaudivano la richiesta.

Ora per i due anziani ambulanti quell’osteria non è più l’ultima del tragitto. È diventata la prima, giusto un passaggio e poi i due suonatori scappano via. Ormai non c’è più nessuno che li ascolti, neanche un sordo: non c’è più chi spende le monete per l’orgoglio del concerto.

Le monete, oltre ad essere pioggia nelle tasche senza forma e avere il potere di far suonare i musicisti girovaghi, sono anche le spose dei sorsi che si ricordano di un debito. Così può succedere che, in un colpo solo, rivogliano indietro testa, stomaco e cuore, mentre, complici, sorridono a una fine. Già, proprio a una fine, quella che Mauro non aveva mai temuto, perché nemmeno il rumore dell’addio riuscì a sfiorare il suo timpano di sordomuto.

L’eco di come sia andato a finire Mauro oggi sta girando come una piccola leggenda: la storia del sordo di Via Pascoli, raccontata dai musicisti ambulanti, ha fatto il giro della città. Anche chi non l’ha mai conosciuto, persino chi non l’ha nemmeno mai visto reggere l’angolo delle due vie a volte parla di lui, ricordando in modo proverbiale le sue bevute. C’è addirittura qualcuno pronto a giurare che quella disgrazia senza lacrima e senza commiato, che visse il suo silenzio senza l’intrigo della voce, abbia fatto sobbalzare l’ultima presenza degli ascolti prima sorridendo, poi ridendo, quindi sghignazzando e alla fine, in una bestemmia, cantando.

Se fossi mio figlio, di Pino Roveredo

 

Se fossi mio figlio mi sarei fatto il piacere di essere un medico, anche generico, però con ambulatorio. Poi mi sarei dato la soddisfazione di essere sposato, concedendomi la gioia di un paio di nipoti, bambini belli che diano un senso alla mia compagnia. E invece a settant’anni mi ritrovo ad essere il nonno di un bel niente.

Eppure di figli ne ho avuti due, ma sono discendenze inutili, inutili come una volontà sterile: due figli fatti crescere per il piacere del cuore e che ora sono diventati i protagonisti di un dispiacere.

Non che li disprezzi, i miei ragazzi, questo mai: li ho desiderati io a questo mondo, sottoscrivendo tutti gli umori gioiosi e disperati che portano nell’animo. Ma accidenti a loro, cosa gli costava procurarmi qualche sorriso di creatura, me ne sarebbe bastato anche uno, giusto da poterlo mettere dentro le poche gocce di vita che mi restano. Poco è poco, ma niente è niente. Loro sono vivi, e basta.

Il primo, Matteo, è un prete e lo vedo di rado perché vive lontano, fa il missionario nei paesi del Terzo Mondo.

Quando viene a trovarmi ha sempre fretta, tanto che per viverlo un po’ di più lo osservo, nascosto dietro le colonne della chiesa, mentre celebra la messa o recita il rosario. Ma non mi basta, e glielo dico. E lui ogni volta, con un sorriso che sembra largo come un’ironia, risponde - Papà, noi siamo vicini con il cuore e con l’anima.

E io giù ad arrabbiarmi - Eh no, caro mio, il cuore lascialo stare; lui ha già tanto da fare per farmi sopravvivere: e poi, bell’aiuto che gli dai, se ogni volta lo scuoti con le tue partenze. E poi l’anima: ma che c’entra l’anima. Quella sarà buona solo per l’aldilà, in quel mondo che predichi e sostieni con la tua pubblicità...

- Papà, smettila, e non bestemmiare.

- Scusa tanto, Matteo, ma cerca di capire: sapessi che fatica vivere sulla scia del tuo invisibile. Io, tuo padre, che non posso gustare i tuoi occhi, stringerti le mani, abbracciarti con tutto il bene che ho a disposizione e che non so dove accidenti vada a finire... E tu, tu mi dici di non bestemmiare? Ma vai, vai, non preoccuparti, che tanto sono capace di rimediare da me. Questa mia solitudine da davanzale che aspetta il niente, vale più di milioni e milioni di Atti di dolore battuti sul petto.

E poi, che dire della gente, quella che quando ci vede insieme ci ripete la stessa canzone - Bravo , Matteo, che sia benedetta la tua volontà, e bravo tuo padre, che ti ha insegnato la coscienza.

Se non fosse per una buona educazione, a quella gente risponderei - Ma smettetela, ignoranti. La coscienza è proprietà dell’istinto, non si può imporre né insegnare. E poi voi parlate, parlate, ma per caso avete figli che fanno i preti? No? E allora fatemi il piacere di tacere, perché voi siete stati gli egoisti previdenti che li hanno fatti crescere mirando ad altri futuri. Oggi, i vostri figli sono medici generici... e tutti con l’ambulatorio.

