a cura di Giulio Mozzi - febbraio 1997

Letture

Le ragioni dello scrivere, oggi. Parlano i nuovi narratori italiani

Paesaggi italiani, Fermo

Un folto gruppo di narratori e di critici italiani si sono incontrati nel dicembre scorso a Fermo, nel contesto dell’iniziativa culturale Paesaggi italiani, per confrontarsi sulle ragioni dello scrivere. Gli scrittori presenti erano Silvia Ballestra, Romolo Bugaro, Andrea Carraro, Mauro Covacich, Angelo Ferracuti, Roberto Ferrucci, Marco Franzoso, Giulio Mozzi, Claudio Piersanti, Gilberto Severini, Alessandro Tamburini; i critici Andrea Cavalletti, Filippo La Porta e Massimo Raffaeli (collaboratori del manifesto), Fulvio Panzeri (collaboratore dell’Avvenire), Piero Pedace (della rivista Omero), Silvio Perrella (collaboratore dell’Unità), Piero Spirito (del Piccolo di Trieste).

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Angelo Ferracuti: "Far emergere le verità morali"

"L’idea del convegno", spiega Angelo Ferracuti, organizzatore e anima di Paesaggi italiani, "è scaturita dal disagio nei confronti di un dibattito culturale ormai troppo giocato sul lato spettacolare. Volevamo recuperare la profondità e il senso compiuto delle posizioni in campo. Invitare a dichiararsi, a riferire la propria idea di letteratura, ci era sembrata una provocazione capace di produrre comunque discussioni, di far emergere le come le chiamava Bilenchi, che verità morali, stanno alla base dello scrivere. Come poi ha detto Silvio Perrellastesso. Un romanzo è già in , ogni autore è critico di sé sé un’operazione critica, in quanto è il risultato di precise scelte (ed esclusioni) formali."

I temi prevalenti della discussione. "Alcuni scrittori, partendo dal di dentro della propria produzione, hanno già identificato i propri temi", raccolta Angelo Ferracuti. "Ad esempio Giulio Mozzi, che ha proposto un nuovo manifesto ultraminimalista, di riduzione dello stile a favore di un’etica dello sguardo. O Mauro Covacich che, partendo dalla constatazione (compiaciuta) che questa generazione rifiuta l’idea dello scrittore come genio involontario, ha finito col criticare l’opposta mitologia dello scrittore artigiano, e ha individuato nello scrivere il tentativo di liberarsi da un’ossessione, quella specie di patologia che Alessandro Tamburini ha descritta come una mancanza rispetto alla vita. Quando poi Massimo Raffaeli ha parlato di distinzione tra le pagine perfette, asettiche, e un elemento di vitalità che scaturisce anche da una tensione etico-politica che modifica la nostra esperienza del mondo, allora il dibattito ha cominciato a volare alto."

Una critica al pulp? "Più che i cultori del genere pulp o i ragazzi di Gioventù cannibale", continua Angelo Ferracuti, "alcuni interventi hanno criticato un sistema editoriale e una idea della letteratura per così dire totalizzante, per cui in nome di un (presunto) primato epocale si escludono tutte le altre forme, e una sola forma (oggi il pulp, domani chissà) viene ritenuta capace di rappresentare il presente (la fissazione storicistica del gruppo 63, ha detto Filippo La Porta). Non penso che si tratti di un problema legato agli stili. L’idea originaria di Paesaggi italiani (la sua ideologia, se vogliamo) è di creare un luogo che ospiti con pari dignità tutte le possibili condotte, dai realismi dell’interiore o della società multietnica fino ai romanzi di genere, e perché no il pulp. E comunque le scritture, valutate fuori da etichettature di comodo e scorciatoie di identificazione semplificatorie. Un ritorno all’ordine e il rilancio di una letteratura alla quale si deve chiedere molto."

