gennaio 1997

Giovani, carini e raccomandati

Il ventitreenne scrittore Giuliano da Empoli ha affermato che quarantenni e pensionati "rubano" lavoro e risorse ai giovani. Lo storico Emilio Franzina ripercorre l'evoluzione dei rapporti tra generazioni per confutare questa tesi

In uno dei suoi sempre suggestivi interventi, qualche tempo fa, Furio Colombo raccontava, ancora stupefatto, di avere udito per caso alla radio la chiamata in diretta di un giovane ascoltatore che non si peritava d’autodefinirsi ragazzo. "Sono un ragazzo di trentadue anni" pare avesse detto per la precisione. Colombo, naturalmente , si meravigliava per quel "ragazzo" usato a sua volta con disarmante naturalezza da uno che, a occhio e croce, o non sentiva il peso degli anni o, molto più probabilmente, lo interpretava come oggi si conviene nella nostra società. Fino a trent’anni e a volte anche di più, in effetti, quelli che ci ostiniamo a chiamare i "giovani", come anch’io ho fatto qui sopra, usufruiscono di un apparente beneficio: quello di figurare come tali quando in realtà, dati anagrafici alla mano, non lo dovrebbero essere più da un bel pezzo. Ma il punto è proprio questo. Chi ha ragione: il sentire comune ormai diffuso in buona parte dell’Occidente e quindi anche da noi in Italia oppure la rigida logica delle partizioni cronologiche? Il problema, come si capisce, ne sottende molti altri di grave importanza che ci sforzeremo di segnalare fra poco. Per il momento, tuttavia, sia consentito fare ricorso a una specie di autoparafrasi ovvero ad una autocitazione di quelle un po’ lunghine.

Da un paio di mesi è in libreria un libro piuttosto corposo dell’editore Laterza curato da due specialisti rinomati come Nicola Tranfaglia e Bruno Bongiovanni. Si intitola Dizionario storico dell’Italia unita ( Roma Bari 1996, pp. 1025, £. 95.000) e contiene, fra l’altro, una voce tutta dedicata ai "Giovani" che malauguratamente ho redatto e che mi aveva molto fatto riflettere sulle contraddizioni , del resto anche altrimenti note, della condizione giovanile fra otto e novecento.

In essa ripercorrevo in sintesi il tragitto di una tale condizione e soprattutto dell’immagine che di tempo in tempo se n’era data. Fare la sintesi di una sintesi, e per giunta su una rivista come "Nautilus", non mi pare davvero il caso, ma richiamarne alcune idee chiave potrebbe risultare di qualche utilità ai fini di una discussione che si volesse avviare su argomenti quali il neonepotismo, il familismo all’italiana e, perché no?, le incongruenze della politica di governo dell’Ulivo a più di sei mesi di distanza dalla sua risicata vittoria elettorale. Cerchiamo però di andar per ordine.

Prima di tutto vediamo come uno storico descrive e valuta il progressivo venir meno delle forme tradizionali di identificazione della gioventù , intesa come classe di età , già allo scadere del secolo XIX.

E’ precisamente in questo periodo che alla "juventus" di vecchio regime, con i suoi riti e con le sue compagnie, subentra, compatibilmente con le diverse situazioni sociali e geografiche, un qualcosa di radicalmente nuovo ossia la giovinezza e i giovani quali per decenni li abbiamo anche noi considerati e conosciuti.

