Index LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Aprile 1997

Non solo libri (I parte)
Recensioni, schede e notizie

AVVISO AI NAVIGANTI. Gli editori che volessero proporre volumi o riviste per recensione devono inviarli al seguente indirizzo: Nautilus, Ashmultimedia, via Fra' Paolo Sarpi 16, 36100 Vicenza, all'attenzione di Giulio Mozzi.

  • Un libro fondamentale. Harold Bloom, Il canone occidentale: i Libri e le Scuole delle Età, Bompiani, pp. 482, L. 60.000
  • Un altro libro fondamentale. María Zambrano, La confessione come genere letterario, intr. C. Ferrucci, trad. E. Nobili, Bruno Mondadori, pp. 128, L. 10.000
  • Poesia italiana. Ci sono fiori che fioriscono nel buio, antologia della poesia italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di Simone Caltabellota, Francesco Peloso, Stefano Petrocchi, Frassinelli, pp. 306, L. 20.000
  • Un libro azzerante. Mark Leyner, Ehi tu, baby!, trad. Anna Rusconi, Frassinelli, pp. 180, L. 24.500
  • Rap-literatur. Andrea Liberovici, Rap. Testo di Edoardo Sanguineti, cd Fonit Cetra, nfcd 2044, durata 51 minuti, L. 22.000
  • Ungaretti in cd. Omaggio a Ungaretti, con le voci di G. Ungaretti, A. Lupo, G. Sbragia, L. Piccioni, cd Fonit Cetra, cdle 1017, durata 48 minuti, L. 18.000

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Un libro fondamentale. Harold Bloom, Il canone occidentale: i Libri e le Scuole delle Età, trad. Francesco Saba Sardi, Bompiani, pp. 482, L. 60.000

Un grosso libro facile da leggere. Questo Canone occidentale di Harold Bloom è un libro grosso e costoso che qualunque lettore di libri dovrebbe fare lo sforzo di comperare e di leggere. In verità, la lettura non richiede quasi nessuno sforzo: in questo libro la scrittura di Bloom è come non mai corsiva, personale, umorale, bizzosa, polemica, variata. Le quasi cinquecento pagine si leggono, come si diceva una volta, come un romanzo.

Il canone: un’ipotesi di lavoro. Il libro gira attorno a una tesi, che però non è mai presentata come assolutamente vera: è piuttosto un’ipotesi di lavoro. Bloom dice: ci sono delle opere (delle opere, piuttosto che degli scrittori) che dentro la storia della letteratura occidentale hanno assunto un ruolo canonico. Sono opere che hanno introdotto nella letteratura cose che non c’erano prima (ricordiamo l’imperativo di Ezra Pound: make it new, fa’ qualcosa di nuovo), e che hanno successivamente generato altre opere o intere scuole. Sono opere che spesso sono al contempo «finali» (perché inglobano i contenuti morali e formali di un intero periodo) e «iniziali» (perché hanno indicato un cammino sul quale altri, dopo, si sono incamminati).

Come si diventa canonici. Attenzione: Bloom non prende in considerazione la rilevanza storica in senso stretto di queste opere; anzi, il suo atteggiamento è perennemente e polemicamente antistoricistico («io sono un vero critico marxista, seguace di Groucho», p. 462); se queste opere sono diventate «canoniche», dice Bloom, è a causa della loro altissima qualità. In somma, si diventa «canonici» non per meriti storici, ma per meriti «estetici» («ogni forte originalità artistica diviene canonica», p. 22). Il che spiega, ad esempio, come secondo Bloom sia canonico Shakespeare ma non Boccaccio, benché il Decamerone di Boccaccio sia stato un «serbatoio di storie» per tutte le generazioni a venire (e anche per lo stesso Shakespeare).

