Febbraio 1997

E la Lambretta sconfisse la Patria

Improvvisamente, davanti a leghe, Padanie e secessioni, si riscopre almeno a parole il nazionalismo e si riparla dell’Italia unita come si faceva ai tempi di De Amicis. Ma in realtà quando il Bel Paese ha iniziato a perdere le sue antiche radici rurali? Lo storico Emilio Franzina riassume quel passaggio cruciale, dagli anni ’50 al 1970. Perché fu in quel momento che gli italiani tutti casa-chiesa e campi decisero che il modello vincente e da imitare era quello americano

In questi ultimi anni sono stati in molti ad accorrere al capezzale dell’Italia in crisi. Ognuno con la sua ricetta e non pochi con l’ambizione , dichiarata, di rifarle i connotati. La terminologia pugilistica, ovviamente, si adatta meglio a coloro che intendono disfarla, l’Italia, o con secessioni o con stravolgimenti costituzionali su cui, altrettanto ovviamente , ognuno è poi libero di mantenere un proprio punto di vista. Quello mio è piuttosto critico se non altro vista la gran confusione che mi sembra regnare, purtroppo, nella testa di troppi italiani. Confusione e, bisognerebbe aggiungere, smemoratezza le quali insieme conducono a singolari forme di amnesia rispetto alle cause reali del disorientamento nazionale.

Perché si sia arrivati a questo punto, però, non è difficile da ricordare. L’emergenza degli scandali riassunti sotto il nome, ormai vulgato e accettato, di "tangentopoli" ha siglato, secondo i più, la fine della "prima Repubblica" e , di conseguenza, l’avvio di un nuovo ciclo nel quale sarebbe lecito e anzi, in un certo senso, doveroso e inevitabile interrogarsi con scetticismo sull’identità dell’Italia e degli italiani.

Fin qui , magari stando attenti a commutare lo scetticismo con una semplice attitudine guardinga, siamo d’accordo. Anche il proliferare di studi e studioli sulla nazione e sulla patria potrebbe, al limite, starci bene. Ma da La morte della patria di Ernesto Galli della Loggia alla circumnavigazione di una "idea controversa", ancora e sempre quella di Patria, di Silvio Lanaro , due libri comparsi l’anno scorso rispettivamente presso il Mulino di Bologna e presso Marsilio a Venezia, per non parlare dell’accumulo di titoli successivi (fra cui meritano una segnalazione e più di qualche riserva il reader curato da Sergio Bertelli su La chioma della vittoria, per i tipi fiorentini di Ponte alle Grazie e il saggio su "ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo" di Emilio Gentile intitolato da Mondadori La grande Italia, usciti entrambi sul finire di gennaio del 1997), pare proprio che si stia snodando un dibattito fra il teorico e l’ideologico non privo di rischi. Il maggiore di questi rischi, a mio avviso, consiste nel pericolo, sempre in agguato ,di perdere di vista alcuni dati materiali che devono essere rintracciati, comunque la si pensi e comunque la si veda (la patria, l’idea di patria, la nazione, la mitologia nazionalista ecc.) , più che nella storia remota, nella storia recente del bel paese.

Faccio fatica anch’io, come si vede ,a utilizzare il nome quantunque scriva nel giorno della sfida calcistica di Wembley fra le nazionali d’Italia e Inghilterra. E sì che questo del patriottismo calcistico è stato, negli ultimi cinquant’anni, il più resistente e il meno criticato o discusso fra tutti i patriottismi possibili nella penisola. Ciononostante si assiste al paradosso di una "voglia" d’identità italiana che ultimamente, secessionismi e autonomismi fiscali a parte, sta montando come la panna, quanto meno sui media. Tant’è vero che si squaderna non di rado in servizi giornalistici e in programmi televisivi d’indubbio successo (cos’altro sono le stesse carrellate nostalgiche di Carramba alla Rai o le ben più sadiche trasmissioni sugli "italiani nel mondo" di Mediaset tuttora in onda al sabato sera sui canali del cavalier Berlusconi?). Insomma un insieme di domande e di interrogativi persino ingenui sull’Italia c’è , ma stenta ancora a fare i conti con gli anni che ci stanno immediatamente alle spalle.

Sia chiaro che non sto alludendo allo sfondo degli anni settanta prediletto, in Tv, dal duo Fazio-Baglioni per il loro programma nostalgico "Anima mia" (anche se bisognerà prima o poi riflettere sul paradosso di un mondo pervaso da rimpianti e da revival di questo tipo, ma ferocemente restio a inquadrarli, come occorrerebbe, nella loro giusta cornice storica e a interrogarsi seriamente sul loro significato). Il periodo che importa analizzare è un altro. Quand’è infatti che l’Italia è davvero cambiata, quando si è "modernizzata" , molto americanizzandosi, così da perdere i contatti con la tradizione aulica e letteraria che le era propria e che aveva retto, assieme certo a una buona dose di sciagurato nazionalismo deteriore (da D’Annunzio al fascismo), tutto il peso di una costruzione venuta su nel tempo, dopo l’unità del 1861, col sostegno di gran parte del mondo intellettuale, De Amicis in testa, della penisola che il mar circonda e l’Alpe ?