Quella è gente che parla solo perché gli hanno messo una lingua in bocca, gente che farebbe un’opera buona se mi passasse oltre e andasse in cerca di altre storie da sputtanare.

Missionario, proprio un bell’affare. Per l’amor di Dio, non discuto la vocazione: ma perché non è venuta ad altri, proprio a mio figlio doveva capitare? Mio figlio, che si è votato l’esistenza a sollevare le disperazioni di paesi lontani, troppo lontani. Ed io? Io non sono forse un disperato che ha bisogno di un sollievo? Possibile che il mio abbandono non abbia il valore di quello degli altri? Tutti i vecchi inutili come me, che hanno a disposizione solo poche stagioni frettolose e speranze senza pazienza, dovrebbe avere il diritto a un’assistenza missionaria.

Sì, proprio un bell’affare un figlio prete. Affare che non potrò nemmeno vantare nella referenza finale: quando un giudizio mi esaminerà l’anima non potrò mentire. È vero, però, che lo volevo religioso. Ma è anche vero che lo volevo senza giuramenti di castità. Lo pretendevo dottore ammogliato e con prole, per far parte dell’associazione orgogliosa di nonni e di nipoti.

Se fossi mio figlio, mi rispetterei, mi amerei, e tornando indietro, mi accontenterei con una discendenza.

Nemmeno il secondo figlio, Daniele, potrà mai esaudire il mio piacere. Ed è un peccato, perché lui è sempre stato più sensibile del fratello, dedicandomi tutto l’affetto che un padre può desiderare. No, nemmeno lui mi potrà accontentare, ma non perché faccia il prete, diciamo piuttosto l’opposto: lui fa il detenuto con ancora quindici anni da scartare.

Eppure lui è buono, è stato così sin da piccolo, soprattutto da quando sua madre se n’è andata quando i miei figli erano ancora bambini. Da allora mi trattò da padre, madre e fratello maggiore, anche perché Matteo, preso dalle sue riflessioni, non gli riservò mai la compagnia del gioco. Certo, se quando erano piccoli qualcuno mi avesse predetto che avrei avuto un figlio prete, appena rimessomi dal colpo avrei senz’altro indicato Daniele.

Ma nessuno può scrivere la vita prima che avvenga, lei gira a piacere tra mistero e bugia, sempre pronta a sorprenderti e a smentirti. Ed ora, Daniele è carcerato.

È successo cinque anni fa, quando andò allo stadio assieme a un gruppo di imbecilli, aggregati dal giuramento di una Brigata sportiva.

Io lo allarmavo sempre - Non vestirti da cretino e non andare con loro, quella è gente brutta e stupida che non fa per te. E lui a tranquillizzarmi - Non preoccuparti, papà, non crederai che sono cresciuto per niente, e poi non si tratta che di un gioco.

Bravo, proprio un bel gioco, come quel razzo che gli misero nelle mani e che lui, per manifestazione gioiosa, spedì verso il cielo. Ma il lancio non rispettò il suo intento e andò a finire dall’altra parte degli spalti, conficcandosi nella passione di uno spettatore. La persona che morì aveva solo venticinque anni.

Se io fossi stato mio figlio mi sarei chiamato... E il papà sarebbe subito corso, imbrogliandosi gli anni, dipingendosi e travestendosi da cretino per urlare tutta la propria colpa. Ma mio figlio non mi chiamò e con il rimorso della coscienza andò alla polizia a denunciarsi.

L’opinione pubblica insorse e i giornali tolsero il nome a mio figlio, chiamandolo di volta in volta Bestia Sanguinaria, Criminale, Sadico Assassino e altro, di peggio ancora, tanto che la condanna a vent’anni di reclusione fu una conseguenza prevista e applaudita da tutti.

Ma Daniele è buono, è sempre stato buono. Ancora oggi mi scrive una lettera al giorno, preoccupandosi della mia sciatica e pregando per il mio cuore malandato, lo stesso cuore che devo sottoporre al terremoto settimanale dei colloqui in carcere.

Povero ragazzo, la vita in quel luogo dev’essere tremenda, ma lui è sempre lì che ride, parla come a farmi vedere che non c’è motivo di apprensione. Ma si vede che finge, come d’altronde è finta anche la mia serenità. Entrambi abbiamo un’allegria che ogni volta rischia di inciampare sul primo sorriso.

Lui ogni volta mi dice di resistere e di avere pazienza, perché quando uscirà, conoscendo il mio desiderio nipote, coprirà la mia solitudine con l’utopia di tanti, tanti bambini. Tante volte gli dico di sì, ma quando capita la giornata che piove sconforto, allora può capitare che gli ribatta duro - Lascia stare, oggi ne hai trentacinque, quando uscirai ne avrai cinquanta, a quell’età solo i ricchi trovano donne che gli diano figli... magari con gli uccelli degli altri. - Sono verità amare, che talvolta sono capaci persino di farci ridere.