I confini di età , incerti per definizione, si stabilizzano e indicano che nel passaggio di status generazionale dall’infanzia generica e anch’essa mai ben individuata all’adolescenza si è verificato un salto di qualità rispetto al passato. Benchè il discorso sia destinato a variare a seconda che ci si volga ad osservare una popolazione rurale o urbana, borghese o operaia, agricola contadina o bracciantile ecc., si può convenire con quegli studiosi che per primi lo hanno imperniato attorno alla nozione di "costruzione sociale". L’adolescenza e poi la giovinezza come prodotto insomma di una creazione funzionale ai bisogni della società in via di mutamento essa stessa. I fenomeni chiave sono, in questa fase, di ordine politico e pratico - concreto. L’ascesa del nazionalismo risorgimentale e i vari processi di alfabetizzazione connessi, man mano, all’espandersi dei sistemi scolastici - educativi determinano una sovrapposizione tendenzialmente uniforme della figura dello studente a quella del giovane. E giovani studenti sono infatti, di lì in avanti, molti protagonisti delle lotte politiche e militari del secondo ottocento. I patrioti e i garibaldini, ma anche non pochi uomini di governo della prima età postunitaria si trovano collocati all’inizio del loro impegno o della loro carriera in classi di età decisamente "iniziali". Sono uomini e più di rado donne al di sotto dei trent’anni che non si sognerebbero certo di concepirsi (e che nemmeno vengono percepiti dall’esterno) come "ragazzi".

Fra otto e novecento il graduale prolungamento della durata media della vita e l’innalzarsi delle aspettative di vita , per altri versi, provvedono a rendere ancor più visibile la circostanza. Fermi a fine secolo intorno ai quarant’anni (con oscillazioni che vanno dai 34 anni della decade 1870 ai 42 d’inizio novecento) essi evolveranno via via passando dai 54,9 degli anni trenta ai vertici che ci son noti di questi ultimi tempi ( 76,3 nei primi anni novanta del novecento). Ciò vuol dire che sino alla seconda metà del presente secolo l’Italia ha mantenuto in sostanza una struttura per età della popolazione sostanzialmente giovane con riflessi sulle date medie del matrimonio e dell’uscita dal nucleo familiare originario. Ai primi censimenti del 1871 e del 1881 i giovani costituivano più del 32% della popolazione (contro un 5% di anziani) e solo a far data dagli anni cinquanta e sessanta iniziavano il capovolgimento che ci è noto (medie del 20% e meno per i giovani) e l’invecchiamento progressivo del paese. Che esso sia giunto oggi a livelli di guardia è un fatto altrettanto conosciuto e spiega, ma forse non giustifica l’ansia con cui stanno guardando al futuro le cosiddette giovani generazioni le quali, fra l’altro, sul mercato dei consumi (non solo culturali) occupano con il loro protagonismo posizioni di primissimo piano almeno a partire dalla rivoluzione della beat generation e dalla contestazione giovanil - studentesca dei favolosi ( Mina e poi Minà) anni sessanta.

L’ampliamento dei margini di libertà, di istruzione e in poche parole di comfort e di benessere hanno avuto per contrappeso la cristallizzazione e l’imprevisto prolungarsi dello status giovanile oltre i limiti accettati durante gli ultimi cent’anni o giù di lì. Ma basta tutto questo a dar ragione del singolare fiorire d’un tipo nuovo di protesta giovanile che non si distacca, nel fondo, dai presupposti venuti in auge nel ’68 quando alla marxista lotta di classe (intesa come classe sociale) sembrò che si potesse e si dovesse anzi sostituire una sorta di scontro di classe di età ossia , nella migliore delle ipotesi , di fronteggiamento generazionale ?

Certo, potremmo ipotizzare la reviviscenza di un classico come il confronto tra padri e figli o l’eterno ritorno di bisogni simbolici e rituali che da sempre prevedono, per gli ultimi venuti, la soppressione a parole e in effige dei predecessori: in buona sostanza una rivincita del "parricidio" liberatore che dovrebbe consentire l’avvio di nuovi corsi e di nuovi protagonismi. Tuttavia l’assetto demografico e sociale modificato, il mercato del lavoro anelastico e le tendenze a far base , anche conclusi gli studi e intrapresa, magari, un’attività a se stante, presso il nucleo familiare originario inducono a pensare che i "giovani d’oggi" (altra espressione stereotipa in vigore da più di trent’anni) siano soggetti diversi da quelli che avevano addirittura ingombrato le scene del novecento come rivoluzionari, sovversivi, contestatori ecc.