Forse e senza forse ciò è avvenuto precisamente dopo l’ultima guerra e in particolare nel corso degli anni compresi fra quello mediano del secolo, l’anno santo per antonomasia ossia il 1950, e l’inizio della protesta giovanile e della contestazione studentesca e operaia dei favolosi (non solo per Minà e Veltroni) anni sessanta. Italia mia benchè il parlar sia indarno o, ancora di più, Bella Italia amate sponde hanno cominciato allora, assieme a una infinità d’altri versi famosi, a deperire e ad essere sentiti come veri reperti archeologici , emblematici semmai di un’età ormai trascorsa che non a caso finiva per pigliar dentro tutto: il medioevo comunale, i fasti rinascimentali, i fermenti illuministici settecenteschi, ma anche il Risorgimento e l’intero periodo post-unitario liberale e, perché no?, fascista. Vero è che la memoria e la pratica, anche istituzionale, dell’antifascismo repubblicano rimasero bene o male in vigore nei vent’anni scarsi di cui vorrei occuparmi adesso, ma è altrettanto vero che essi sono passati alla storia (e, in parte, alla dimenticanza coatta di tanti italiani) come gli anni del boom.

Il "miracolo economico", primo di una serie minore ma unico, di quelle proporzioni, ad offrirci la chiave giusta di lettura per comprendere le odierne ambasce dell’italianità in crisi, si svolse all’insegna della massima repentinità. Nel giro di pochissimi anni, infatti, un paese rimasto a lungo, pur con le sue brave isole di modernità e d’industrialismo, sostanzialmente agrario ed anzi contadino, conobbe la più rapida e radicale delle trasformazioni gettando al vento qualche occasione di troppo per viverla conservando traccia del passato secolare di cui invece si sbarazzava con gioia o da cui si emancipava troppo in fretta. Le culture e le identità che subirono allora lo stravolgimento destinato in seguito a modellarci un po’ tutti comprendevano, nonostante la loro messa in discussione durante il periodo di Salò ch’era pur stato di "guerra civile" e quindi di fronteggiamento fra ben due idee di patria italiana, anche la nozione stessa di appartenenza all’Italia. Essa passava in sottordine o sfumava in secondo piano proprio mentre se ne sarebbero potute cogliere molte potenzialità nuove. Sotto la spinta delle migrazioni interne, ad esempio, sarebbe stato possibile , superati gli ostacoli delle reciproche e terribili diffidenze iniziali, costruire una unità nuova e ben più resistente di quella inseguita e garantita solo a tratti, in precedenza, da altri tipi di amalgama demografico-territoriale (quali il servizio di leva, la mobilità nei ranghi della pubblica amministrazione, le guerre persino ecc.)

Prevalse invece il peso di condizionamenti diversi accolti peraltro quasi tutti , sempre all’inizio intendo, con soddisfazione pressochè infantile. Con il consumismo di massa e con il miraggio connesso di benessere e di standard medi di vita occidentale, in buona parte raggiunti già alle soglie degli anni sessanta, l’Italia cambiava lì, per la prima volta , i suoi connotati più profondi tenendo conto dei quali aveva operato sin lì l’idea tradizionale di patria italiana sicchè non sembra inutile tornarci sopra con l’aiuto dei lavori di ricerca che ultimamente si sono venuti moltiplicando in campo soprattutto storiografico. Forse essi sono meno noti al grande pubblico di quanto non risultino le polemiche attualizzanti degli esegeti dell’idea di patria in sé, ma non sarà male prenderli in esame per quello che ci raccontano di noi stessi, di come eravamo e di come siamo diventati attraverso un processo quasi torrentizio di mutazione.

Sfogliando le pagine di libri freschi di stampa come la Breve storia dell’Italia settentrionale dall’ottocento a oggi di Marco Meriggi (dove una parte cospicua è dedicata appunto al ventennio 1950-1970) o come la Storia del miracolo italiano (Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta), di Guido Crainz , pubblicati entrambi dall’editore romano Carmine Donzelli nel gennaio di questo 1997, riesce più facile mettere a fuoco la natura e le ragioni del mutamento che ha investito il nostro paese sino al punto di consegnarlo indifeso o disarmato alle malversazioni, non solo dei politici ,bensì pure della mitizzata "società civile", del ventennio successivo, quello appunto della crisi. Si tratta di due guide alla lettura degli anni cinquanta e sessanta, va detto prima di tutto, godibilissime e alla portata di chiunque. Con linguaggio piano e non beceramente giornalistico,

Meriggi e Crainz ci narrano le tappe e spesso anche i retroscena della grande trasformazione segnalando, ciascuno, particolari e dati di fatto difficili da smentire, e tuttavia facili da dimenticare. Nel nostro ricordo e talora nel nostro rimpianto c’era spazio a proposito di quegli anni per tanti dettagli che, ricomposti qui , ora si capiscono meglio. I nostri mobili, poveri magari, ma di fattura artigianale e dotata di senso - quelli che in molti sostituimmo vergognosi dell’antica indigenza, con la plastica e con la formica che faceva molto moderno - i nostri mezzi limitati di locomozione - quelli che abbandonammo o che caddero in provvisoria desuetudine dalle biciclette ai motorini - convertiti in veicoli di largo e larghissimo uso - dalle vespe e dalle lambrette alle seicento e alle altre utilitarie soprattutto della Fiat - le nostre vecchie abitazioni nei centri storici e nei paesi - disertate e snobbate per inseguire il sogno del comfort edilizio erroneamente individuato negli appartamenti di mezza periferia o nelle orrende villette suburbane ideate da schiere di capimastri e geometri di cospicua ignoranza - e insomma tutte le cose che ci rammentavano quello che eravamo stati entrarono a far parte del tourbillon , più che del turn over, di costumi e di usi che si trascinò appresso l’offuscamento dei sensi d’identità tradizionali.

Smettemmo allora di essere ruraleggianti, ma anche di sentirci scolasticamente italiani nell’idea che accostandoci al modello vincente, quello americano, si potesse realizzare una catarsi collettiva e, con essa, la facile rimozione di problemi che invece continuavano a sussistere e che anzi si stavano facendo più gravi.

Emilio Franzina