Dopo esserci salutati, non appena scendo in strada, mi ritrovo nuovamente con la tristezza di essere solo. Allora mi ripassa in testa il solito pensiero - Se fossi mio figlio, anche per soli cinque minuti, non sopporterei la detenzione e probabilmente farei di tutto pur di farla smettere.

Ma quelli sono pensieri stanchi, estremi come la vita ormai spolpata all’osso. Sarà oggi, sarà domani, sarà il più presto possibile che saluterò questo piccolo mondo con sempre meno nipoti.

E quando andrò, non avrò più il desiderio di essermi discendenza. Ormai sarà tutto scontato. Mio figlio prete celebrerà la funzione di addio e mio figlio detenuto avrà quindici anni di tempo per impazzire dal dolore.

Intanto, nel continuo del trascorrere, girerà sempre un rimpianto di due ambulatori vuoti, dove mancheranno per sempre due medici generici.

[su]

Inedito: da Vampiri di Francesco Cerioni

Pubblichiamo una scena da Vampiri (titolo, osiamo dire, non tanto originale), che è un inedito romanzo breve o racconto lungo (si può sempre scegliere) di Francesco Cerioni. E’ un testo, come ben si vede, molto «interno» ad alcuni generi letterari oggi di moda; tuttavia ci pare che Francesco Cerioni dimostri (diversamente da molti giovani che si cimentano con queste scritture di genere) buona capacità di costruire la scena, di riempirla di particolari d’ogni genere e di farci muovere dentro i personaggi. Francesco Cerioni compie 22 anni il 24 marzo 1997, è studente di giurisprudenza, abita a Narni (in provincia di Terni). (gm)

Le strade buie, illuminate, brulicano di sigarette accese e mani in tasca. Chiavi che suonano fra le dita, mani fra i capelli. I telefonini squillano nei giacconi di pelle. Ci sono un centinaio di ragazzi che si stanno mettendo d’accordo, qui, in una delle piazze del centro, su dove passare la serata. Decine di gruppi di amici che vogliono inventarsi la notte. Dopo qualche ora, si ritrovano tutti là, nella stessa piazza, a parlare di cosa faranno domani.

Domande e risposte. Silenzi. Attesa.

- Me ne vado a casa.

- Ciao Frenz.

- Ciao. Adesso tanto ce ne andiamo anche noi.

- Si. Io aspetto che mi passi un po’ la botta poi vado.

- Ciao.

Ammazzare il tempo!

Bere e fumare al Cafè.

Ammazzare il tempo!

Soli.

Soli come cani rognosi spelati sbavanti sifilitici puzzolenti ammalati disperati incazzati tristi...

Me ne stavo con i gomiti sul tavolo di un maledetto Cafè. Con una birra accanto e una sigaretta appoggiata sul posacenere. Incollato ad una sedia. Centauro metà uomo metà tavolo del Cafè. Lì al tavolo stai a pensare ai tuoi stronzi guai. Cos’altro puoi fare fra muri e soffitto a osservare la gente. E quasi invidioso di quelli che non hanno la tua stessa espressione sul volto.

Frenz sta discutendo con sua madre perché è tornato troppo tardi a casa. Incazzato, decide di uscire di nuovo. La madre comincia a frignare istericamente...

Tutti sognano durante il sonno, è provato scientificamente. Frenz ha deciso che non vuole più sognare. Lui vuole rimanere sveglio e basta. Stare sempre in piedi come un palo della luce leggermente storto. Con le braccia lungo il corpo. Mentre un batocchio sbatte impietoso sulla sua scatola cranica.

Certi sogni sono letali.

- Diego, si va?

- Il tempo d’una sigaretta.

- Ok.

C’è un uomo circondato da pareti e finestre che si affacciano sui palazzi di fronte.

Sulla strada un ragazzo in lacrime strilla:

- Ti ricordi? Ti ricordi?

L’uomo tra le pareti:

- Delle lacrime non basterebbero, per me ci vorrebbe molto di più.

(Svéntrati!).

Le luci al neon, tremanti, appiccicate sotto il tetto del tram. Dopo che passi tutte le tue giornate a passeggiare per le stanze semivuote di uno squallido appartamento, solo, solo come un lupo tisico in mezzo alla neve, quando stai seduto in quel lingotto arancione su rotaie cominci a fissarle quelle luci tremanti . Ti ci perdi.

E allora ti ricongiungi col tuo fottuto nulla.

Incazzarsi non serve a niente. E c’è gente incazzata nera.

C’è gente carica di odio.

E gli bruciano le budella per quanto odia.

Il prossimo anno prenderò un appartamento al piano terra, se sarò ancora vivo.