Fuori i nomi. Nelle pagine cosiddette culturali dei nostri giornali, all’uscita del libro si scatenò una vana polemica: chi è dentro e chi è fuori dal canone, perché ci sono così pochi italiani ecc. - che non è affatto il centro della questione, anzi è un aspetto veramente marginale. I nomi comunque sono ventisei, e sono questi: Shakespeare, Dante, Chaucer, Cervantes, Molière, Montaigne, Milton, Samuel Johnson, Goethe, Wordsworth, Austen, Whitman, Dickinson, Dickens, George Eliot, Tolstoj, Ibsen, Freud, Proust, Joyce, Woolf, Kafka, Borges, Neruda, Pessoa, Beckett. Basta lo stesso sbilanciamento verso la modernità a far vedere che questo canone non può proporsi che come «canone provvisorio», se non addirittura come «canone personale». Ma questo è, appunto, il bello del libro.

Shakespeare & Dante. Al centro del canone occidentale sta, secondo Bloom, Shakespeare; e al suo fianco, un po’ meno al centro, c’è Dante. Essi «costituiscono il centro del Canone perché superano tutti gli altri scrittori occidentali in fatto di acutezza cognitiva, energia linguistica e forza di invenzione» (p. 39): e queste tre categorie Bloom usa di continuo, dichiarate o sottintese, in tutta la sua scorribanda attraverso la nostra storia letteraria. Arrivati a metà libro, diciamo a p. 253, dove leggiamo: «può darsi che Withman, al pari di tutti i grandi scrittori, fosse un accidente della storia», ci rendiamo conto che il gran lavoro di Bloom è appunto quello di farci sentire che i grandi scrittori non sono affatto degli «accidenti della storia», ma sono invece i «produttori della storia». A costruire il canone «non sono né critici né accademie, e tanto meno politici. Sono scrittori, artisti, compositori a stabilire canoni, gettando ponti tra forti precursori e forti successori» (p. 463). Si potrebbe dire che una categoria critica «sommersa», costantemente usata da Bloom, è quella della «vitalità»: sono canonici quegli autori che a distanza di decenni o di secoli risultano ancora vivi, che «il mondo non è disposto a lasciar morire» (p. 16); quegli autori con i quali lo scrittore d’oggi sente di non poter fare a meno di confrontarsi (e, ad esempio, tutto il capitolo su Joyce è giocato come una sorta di competizione, o «agone», tra Joyce e Shakespeare).

Influenza, influenza! L’effetto che Canone occidentale produce sul lettore è questo: che si comincia a pensare alla letteratura come a una specie di lotta tra scrittori; una lotta nella quale appaiono ogni tanto dei combattenti formidabili, assolutamente invincibili, contro i quali tuttavia i più giovani si scagliano cercando, ad un tempo, di imitarli e di capovolgerli, di inglobarli e di negarli. A questo punto, uno rilegge una pagina di Joyce e «ci sente» dentro tutto lo Shakespeare che c’è; dopo di che, se non ha letto bene Shakespeare, gli vengono un mucchio di sensi di colpa e corre subito a leggerlo. In un certo senso, Canone occidentale è un libro speculare al classico Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (ed. italiana a cura di Roberto Antonelli, La Nuova Italia, 1992 [ed. or. 1948], pp. 727, L. 75.000; Bloom lo cita ripetutamente e considera Curtius «il più eminente dei moderni critici letterari tedeschi», p. 183): Curtius ha rintracciato gli elementi di continuità in alcuni secoli della letteratura occidentale, analizzando filologicamente le trasformazioni di determinati tropi, immagini, personaggi ecc. attraverso le epoche e gli scrittori; Bloom ricostruisce una sua personale storia della letteratura attraverso l’influenza reciproca tra gli scrittori, giungendo a definire «canonici» quegli scrittori che, in termini appunto di influenza, risultano aver più dato e meno ricevuto.

Abbiamo da ridire. I refusi sono sempre spiacevoli, ma in un testo di studio diventano intollerabili. E questo libro ne è pieno.

Harold Bloom, nato a New York nel 1930, è considerato uno dei maggiori critici letterari degli Stati Uniti d’America. Tra i suoi libri più importanti ricordiamo almeno L’angoscia dell’influenza: una teoria della poesia (1973; trad. it. di Mario Diacono, Feltrinelli 1983, pp. 167, L. 19.000), nel quale è già ampiamente impostato quel modo di leggere la [storia della] letteratura esemplificato in Canone occidentale. Bloom non si occupa solo di letteratura: è molto interessante, ad esempio, il suo libro La religione americana: l’avvento della nazione post-cristiana (1992; trad. it. Serena Lauzi, Garzanti 1994, pp. 344, L. 38.000).


