Febbraio 1997

ALL’ANIMA...

Il nuovo spettacolo di Fazio non esce da se stesso e tende ad autoreferenziarsi ed il povero Brosio fa spettacolo più per le sue disavventure e per le prove estreme a cui è sottoposto che per quello che riesce ad esprimere.

C'è qualcosa di inquietante in "Anima mia", spettacolo condotto da Fabio Fazio e Claudio Baglioni al venerdì su RAIDUE e lanciato con gran battage giornalistico e pubblicitario come rara forma di "varietà intelligente". Ma non è il famoso problema del cretese bugiardo (è intelligente chi ha bisogno di definirsi tale?) né il bieco sfruttamento della nostalgia a fini televisivi che ormai accomuna trasversalmente parecchie creature del palinsesto (e non sono nostalgici in fondo anche quanti ancor oggi seguono Baudo o Mike Bongiorno?). E neppure il fatto che Fazio e suoi autori (non so se questo termine gli offenderà) ricordino degli anni '70 solo gli aspetti e i personaggi più patetico-burini (eppure c'erano anche Rino Gaetano, il punk, Demetrio Stratos - tanto per dire i primi che mi vengono in mente).
No, l'aspetto più inquietante è l'assoluta claustrofobia - per dirla in termini più aulici, la totale autoreferenzialità che emana dallo spettacolo. L'ideologia dello spettacolo di Fazio discende certo da quello dei vari Costanzi, per cui si può trasformare qualunque nullità in un fenomeno da baraccone, ma l'applicazione che se ne fa tra "Quelli che il calcio..." e "Anima mia" (che poi, diciamo la verità, a volerla far breve non è che una "Quelli che il calcio..." con più ospiti e più caos e senza nemmeno il calcio a confortare gli spettatori) è ancor più agghiacciante. Se infatti i suoi maestri pescano ancora dalla 'realtà' per acchiappare i loro pezzi da esposizione, Fazio e i suoi lesti autori li pescano direttamente dal mondo dello spettacolo e preferibilmente dallo spettacolo televisivo. Il resto è tutto un circolo vizioso di ammiccamenti e risolini: "Guarda, Baglioni che canta Heidi" "Ma va, chi avrebbe mai detto che quello che cantava con Pippo Franco era lo stesso che poi..." Così si scopre che Emilio Fede, all'epoca direttore del TG1, aveva interrotto le premiazioni di Sanremo, che la Raffai prima di dar la caccia ai dispersi faceva la press agent di Baglioni e che tizio era il figlio di caio quello della pubblicità della carta igienica. In questo tourbillon sfiancante di ospiti e ospitati, l'unica certezza che resta alla fine allo spettatore è che lo spettacolo in Italia - in modo del tutto simile alla politica - sia governato da una casta eterna e autoriproducentesi. Per accedere alla quale il parvenu di turno (ultimamente è Brosio la cavia favorita del giovane Fazio) deve superare immani prove di resistenza fisica mentre la mamma lo osserva in apprensione e i nobili veri o presunti (Emanuele di Savoia, spalla fissa di Idris in uno dei migliori esempi di goliardia buonista dell'ultimo secolo) lo sfottono divertiti. Hai voglia spacciarla per televisione alternativa, questo è puro effetto Vermicino: si mette un disgraziato in un buco e poi si sta a vedere come se la cava, come Castagna quando imbroglia i suoi innamorati per vederli piangere. Solo che né a lui né ad altri passa per la mente di definirsi intelligenti. Una certezza ho detto, resta allo spettatore, ma anche un sospetto. Che per dire "sei un mito" a chiunque sia inquadrato dalla telecamera bastassero gli 883. Oppure Gianni Minà, tanto - ne sono certo- a guardar bene anche negli anni '70 c'era un po' dei favolosi anni '60.

Ambrose Trotter