Bicchieri di trielina brucianti. Sottili lingue di fumo nero ondeggiano verso il soffitto. Le dita tamburellano sul tavolo. Rintocchi frenetici che scandiscono la vittima espiatoria. Ciglia in movimento. Dolori perforanti per tutto il ventre.

Una puzza come di sudore e roba bruciata comincia a sentirsi intorno.

Non mi riesce più di allargare la bocca per ridere. Un disastro.

Un uomo sopra un paio di pantofole verdi in una stanza che odora di vino e di muffa.

- Non ci dovrebbe essere niente da spiegare. Nessun problema.

Eppure... Cazzo sono nella merda!

Gli anfibi neri di Frenz si muovono senza sosta e le suole raccolgono la sporcizia della strada. E’ deserta la strada. Neanche un barbone con la mano tesa.

Solo Frenz che continua a camminare.

C’è un signore che si è appena lavato i denti. Sta seduto sul cesso con lo sguardo nel vuoto.

Ore undici. Telefona il figlio.

-Ventotto.

Cade la linea. A casa tutti entusiasti, questo era l’ultimo esame. A ventitre anni ha finito gli studi di giurisprudenza. Intanto si aspetta che richiami. Le ore passano...né velocemente né lentamente, medie. Alle otto di sera squilla il telefono. La polizia avverte i famigliari che lui è morto. Non aveva ancora dato il concorso per diventare avvocato.

Vuoto. Un capannone vuoto. Un’ex fabbrica. Puoi metterti proprio al centro, con uno spesso strato di polvere che ti circonda i piedi. E cominciare a urlare a squarciagola. Come un ossesso. Puoi sfruttare l’eco, immaginarti i macchinari in funzione che sviluppano ritmi pesanti. In ginocchio. In piedi. Puoi correre fino a star male. Girare su te stesso sempre più velocemente. Così tanto che ti si annebbia la vista. E non ti reggi più in piedi. Ti senti svenire. Ti da fastidio respirare.

Urla! Urla , Cristo! Urla più forte che puoi! Rotolati per terra, scivolando sulla polvere. Litri e litri di lacrime che rendono la polvere una disgustosa poltiglia. Piangi tutto, piangi fortissimo.

Se ti fossi grattato dietro il collo o ti fossi stropicciato gli occhi sarebbe stato lo stesso. Fa finta che non sia vero però.

Prendi a martellate le tue tele. Squarciale. Bruciale. Cagaci sopra. Seppelliscile con i colori più orrendi. A pedate prendile, le tue tele.

Fa finta! ( Ma questo già lo fai ).

Quale sia la verità, il giusto, il miglior comportamento, il più

Divertirsi! Aaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!!

Per dio!

Vai a cagare e senza tirare l’acqua, così senti il puzzo della tua smerdata che ti scende nei polmoni. E cominci a capire le tue cazzate.

Passatempo.

Non riesco più a divertirmi. La mia città pullula di sale giochi.

- No, non sono in vena.

- Ma dai che ci divertiamo.

- Ho detto che non sono in vena. Non ho voglia.

Frenz si appella alla sua disgrazia.

- Basta. Veramente, basta. Non reggo più.

In una pizzeria un cameriere contro una tavolata di sedicenni.

- Basta là di fare casino.

I ragazzi, stramaledettamente felici e spensierati, continuano a ridere, parlare, gridare, tirarsi la roba e quant’altro.

Puoi tenerti sempre in tasca degli antidepressivi, una bottiglia di gin in frigo. Puoi farti gli spinelli con gli amici. Ubriacarti da solo. Prendere l’acido. Eroina. Stricnina. Butano. Ammoniaca. Il piscio del mio cane. Si dai, e guida contro mano, a fari spenti, nella notte. Mangia funghi velenosi. Sfregiati. Sporcati. Vomitati addosso...

Puoi fare questo ed altro, ma é come se ti ritrovassi in un capannone vuoto. Al centro.

Il passato rimane passato e altre affermazioni del tipo ci sono situazioni che non possono essere cambiate sono purtroppo esatte.

Diego, Mario, Devis: tre bottiglie di liquido giallo. Aria ferma intorno ai tre. Grande albero, ombra ristoratrice. Odoroso tappeto verde...e loro ci posano le chiappe. Sorridono, i primi bicchieri causano sempre dolcissimi brividi. Mario si scuote più degli altri, il suo liquido é caldo. Nessuno parla. Solo respiri, sospiri, flebili suoni orali. Diego ora è sdraiato con la testa sull’erba a contemplare le sue palpebre, piste di lancio di interminabili e sconvolgenti viaggi. Stringe sicuro con la mano il collo della sua bottiglia. Cordone ombelicale. Aggancio alla transesperienza rotativa. Diego si alza in piedi e comincia a camminare. Ha la bottiglia nella mano destra. C’è la marea nella bottiglia, il liquido si agita muovendosi tutto insieme. Ogni tanto avvicina la bottiglia alle labbra, allora piega la testa all’indietro. E Devis si tocca lo stomaco allargato. Compiaciuto. Respira l’aria salubre. Gli piace la natura, se la gode più che può.