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Un altro libro fondamentale. María Zambrano, La confessione come genere letterario, intr. Carlo Ferrucci, trad. Eliana Nobili, Bruno Mondadori, pp. 128, L. 10.000

Innanzitutto: questo piccolo saggio di María Zambrano [della quale abbiamo recensito Verso un sapere dell’anima in Nautilus novembre 1996] non è un saggio sui generi letterari così come comunemente intesi. «Ciò che differenzia tra loro i generi letterari è la necessità della vita che li ha originati. Non si scrive certamente per esigenze letterarie, ma per l’esigenza che ha la vita di esprimersi» (p. 40). Basta questo per affrontare la confessione, intesa come genere letterario, da un punto di vista che è tutto fuorché letterario. «E’ Giobbe l’antenato della confessione, e dir Giobbe è come dire lamento: è il lamento. (...) Questa è la confessione: parola a viva voce. Tutta la confessione è parlata, è una lunga conversazione e ha la stessa durata di quella reale» (p. 41). Distinguendola dal romanzo e dalla poesia, Zambrano dice che «la confessione è il linguaggio di qualcuno che non ha annullato la sua condizione di soggetto; è il linguaggio del soggetto in quanto tale. (...) E’ un atto in cui il soggetto si rivela a se stesso perché ha orrore del suo essere a metà e confuso» (p. 43). «La confessione comincia sempre con una fuga da sé. parte da una situazione di disperazione. (...) Tale disperazione, prima di essere espressa come confessione nel modo in cui la intendiamo, ovverosia come fuga da sé ed espressione di una qualche colpa, di un io che si vuole allontanare, prima di ciò la confessione è soltanto lamento, puro e semplice lamento» (p. 46). Parte da queste definizioni il breve e denso percorso critico, che dopo gli accenni a Giobbe affronta essenzialmente le Confessioni di sant’Agostino e quelle di Rousseau. Zambrano ci parla della confessione, e cioè di un atto sostanzialmente non letterario ma compiuto con i mezzi della letteratura, o per meglio dire della scrittura, come di un tentativo di attingere la verità; ne parla perciò con il linguaggio della filosofia, benché la confessione rappresenti un «cammino di salvezza profondamente distinto da quello filosofico» (p. 55). E il senso di tale cammino è, alla fin fine, quello di ricostituire l’unità di un soggetto che, prima della confessione, si sente come estraneo a sé stesso: questo soggetto, una volta ricostituito, potrà poi agire come soggetto conoscente, cioè darsi alla filosofia. La confessione diventa quindi un modo per fondare una ricerca della verità, un modo per fondare la filosofia. L’innesto nel soggetto (che, ricorda Zambrano, mentre si sente estraneo a sé stesso, tuttavia è già soggetto) di un «centro interiore» fa sì che «il mondo di delirio acquisti una forma e un ordine», e che «le viscere dolenti e rancorose finiscano di diventare di qualcuno, di un essere che le ospita», in «una forma di possesso senza comando né comandato, poiché si tratta di unire ciò che al congiungersi formerà un solo essere» (p. 108). Il curioso è che, probabilmente, questo pensiero che ci pare così alto, drammatico e commovente, alle orecchie di certi letterati non potrebbe suonare che come una sorta di difesa della cattiva letteratura. Siamo in un periodo di estetismo spinto, ed è ambizione di molti trovare alla letteratura (così come alle arti) un fondamento nella letteratura stessa. Zambrano (e questa è la meno importante delle cose che fa) ci ricorda che il fondamento della letteratura, o di qualunque cosa si faccia con i mezzi della letteratura, è semplicemente nella necessità della vita.