Un certo disappunto. "Un certo disappunto nei confronti dei nuovissimi narratori che si sono affacciati sulla scena c’è stato, inutile negarlo", ammette Angelo Ferracuti. "Andrea Carraro li ha addirittura definiti dei borghesucci che si divertono a raccontare di sangue, sostenuti da una critica formalista che detesta l’idea del romanzo come "spugna della realtà". La Porta pur ammettendo che il pulp potrebbe rappresentare nell’insieme un nuovo inizio, ha lamentato in certe scritture (da Gioventù cannibale a Destroy di Isabella Santacroce) una profonda fuga dall’esperienza, una rimozione evidente dal senso della mortalità e dell’irreversibilità; e, così La Porta, una letteratura che nasce programmaticamente dalla rimozione della mortalità è una letteratura irreale. Anche Massimo Raffaeli mi è sembrato per niente disposto a contribuire al rumore di fondo, a (parole sue) farsi ricattare dalla semplificazione faziosa delle tendenze programmate a tavolino. E pure l’invervento di Fulvio Panzeri, che ha ragionato attorno alla vita breve dei libri, ha offerto degli ottimi spunti. Ha posto il problema della giustizia critica, così l’ha chiamata, ossia del fatto che alcuni romanzi di tendenza catalizzano tutta l’attenzione a discapito di altri, magari meno spendibili dal punto di vista del mercato."

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Alessandro Tamburini: "Solo la scrittura necessaria"

[...] Vorrei stare alla larga da dichiarazioni di poetica, ma potrei fare delle considerazioni "a posteriori", come se prendessi in mano i miei libri e vedessi di cosa parlano. Quello che mi ha interessato di più è stato raccontare una condizione di spaesamento, di disagio [...], fermare dei personaggi nei momenti in cui vivono una condizione di distacco esistenziale, sono privati delle loro certezze e delle loro sicurezze. Per questo, forse, mi è capitato di prediligere un certo tipo di personaggi (e anche un certo tipo di età di questi personaggi). Mi ricordo un’affermazione che fece più volte Romano Bilenchi: diceva che a lui interessavano molto i ragazzi, perché l’adolescenza è ancora un’età nella quale le identità si stanno formando, quindi c’è qualcosa di molto vitale. Mentre spesso le persone adulte (i personaggi delle persone adulte) sono troppo formate, sono troppo bisognose di essere ancorate a certe sicurezze. Le persone adulte debbono difendere e rivendicare un’identità, nascondendo anche delle zone d’ombra. Mentre le incertezze, le fragilità, sono più impalpabili in altre età della vita. Per questo spesso ho scelto come personaggi dei ragazzi; oppure delle persone anziane, perché questa età è un’età in cui le certezze si perdono e si ritorna a una specie di nuova infanzia, in cui bisogna riscoprire tutto, i propri limiti, le proprie possibilità. Ho sempre in mente una frase di Eliot che dice: i vecchi debbono essere esploratori. In questo vedevo una sorta di neopionierismo delle persone anziane, che magari può essere esercitato solo nelle pareti di una casa, ma anche per andare a fare il percorso tra bar, casa e ritorno. Una specie di nuova dimensione di avventura.

Un’altra cosa che mi interessa è quella che con Conrad possiamo definire "linea d’ombra", la porta stretta. Quel momento abbastanza delicato e vitale in cui bisogna lasciare un’identità per un’identità in formazione, per acquisire un’identità definita, quella della persona adulta. E qui parlo di "curva della vita", un’espressione coniata da Pier Vittorio Tondelli nel presentare il mio secondo libro, Nel nostro primo mondo, uscito da Marsilio. Lui disse che l’aspirazione del libro era quella di disegnare l’arco della vita, e cioè quello che trasforma ogni nuovo figlio in un vecchio padre. Questa cosa fotografava molto bene il mio lavoro. [...] Oggi qui con noi non c’è Pier Vittorio, ma io sono ancora molto debitore nei confronti del lavoro che lui ha fatto, un debito che con il passare degli anni cresce.

[...] Io ho sempre cercato di raccontare delle cose che conoscevo, di cui facevo esperienza, anche indirettamente. Nel mio ultimo lavoro, L’onore delle armi, che uscirà da Bompiani in primavera del ‘97, ho cercato di mettere in relazione lo spaesamento di cui parlavo prima, anche generazionale, con il tempo e con lo spazio. Andare al di là dell’arco della mia vita e di confrontare questo disagio con la generazione precedente, la generazione dei miei genitori. Con la storia recente di questo paese, la storia da cui in qualche modo veniamo, consapevolmente o inconsapevolmente. Ho avuto voglia di confrontare la mia "linea d’ombra" con la "linea d’ombra" che sospettavo, presumevo, fosse stata quella di mio padre o delle persone della sua generazione. E’ la storia di un uomo adulto che giunto sulla soglia della "linea d’ombra" si mette a cercare suo padre per cercare sé stesso in qualche modo. Illudendosi sul fatto che certe ragioni della vita del padre possano illuminarlo su certi aspetti della sua vita che gli sfuggono.