Ormai le bottiglie sono a metà.

Diego vorrebbe inventare un nuovo linguaggio. Pronuncia parole inventate, senza speranza. Intanto si continua a succhiare liquido giallo. Devis, di tanto in tanto, annusa l’estremità della bottiglia avido di brividi...

Fiore.

Erano le dieci e mezzo quando mi sono svegliato, alle undici ero in piedi. Ho fatto un giro in cucina e mi sono vestito. Sono uscito. Avevo ancora gli occhi semichiusi, lerci di roba dura. L’ascensore era ancora rotto. Per le scale, ogni tre gradini, mi fermavo a grattarmi il culo. Era una specie di rito grattarsi il culo appena uscito di casa, come grattarsi le palle in pigiama, appena alzato. Placare il prurito é una delle poche gioie reali che la vita ti da. Uscito dal palazzo dovetti abbassare la testa. Un lamento impercettibile m’uscì dalla bocca. I raggi del sole , infuocati m’arrivarono in faccia come una scarica di sassi. Andai a sinistra, camminando a testa bassa sull’asfalto fondente.

Un’ondata di volti sorridenti esce dalla grande porta della scuola, limite di separazione tra il mondo dei vivi e l’interno dell’immenso blocco di pietra. Quasi tutti i ragazzi sono euforici, pregustano la felicità, pochi volti sono tristi, e muteranno in breve tempo. Ogni attimo é goduto. Chi all’inizio della giornata era stanco e dolorante ora é elettrico, iperreattivo. Scatti epilettici scandiscono i loro movimenti, attendono, la loro vescica sta per scoppiare. Sono buffi. Pochi di loro sanno che al mattino si sveglieranno con l’amaro in fondo alla lingua.

[riga][su]

Le avventure di Al Cultman, di Alberto Fassina. The New Blues Brothers

immagine: bluesbrothers (da trovare)

alla vecchia Band, perché si divertiva

Beh c’è da dire che questa nuova storia ha a che fare con un’amicizia.

Amicizia tra Cultman, sempre inteso il nostro Al, Al Cultman e gli amici che lui c’aveva alle scuole medie.

Che in quel periodo praticamente stava da solo, fino a che un giorno gli telefona quello che poi sarebbe diventato Beo, e gli telefona per una cosa che adesso non mi ricordo nemmeno, e così poi a scuola si incrociavano, si salutavano e così splendidamente a caso sono diventati amici.

E poi, poi Beo c’aveva questa storia che voleva vedere i Blues Brothers, mica loro loro dal vivo, che non si poteva (povero John)The Blues Brothers il film, che conosceva uno che gli prestava la cassetta.

Ma il problema era che nessuno c’aveva il video, il videoregistratore.

Una storia un po’ così.

E in più c’erano degli altri amici, erano almeno altri tre.

E Beo che dirigeva un po’ le cose si informava se qualcuno aveva la casa libera, che noi, io, lui e gli altri tre dovevano vedere The Blues Brothers perché anche loro avevano una Band, e anche loro lo erano.

In cinque: una vera e bellissima Band.

 

Un giorno si trovarono davanti alla chiesa che Beo aveva preso gli accordi con un tipo di terza media che sarebbero passati a casa sua a vedere il film.

Poi però Al che arriva sempre in ritardo non si è smentito, e così hanno cominciato a vedere il film, però lo hanno anche lasciato a tre quarti tutto quel mega film. Con Elwood e Jake che devono trovare i soldi per l’orfanotrofio, e poi riuniscono la band, e poi devono trovare dove andare a suonare.

Beh il pezzo con Ray Charles li gasava alla grande, non meno però della scena del ristorante, o di quella di quando cantano il tema di Road Hide

Veramente The Blues Brothers era un gran film. Musica, battute demenziali e due personaggi che rimarranno sempre nella storia.

Poi a Beo blues venne questa idea di darsi i nomi come se anche loro fossero una vera Band.

Così Ale si chiamava Jason

Nico diventava Johnny

Renato Jake

Al John

e Beo, Dan.

Non ho mai capito come saltarono fuori questi abbinamento, questi nomi, non ho mai capito perché quattro nomi con l’iniziale uguale e poi Beo che aveva il nome che cominciava con la D.

Ora che avevano i nomi ed erano un bel numero si sentivano uniti, diversi dagli altri, più vicini.

Per la prima volta Al sentiva che aveva degli amici.