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Poesia italiana. Ci sono fiori che fioriscono nel buio, antologia della poesia italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di Simone Caltabellota, Francesco Peloso, Stefano Petrocchi, Frassinelli, pp. 306, L. 20.000

Tempo di antologie, per la nuova poesia italiana [vedi le recensioni a Roberto Galaverni, Nuovi poeti italiani contemporanei, Nautilus ottobre 1996, e Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, Nautilus dicembre 1996]. Quest’ultima è un po’ strana e curiosa e non è priva di meriti. Un merito è l’economicità relativa (65 lire a pagina); un altro merito è la scansione per decenni (anni Settanta, Ottanta, Novanta); altro merito infine l’inclusione massiccia di poeti-narratori (o narratori-poeti), come Edoardo Albinati, Attilio Bertolucci, Primo Levi, Ottiero Ottieri, Elio Pagliarani. La scansione per decenni permette di accostare l’estrema produzione dei «grandi vecchi» a quella dei più giovani: negli anni Settanta Montale sta a fianco di De Angelis, negli anni Ottanta Luzi e Zanzotto stanno accanto a Magrelli e Salvia, negli anni Novanta Fortini sta accanto a Damiani. E giustamente l’antologia si chiude con Alda Merini che, benché attiva fin dagli anni Cinquanta, ha solo negli ultimi due-tre anni trovato un suo vero pubblico. Fin qui tutto bene. Bene anche che, tra gli autori più giovani (ma i poeti tendono ad essere «giovani» fin verso la cinquantina) siano emersi Scartaghiande e Damiani (quest’ultimo soprattutto dovrebbe essere considerato ormai un valore acquisito); e bene che sia stato antologizzato Tonino Guerra, tanto famoso come sceneggiatore (per Fellini ed altri) quanto poco noto come poeta. In somma, questa ci pare un’antologia compilata tenendo presenti sia le ragioni della storia sia quelle del gusto, e relativamente libera dagli obblighi di salotto e di consorteria. A diminuire (in misura sensibile) la qualità del lavoro sta una certa sciatteria editoriale (forse inevitabile, per un editore come Frassinelli) e l’ambiguità tra la destinazione popolare e la destinazione scolastica dell’antologia (che è inclusa in un «progetto didattico sulla poesia per la scuola secondaria», curato dalla Fondazione Bellonci (quella del premio Strega) per conto del ministero della Pubblica Istruzione. C’è una certa superfetazione di testi di contorno alle poesie che può dare un po’ fastidio: se per Zanzotto ci sono 44 righe di contorno per 86 versi (51%), per Caproni ci sono 37 righe di contorno per 57 versi (65%), e per Magrelli (poeta chiaro come ce n’è pochi) addirittura 65 righe di contorno per 62 versi (105%). Fa un po’ impressione che la divulgazione della poesia oscilli continuamente tra la proposta del testo nudo e crudo (come nei Miti mondadoriani o nei supereconomici delle Newton, corredati appena di un’introduzione) e la sottomissione della poesia al commento. Per finire, si spera che non sia stato scelto dai curatori l’orribile titolo, orribile non in sé (sarà una citazione, ma non l’abbiamo riconosciuta) ma per l’ideologia alla quale, così decontestualizzato, ci sembra alludere.


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Un libro azzerante. Mark Leyner, Ehi tu, baby!, trad. Anna Rusconi, Frassinelli, pp. 180, L. 24.500

Devo dire che la copertina di Ehi tu, Baby! mi piace molto. Il nuovo romanzo di Mark Leyner è dunque giunto anche nella nostra penisola, edito (come i racconti di Mio cugino, il mio gastroenterologo) da Frassinelli. E la copertina mi piace molto. Semplice, un po’ cyber, un po’ corinzia (non chiedetemi perché), un po’ minestrina. E il romanzo?

Potrei esordire dicendo che i racconti del libro sopracitato mi avevano colpito molto di più. Potrei concordare concordando con quelli che dicono che il linguaggio di Mark Leyner è l’invenzione di fine secolo, nel senso che si presenta come una voce unica e veramente innovativa. Sarebbe tutto vero. Leyner è bravissimo, perché riesce a costruire un romanzo in cui non ha nessun limite da rispettare, può sfrecciare a Mach 9 tra le pagine, può incensarsi, può uccidere, lavarsi i denti, sniffare l’alito mattutino di Lincoln, ricomporre la realtà inseminandola della struttura paramilitare del Team Leyner, organizzazione sorta come una religione commerciale attorno alla carismatica figura del suo capo spirituale, che è ovviamente Leyner stesso.