[...] Nell’atto stesso dello scrivere c’è una patologia. Sono portato a credere, in senso sveviano, che la salute non sia scrivere, ma vivere. In qualche modo scrivere implica una inadeguatezza, un disagio. Si scrive quando si avverte una mancanza nella vita, nella realtà. O nel proprio modo di vivere la realtà. Dice Peter Bichsel nel libro Il lettore, il narrare, pubblicato da Marcos y Marcos: La scrittura nasce dalla tristezza di fronte alla caducità delle cose della vita. A un certo punto c’è come una necessità di fermare qualcosa, una specie di vita che può essere arrestata, può essere fermata, può essere plasmata. La parola necessità è una parola fondamentale. Quando leggo qualcosa che è scritto, quando leggo un romanzo io mi pongo questa domanda, inconsapevolmente, irrazionalmente: era necessario scrivere questo? E distinguo, epidermicamente, intuitivamente, una scrittura necessaria da una scrittura che non lo è. Riconosco e distinguo l’artificio quando mi sembra che non ci sia la condizione, lo stato della necessità. Questo stato della necessità però non nasce dalla persona, almeno per me, nasce dalla materia. Non è nel narratore, è nella materia. O almeno nella materia che interagisce con il narratore in un dato momento della sua esistenza. Io non riesco a scrivere se non mi è assolutamente necessario. Questo bisogno io lo riconosco in una necessità di una storia e di essere scritta. Non in senso assoluto, naturalmente. La scrittura è sicuramente un’ossessione, e anche un vizio, un’abitudine. Ci può far orrore l’idea che Moravia si alzasse alle otto tutte le mattine per scrivere, ma come tutte le attività la scrittura produce delle abitudini.

Debenedetti disse di Tozzi: narra perché non può spiegare. Mi riconosco moltissimo in questa frase perché per me narrare, raccontare, è diventato a un certo punto la risposta di un bisogno di parlare del mondo oltre le forme razionali. Ho passato oltre dieci anni della mia vita, negli anni Settanta, a fare politica. Dalla politica, dall’ideologia sono stato educato, storicamente, generazionalmente, ma a un certo punto, deluso, sono arrivato alla narrazione, come necessità, come possibilità di dire senza spiegare.

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Romolo Bugaro: "E’ una cosa che non puoi non fare"

Quando si parla di scrittori come artigiani, dell’artigianato diciamo che trattengo la pazienza (è la concezione classica, anche un po’ vecchia, che ormai non esiste più). Mi va bene però trattenere di tutto ciò la perizia, lo stare sull’oggetto un sacco di tempo. La metafora dei pezzettini di legno mi può star bene (fino a un certo punto). Io sto lì, li lavoro, li sagomo, fin quando non si incastrano proprio bene. Questo mi piace; quello che non mi piace è l’idea di un artigianato come attività sostituibile, come attività immediatamente uguale a mille altre attività. Penso alla scrittura come necessità. Una cosa che tu fai senza che possa individuare il momento fondante di questa necessità, da dove arriva. Non c’è un’origine, non esiste. E’ una cosa che non puoi non fare. Ti pesa, ma non te ne stacchi, non puoi proprio staccartene.

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Roberto Ferrucci: "Ho domande, non risposte"

Credo di aver poco da dire rispetto alle dichiarazioni di poetica. Io scrivo proprio perché cerco di capire quello che sto facendo. Debbo affermare molto sinceramente che risposte ancora non ne ho trovate. Al tempo stesso quando ho visto i nomi dei critici che avrebbero partecipato a questo convegno ho pensato che mi interessava incontrarli e discutere con loro. Dopo aver pubblicato il mio primo romanzo, tra l’altro, sono fermo. Mi occupo soprattutto di televisione. Credo di non avere assolutamente delle risposte da dare sullo scrivere, anche se continuo a pormi delle questioni.


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Giulio Mozzi: "Minimalismo, tragedia, scarto minimo"

0. Tutto ciò che sto per dire vale solo come tentativo di approssimazione.

1. Sono molto interessato alla realtà reale e, sinceramente, comincio a non poterne più della realtà virtuale.

Quando penso al mio io, penso che sia una cosa.

Non mi interessa fare fiction. Non mi interessa fare letteratura.

Mi interessa descrivere, molto più che raccontare.