Si trovavano davanti alla chiesa, Beo (Dan) faceva dei numeri con la sua bici, tipo che correva poi si buttava per terra e non si faceva mai male.

Poi montavano sulle bici e correvano per le vie mettendo un piede sul telaio, e l’altro sul portapacchi delle loro bici rigorosamente da donna, dicevano che facevano surf.

Hanno fatto surf per tutte le vie del loro paese.

Poi ogni tanto Beo (Dan) correva e si buttava per terra.

Per finire di vedere il film sarà passato quasi un mese, dalla prima volta che lo hanno messo su nel video.

Perché poi non si riuscivano più a trovare tutti e cinque, perché quei due c’avevano il basket, Al il judo, quell’altro le prime seghe, quindi prima di riuscirlo a vedere fino alla fine hanno cambiato si e no almeno altre cinque case e cinque videoregistratori.

Beo (Dan) era un po’ il loro manager, lui conosceva quelli con il videoregistratore, prenotava, una ventina di minuti e poi cercavano di finire di vederlo.

é stato un bellissimo mese quello lì, tra ritardi e risate in casa di persone mai viste.

Al era orgoglioso di portare il nome uguale a quello di Belushi, personaggio che ci ha lasciato nel 1982, e che per loro, loro della New Band non so cosa possa aver rappresentato, ad Al faceva ridere, ma sapere che era morto, così da solo morto di droga lo faceva diventare triste.

Perché poi era amico di Robin Wiliams, che allora ai tempi della scuola media montava sui banchi e si faceva chiamare «capitano». Ricordo che quando Al vedeva Robin lì sopra al banco si emozionava, e sapere che anche lui quella notte si è fatto della stessa droga di John, sapere che si parlavano, sapere che erano amici lo rattristava.

Lo rattristava perché era convinto che l’amicizia può fare grandi cose, può salvare le persone, può sollevare, può aiutare.

E se John e Robin erano tanto amici, amici come lo erano loro cinque della Band, se allora qualcuno di loro si fosse perso, loro della Band con la loro amicizia cosa avrebbero fatto lo avrebbero aiutato?

lo avrebbero salvato?

cosa avrebbero potuto fare?

Quel carnevale Beo ed Al si sono vestiti da coppia in Blues, gli altri tre non sono venuti, e a dire la verità erano sempre un po’ più fuori dalla Band, tipo il surf non sempre lo facevano e a volte chiamavano Beo (Dan) e Al (John) con il loro vero nome, non con quello della New Band.

Ma non importava, alle medie erano un gran bel gruppo, come quei Blues lì che poi sono riusciti a non far demolire l’orfanotrofio.

C’erano anche due ragazze che volevano entrare nella Band, ma loro non lo hanno permesso, perché le ragazze che che se ne dica non sono capaci di divertirsi come gli uomini, le ragazze si fanno troppi problemi, non andavano in giro con le scarpe slacciate e la camicia fuori dai pantaloni.

Le ragazze nella Band non ci dovevano entrare e poi non sapevano nemmeno le frasi del film.

Tutti e cinque ora a distanza di soli otto anni stanno bene, la Band dopo un po’ si è sciolta, Beo quando telefona ad Al recita ancora le frasi di quel mitico film gli dice imitando la voce di quel vecchio del film «E allora Elwood, me l’hai presa quella crema al formaggio?»

e Al imitando John Candy gli risponde «Aranciata? Aranciata?... Tre aranciate!»

Dialogo del cazzo, ma poi ridiano.

Ancora adesso però ad Al viene tristezza se ripensa a Robin e a John che è morto l’amicizia possibile che non sia riuscita a fare nulla?

oltre alla tristezza a ripensare a John

gli viene paura

paura di rimanere solo

e che questa sua amicizia sia inutile.

che se Beo, o chi per lui, si troverà ad avere un problema

Al non sia in grado di fare niente. Al rimanga soltanto a scherzare e a ripetere battute di film mitici.

Al ha paura che quando ci potrà essere veramente bisogno lui non capirà

e la paura rimane

quando pensa anche che potrebbe essere lui da solo a chiedere aiuto

e che nessuno lo possa sentire

o lo possa capire.

Alberto Fassina

[riga][su]

I libri che servono alla professione, di Roberta Schiavon

Il catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani

 

Da cinque mesi sono una consulente previdenziale presso una grossa compagnia di assicurazioni. Il mio lavoro consiste nel ritirare a domicilio i premi mensili e soprattutto nel trovare nuovi nominativi con cui stipulare nuovi contratti di polizza vita.

Secondo me sono la persona meno adatta a vendere, però questo è un lavoro che, per adesso, mi permette di guadagnare qualcosa.