Leyner crea un mondo che lentamente prende il sopravvento su di lui e lo fa sparire, lasciando la sua organizzazione (o meglio, le sue iniziative didattico-commerciali) come testimonianza eterna di ciò che era riuscito a diventare un semplice scrittore. E inoltre, nel libro, manca un pezzo di libro, confiscato da «agenti federali autorizzati dalla Legge sulla Confisca Punitiva».

Tutto questo è forte. Tutto questo è Mark Leyner, sia in versione reale che in versione biografico-letteraria. e penso che Leyner sia un autore da leggere almeno una volta nella vita. Ma questo autore ha anche, secondo me, dei limiti ben precisi. Sorvolo sul fatto che Ehi tu, baby! non mi convinca del tutto nell’insieme della sua narrazione a volte zoppicante. Perché questo può dipendere dal fatto che Leyner riesca più facilmente a tenere il suo linguaggio su livelli altamente anfetaminici nello spazio breve di un racconto, o da fattori mutageni del mio cervello. Non sorvolo invece su un fatto che ho ben chiaro in testa. Entrambi i libri che ho letto di Mark Leyner mi hanno, in certi passaggi, divertito. Ma quando li ho chiusi ho sentito un grande vuoto in testa. Tutto il vortice di Leyner mi ha azzerato per qualche secondo, e quando tutto è tornato normale, nessuna traccia del libro era rimasta in me. Sia chiaro che questo non è un giudizio, ma una semplice constatazione. Sia chiaro che chi riesce ad azzerarmi per qualche secondo avrà sempre, se non la mia stima assoluta, la mia attenzione assoluta. [su Mark Leyner vedi anche «Mentre Lou Reed si appisola», in Nautilus dicembre 1996] (simone battig)


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Rap-literatur. Andrea Liberovici, Rap. Testo di Edoardo Sanguineti, cd Fonit Cetra, nfcd 2044, durata 51 minuti, L. 22.000

Per i molti ai quali non è stato possibile vedere lo spettacolo, ecco il cd di questo curioso Rap di Andrea Liberovici e Edoardo Sanguineti: che non è un vero e proprio rap quasi mai, se non in certi interventi corali («Adesso ti dico che l’ho visto / subito») o nell’episodio «Maledetto sia il muto maccheronico». Nel libretto allegato al cd, un intelligente testo di Michele Mannucci indica quelli che, purtroppo, ci sembrano più le aspirazioni che non gli esiti dell’impresa: «La poesia di Sanguineti è molto simile alla poesia del rap. Una sorta di inarrestabile glossolalia in cui segmenti metrici definiti ed affermati con forza si sommano creando una singolare struttura ritmica basata sulla ripetizione, sulla variazione lieve della parola e del senso, mantenendo regolare il timbro, il suono della parola soltanto per poco diversa. (...) Così, dalla rima e dal suo ritmo la musica riceve l’ordine. (...) Nella circolarità spesso ripetitiva della poesia Liberovici ha trovato la disponibilità ideale per un uso non imitativo dei segmenti "minimali", i quali vengono qui utilizzati sia per il loro valore teatrale, come a esempio certe frasi del quartetto d’archi cariche di memoria drammatica, sia per la loro possibilità di ricorrere spaziando il ritmo in lunghezze diverse, però segnate dalle medesime cesure metriche.»