La modalità del racconto è stata sequestrata dall’industria. Quindi, noi faremo qualcosa di completamente diverso.

Io penso a me stesso come a una macchina percettiva e il mio vantaggio più grande è che funziono in modo minimale. Sono in grado di distinguere, in ciascuna percezione, una quantità di parcelle. Se vi scoccia chiamare minimalismo questa cosa, chiamatela come vi pare.

2. Un racconto è provvisto, sempre, di un destino. Una descrizione no.

Oggi, qui, difronte a voi, io rinuncio a un destino. Rinuncio a dare alla mia vita il senso di un destino.

C’è così tanta produzione di senso falso, in giro, che preferisco rinunciare a un senso.

Rinuncio in somma ai rimedi: a tutto ciò che potrebbe ricostituire un senso e un destino; perché ho il sospetto della falsità dei rimedi.

Se per tragedia si intende la rinuncia ai rimedi, allora la mia scelta è la tragedia.

3. Vorrei che la mia lingua fosse trascurabile, inespressiva, grigia.

Credo di aver bisogno di uno scarto minimo rispetto alla lingua standard della tradizione letteraria.

Comunque questo scarto non sarà lessicale, ma sintattico. Infatti il lessico viene da fuori, mentre la sintassi è più vicina al corpo.

Il corpo, macchina percettiva, atta alla sopravvivenza, ignora il suo destino.

4. Per queste cose che ho dette sono in debito particolare con Mario Benedetti, Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori.



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Mauro Covacich: "Sono costretto alla scrittura"

E’ vero che nessuno di noi sa veramente cosa fa quando scrive. E trovo sempre imbarazzante dichiarare i propri intenti. Non sono molte le dichiarazioni, a parte il manifesto di Mozzi, eclatante in tutti i sensi.

Mi piace comunque l’orientamento anti-ispirazione, anti-vocazione artistica prevalente nella letteratura contemporanea. Mi ritrovo perfettamente in un’idea che sfata l’immagine romantica (in tutti i sensi) del "genio involontario". Però non mi accontenta per nulla il rovescio della medaglia, e cioè l’abbassamento e l’abbattimento dell’idea della letteratura, comunque dello scrittore come talento, attraverso l’immagine della letteratura-artigianato, molto diffusa e prevalente.

A riguardo cito un romanzo che mi ha divertito moltissimo, e che è L’informazione di Martin Amis, uscito quest’anno da Einaudi. Nel libro si racconta la storia di due scrittori che si formano insieme a Oxford, con due destini diversissimi. Sono amici, si frequentano, ma uno sarà lo scrittore di successo, acclamato ovunque, ricchissimo, famosissimo; l’altro (che è il più intelligente e il più dotato letterariamente) è uno sfigato totale, ha pubblicato due libri e poi non viene più riconosciuto. I due si frequentano lo stesso, odiandosi. Il perdente dice di non sopportare, del suo amico, il fatto che si senta tanto dentro questa parte dello scrittore da voler abbassarsi, farsi vedere alla portata di tutti, mitizzando a sua volta l’idea dello scrittore artigiano che parla con la metafora della "falegnameria" (tanto che si è fatto costruire un vero e proprio laboratorio in casa per dimostrare che la falegnameria è il suo hobby).

Tutto questo per dire che anche questa ipotesi per me è del tutto insoddisfacente. L’immagine della letteratura come di un’attività che può fare ma che può benissimo non fare non mi soddisfa affatto. L’idea che una persona che scrive lo faccia come avrebbe potuto fare, se avesse voluto, il ballerino o l’idraulico o il meccanico. L’idea che basti applicarsi e acquisire delle regole. Da una cosa nessuno di noi, a prescindere dai risultati, può sfuggire: e cioè dal mettersi per un certo numero di ore al giorno davanti a un computer, chiusi in una stanza, da soli, a comporre dei testi. E’ un’attività che ha molto di più a vedere con una patologia che con un hobby. Io non ci vedo nulla di artigianale. Per questo mi ritrovo molto di più, per quanto possa apparire filosofica, in una immagine di scrittura che, alla fine, è costrizione. Che non è scelta. Quindi una scrittura a cui io sono costretto. Non so da chi, non so perché. Una specie di ossessione, piuttosto che una scelta libera.

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Le avventure di Al Cultman:

Oggetti di culto degli adolescenti d’oggi: libri, film, fumetti...

di Alberto Fassina