A sistemare le cose, e qui entro nel vivo dell’articolo, ci ha pensato però un giovanotto ambizioso come Giuliano da Empoli. Ventitré anni compiuti e un cursus di studi universitari (peraltro non ancora concluso) di prim’ordine, Giuliano è soprattutto l’autore di un pamphlet che ha mandato in visibilio i mass media nazionali (un libriccino intitolato gassmanianamente Un grande futuro dietro di noi e pubblicato sul finire del 1996 a Venezia da Marsilio). Giuliano Amato e Luciano Cafagna, che lo ha lanciato e che gli ha firmato la prefazione, ne dicono un gran bene probabilmente perché concordano con le sue tesi che, a ben guardare, si riducono tutte ad una asserzione un po’ temeraria e , a mio avviso, non provata: i quarantenni e in genere le generazioni più vecchie, per quanto orrido sia l’accostamento lessicale, stanno rubando l’avvenire ai ventenni di adesso e mangiano pane a tradimento. I "vecchi", inoltre, vengono dipinti neanche tanto velatamente come i beneficiari primi dei privilegi dello statalismo e dello "stato sociale" forse per il fatto lapalissiano di aver fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro durante il periodo della loro massima espansione. Complimenti, verrebbe voglia di dire! Ma come la mettiamo allora con i "ragazzi" di trent’anni? Semplice: essi sono (sarebbero) il frutto inevitabile di questa losca espropriazione che per fortuna non convince tutti e che, vista sotto specie di teoria, ha già cominciato a trovare parecchi confutatori.

Al ventenne Da Empoli, ad esempio, un lettore quarantenne dell’"Espresso" ha replicato, pur senza averne letto il libro, con l’illustrazione della sua carriera di emigrante nemmeno troppo speciale di studioso costretto, per farsi strada , ad espatriare e ad andare a lavorare all’estero. Alberto Canesi, il lettore in questione, osserva da Milano: "vorrei dire a Giuliano che sbaglia: in Italia il vero conflitto, la vera lotta mortale non è generazionale , ma è (come è sempre stata) tra chi ha santi in Paradiso e chi non ne ha. Tra chi può farsi presentare in pubblico la tesi di laurea da Cossiga e da Giuliano Amato, e chi non riesce neppure a farsi pubblicare una lettera."

Al quarantenne Canesi, stavolta, è andata un po’ meglio perché la sua lettera il settimanale progressista alla fin fine l’ha pubblicata e quantunque io stesso sia uno di quelli che hanno presuntuosamente pubblicato il loro primo libro sui vent’anni non posso che congratularmi con lui. Ha ragione da vendere e su tutta la linea come ha spiegato articolando ironicamente il giudizio sul "Messaggero" Mario Ajello ( in un articolo godibilissimo: Quei baby pensatori, un po’ Keynes, un po’ Belushi ) che se anche fosse figlio del notista di "Repubblica", Nello , ha fatto benissimo a inserire il giovane Da Empoli, com’è in effetti, nella schiera delle teste d’uovo in erba del Pds tutte accomunate da un’autorevole origine familiare. Sono (Acquaviva jr, figlio di Gennaro oppure Veltroni jr. figlio di un fratello del già giovanilista Walter ecc.) i naturali colleghi del Da Empoli il cui padre, un noto economista d’area Psi , è scomparso da poco senza che ciò abbia danneggiato l’erede.

La pratica italiana del nepotismo e , perché no?, del clientelismo seppur d’alto profilo rispuntano fuori e non a caso ciò avviene ora nell’area dell’Ulivo e delle sinistre per la prima volta al potere.

I problemi dei giovani d’oggidì - ragazzi o no che si sentano e siano - non li risolverà però la loro puntuale applicazione ai contesti solo apparentemente mutati della politica e della vita sociale dove i progressisti (sc. politici di mestiere) sbagliano grosso se pensano di poter rimediare ai guasti dell’Italia uscita da Tangentopoli con le ossa rotte attraverso il ripescaggio di formule e di tecniche (come appunto il nepotismo, il clientelismo ecc.) collaudate sì, ma forse non del tutto estranee alla genesi del malcostume e delle storture che a Tangentopoli si solgono ricondurre.

Emilio Franzina