La scorsa settimana l’Ispettore Generale di zona, mi ha dato dal leggere La conclusione professionale delle vendite: i suoi segreti di Jan Seymour: Ho preso in mano con piacere questo bel libro azzurro, l’ho guardato nelle sue varie parti esterne e nel retrocopertina ho letto con gli occhi: «l’abilità di ottenere degli ordini non è soltanto un’arte ma uno stile di vita.» Devo avere fatto una strana faccia e forse l’Ispettore Generale deve essersi accorto che ho riso interiormente perché mi ha detto: Mi raccomando lo legga! e io ho detto che a me piace molto leggere, leggerei quasi sempre, solo che non posso sempre, Ah sì? che cosa legge, Harmony? Blue Moon? No, ho detto io, mi piace molto Kafka, Ah Kafka! Lo sa che era un assicuratore ? Sì, ed è per questo che faccio l’assicuratrice.

Credo di non avere sbagliato a dire questa cosa che è uno scherzo. Quando sono imbarazzata non faccio mai le battute giuste.

Ieri ho letto in La conclusione professionale delle vendite: i suoi segreti. che bisogna avere anzitutto amp: atteggiamento mentale positivo, cioè bisogna avere e conservare entusiasmo, vale a dire vendere innanzi tutto a se stessi . Si deve sviluppare una vera e propria fede nel prodotto, guai a chi non ne è convinto. Il libro suggerisce che si deve, se non si è molto convinti, «ripetere migliaia di volte, ‘Domani farò una vendita’, in questo modo essa si radica nel subconscio e si trasforma in una vera e propria convinzione.» (p.20)

Sembra una stupidaggine, eppure oggi ho fatto una vendita.

Ognivolta che sto per suonare il campanello ad una famiglia per proporre un ottimo prodotto finanziario, me la faccio sotto. Allora prima di scendere dalla macchina mi leggo un giocattolo. Non sono del tutto ruspante: ho anch’io le mie tecniche di vendita. Ho sempre nella valigetta, sotto i dépliant, il discreto e onesto libretto di Sandra Petrignani Il catalogo dei giocattoli , ed. Theoria, lire 20.000. E’ un libro onesto perché è esattamente quello che promette il titolo, però non ha le figure. Un catalogo di fotografie non servirebbe così bene allo scopo, perché lo sfoglierei troppo velocemente e non sentirei con i sensi, per esempio, il pallottoliere o la corda: «Non credevamo che servisse a contare. Le sfere di legno colorate infilate nelle bacchette metalliche venivano fatte girare vorticosamente. Producevano un rumore di motore in avviamento. Sotto al palmo l’arrotolarsi delle biglie era una carezza tenera, un massaggio» (p.81). «La corda è lunga all’incirca due metri. Deve avere manopole in legno sagomato se si vuole provare piacere a stringerle. La forma di birillo affusolato delle impugnature ideali si adatta perfettamente al palmo della mano, la levigata porosità del legno assorbe il sudore mantenendo una temperatura costante» (p.47).

E’ un libro discreto perché non posso portare via tutta la borsa dei giocattoli, e anche se vorrei dire a Sandra Petrignani che questi racconti-descrizioni poteva farli un po’ più lunghi, per poter stare tanto tempo dentro al box, è meglio che siano brevi, come le caramelle tic tac .

Ci sono alcuni momenti che vivo queste letture con un incredibile senso di eroismo e salvezza: prima di andare alle riunioni con tutti i produttori liberi, i secondi produttori, i capi settore, i capi aerea, gli Ispettori di zona e l’Ispettore agenziale, e il Capo Ispettore, devo leggermi almeno 5 o 6 giocattoli (trottola, snodati, flipper, biglie, Ercolino sempre in piedi) per dimenticarmi del senso, del tutto inopportuno, di nausea.

Ho pensieri di questo tipo: sono capace di resistere senza perdermi se ho qualcosa di buono da leggere in borsa. E’ un time-out, allora io mi sento al sicuro.

Nei momenti di (ridicola) disperazione mi sono perfino commossa nell’immergermi in questo mondo segreto.

Mai mostrerei, Il catalogo dei giocattoli, ai miei colleghi di lavoro. Nemmeno al mio capo settore che è un uomo buono perché a lui piacciono le persone. Ho pudore.

Con le polizze vita non si vende niente di sostanziale (nel senso di toccabile) e allora si vende se stessi, che è la migliore cosa che si può vendere, si vende la propria responsabilità, la propria «adultità».

Così ogni volta tradisco i miei possibili assicurati, che non sanno di trovarsi tra le mani una che ha bisogno di essere rassicurata come una bambina, una debole perché inadeguata.

Credo che questo libro sia un buon assicuratore perché ho l’impressione che mi dia la garanzia che non ho perso tutto, e che, in qualche modo, il mio patrimonio è rimasto intatto: posso ancora mantenere «Quella concentrazione assoluta e la furia carnale con cui si amano le cose da piccoli» (p. 94).