Tolto dalla scena (dove ha goduto di un meritato successo), Rap mostra tutti i suoi limiti: composto da una serie di racconti di sogni, spezzettati e ricombinati, manca di «spinta agogica» e si fa ascoltare con una certa fatica. Gli episodi più musicali si configurano appunto come «episodi»; si stenta a percepire l’unità della composizione, poiché gli episodi sono ciascuno caratterizzato da una unica scelta recitativa e/o musicale, così che l’effetto è sempre di una certa piattezza: non è più teatro, e non è ancora musica; tra l’altro, quasi tutta la musica presente ha il sapore della citazione, dagli stessi passaggi rap ai rapidi e «segnaletici» interventi degli archi, fino all’episodio «buca buca» che ricorda curiosamente Fabio Concato. In qualche caso, poi, abbiamo l’impressione di assistere alla resuscitazione di qualche cadavere degli anni Settanta: come nell’episodio corale «Ma la faccia molto brutta», collage di suoni prodotti con la bocca (dai colpi di tosse ai bleah!) che produce un incongruo e inaccettabile effetto Supergulp (diciamo che dopo le composizioni di Luciano Berio per Cathy Berberian, o A-Ronne dello stesso Berio, sempre su testo di Sanguineti, sembra che questa via di ricerca sia esaurita). Ciò detto, va dato atto della parziale riuscita dell’operazione e del coraggio dimostrato tanto da Liberovici quanto da Sanguineti, che sembra (oggi) l’unico poeta italiano capace di progettare e agire fuori dell’oggetto-libro. Provvedimenti disciplinari andrebbero presi contro la persona che ha deciso di inserire nel libretto, anziché una fotografia, una caricatura di Sanguineti tra le più brutte che si siano mai viste.

Tutti i nomi. Musica di Andrea Liberovici. Testo di Edoardo Sanguineti. Interpreti: Ottavia Fusco e Andrea Liberovici. Voce «fuori campo» Enrico Ghezzi. Viola, violoncello, Basso, Programmazione computer, Cori: Andrea Liberovici. Tromba vocale: Renzo Spinetti. Chitarre: Massimo Malatesta. Percussioni: Marzio Narcisi. Cori: Franci Pope e Luca Valerio. Tecnico del suono: Carlo Sala. Registrazione: H.s.h. Studio, Genova, febbraio 1996. Mix: Studio Metropolis, Milano. Edizioni: Nuova Fonit Cetra.


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Ungaretti in cd. Omaggio a Ungaretti, a cura di Leone Piccioni, con le voci di Giuseppe Ungaretti, Alberto Lupo, Giancarlo Sbragia, Leone Piccioni. cd Fonit Cetra, cdle 1017, durata 48 minuti, L. 18.000 (aad, mono)

E’ una gioia e un peccato l’uscita di questo cd, diciassettesimo della collana «Antologia sonora» diretta da Folco Portinari, che raccoglie vario materiale già racconto dallo stesso Portinari per la vecchia collana (in vinile) «Documento». E’ una gioia perché è davvero un’emozione sentire la voce di Giuseppe Ungaretti; è una delusione perché la voce di Ungaretti si sente per circa dodici minuti, e poi subito si precipita in Alberto Lupo. Non che la lettura di Lupo, benché convenzionale, sia cattiva: il fatto è che (come ricorda anche Piccioni nel libretto allegato al cd) Ungaretti ha registrato e inciso moltissimo: e magari si poteva salvare qualcosa di più che dodici minuti in tutto. Belle comunque le letture di Sbragia, e molto bella, anche per il sottinteso affetto (e per il ricordo di Vinicius de Moraes), la lettura-conversazione di Piccioni. Inopportune invece le «introduzioni» inserite qui e là: testi che potevano stare tranquillamente nel libretto. Ottima la scelta di pubblicare sempre nel libretto i testi integrali, anche quando vengono letti solo stralci o strofe isolate. Infame la grafica di copertina (questo vale per tutta la collana) mentre l’interno del libretto, illustrato con piccoli particolari da un quadro di Ottone Rosai, è tutto sommato bello.

Che cosa c’è. Lette da Ungaretti: Sono una creatura, Inno alla morte, La madre, Caino, La morte meditata: Canto V, Senza più peso, Defunti su montagne, E’ dietro, Segreto del poeta. Lette da Lupo: Il porto sepolto, Girovago, Alla noia, Fine di Crono, Ultimo quarto, Dove la luce, La preghiera, Cori ii, vii e x dai Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, Cori vii, ix, xiii, xxii, xxvii da Ultimi cori per la Terra Promessa. Lette da Sbragia: I fiumi, Lucca, Giorno per giorno, Tu ti spezzasti, Non gridare più. Lette da Piccioni: Stella, Dono, La conchiglia, Il lampo della bocca, Dunja.