Dovrei imparare da questo ‘buon assicuratore’ invece di vergognarmene. Questo libro è uguale a me ed è per questo che mi rassicura. Questo vuol dire che ho vergogna di me stessa : non sono come i miei assicurati, non sono cioè come la maggior parte delle persone.

 

Io credo che non bisogna avere questi pensieri e che questi discorsi che ho appena fatto sono stupidi. Assomiglio a chi dice «il mondo è cattivo e nessuno mi capisce». Fa ridere questo atteggiamento. Se Sandra Petrignani fosse stata così negativa non avrebbe scritto Il catalogo dei giocattoli, e io avrei avuto ancora più paura di essere sola.

Non è vero che sono sola. C’è il mio capo settore che è un uomo giusto. Se faccio questo lavoro è per la sua bontà. Certamente all’Ufficio Centrale si saranno accorti della mia incertezza e lui ha sempre fatto il tifo per me. Si chiama Savio Domenico Damiano, è piccolo di statura, ha la pancia ma non è grosso. Anche se ora non è così, una volta credo abbia avuto baffetti e riccioli rossi. Ha un figlio scout e una moglie con un tono di voce gentile. La cosa migliore sono le guanciotte da orsacchiotto quando mi racconta qualcosa di suo figlio o di quando aveva la moto e andava al cinema. Quando parlo col mio capo settore mi va via la voglia di andare negli aeroporti scandinavi dove - l’ho saputo dal Catalogo - ci sono «grandi monopattini che aspettano i passeggeri e snelli e adulti di tutte le età percorrono i corridoi, spingendo ritmicamente le due ruote con la stessa serietà di chi va a piedi» (p.82). Quando parlo con il mio capo settore tutti questi sogni assurdi si spazzano via e ho subito voglia di andare da probabili assicurandi per stipulare nuove polizze. La realtà mi sembra molto più giusta dei sogni che faccio io. Anche dei giocattoli.

Tutti dicono che gli assicuratori pensano solo ai soldi. E’ vero. C’è questa impressione, perché non hanno mai una stabilità economica. Sono dei mercanti.

C’è l’Ispettore dell’Agenzia Generale, sebbene lavori e sproni moltissimo, che ha tempo di fare anche molte altre cose come i viaggi e occuparsi di letteratura. Me l’ha detto subito, il mio capo settore, che l’Ispettore dell’Agenzia Generale era stato un grande amico di Pasolini, che aveva scritto addirittura delle poesie insieme, e che dice che non è vero che Pasolini era omosessuale. Io se fossi grande amica di qualcuno non mi vergognerei di come è.

Ci sono nella compagnia di assicurazione dove lavoro, alcune persone che una volta militavano in movimenti politici che non avrebbero mai approvato lo stile di pensiero dei venditori di polizze vita. Spiegano queste esperienze fatte in gioventù come il frutto del bisogno adolescenziale di trasgredire. Per questo io appena entrata nell’associazione assicurativa ho pensato: «Traditori!, non avete saputo resistere, a questo paranoica esigenza di vendere. Vi vantate di avere avuto amici scrittori ma in fondo ne provate vergogna: a che cosa vi è servito ascoltare, e opporvi ai vostri genitori e ai vostri paesi, se non siete riusciti a capire che voi non siete il vostro lavoro!». E esaltandomi molto con questo genere di pensieri continuavo a leggere ed ero sempre sul punto di andare dai miei superiori per dare le dimissioni ancor prima di iniziare.

Non sono andata, per fortuna. Anch’io ho provato e provo vergogna per quello che ritengo essere la salvezza della mia persona come leggere e scrivere. E se provo vergogna vuol dire che ho tradito anch’io, non solo gli assicurati, ma anche gli scrittori di cui mi sono innamorata. Credo di aver capito che non devo respingere quelle cose che sembrano farmi del male, perché non sono del tutto maligne. La mia capacità di giudizio può non essere buona.

Per rispetto e ammirazione del mio capo settore questo mese ho l’obbiettivo di fare almeno diciottomila quote. Domani farò una vendita. Devo. Il mio capo settore non vuole che lo si chiami capo settore perché, ha detto, che gli ricorda Kapò, e ha detto che vorrebbe essere considerato più come coordinatore-manager perché un vero capo ha la capacità di decidere sulla vita e la morte della persona. Lui, ha detto, che non vuole mai sentenziare. Io voglio bene al mio capo e voglio bene al mio lavoro. Il mio desiderio è quello di continuare a scrivere e soprattutto a leggere. Sono sicura che il mio capo riuscirà a capire. Secondo me ha capito tutto appena mi ha vista. E’ bello fidarsi di qualcuno.

Roberta Schiavon