a cura di Giulio Mozzi
- gennaio 1997
Letture
NOVE NUOVI RACCONTI BREVI, ANZI BREVISSIMI
Si dice
che in Italia non si leggano racconti. Gli stessi editori
sostengono che un libro di racconti, proprio perché è
di racconti, ha una speranza di vendita del
40% rispetto a un romanzo con caratteristiche analoghe
(es.: stesso autore, stesso tipo di scrittura, stessa
confezione editoriale ecc.). Sarà vero? Non sarà vero?
In fondo almeno un paio dei libri di culto della nuova
narrativa italiana sono libri di racconti (Altri
libertini, di Pier Vittorio Tondelli; Compleanno
dell'Iguana di Silvia Ballestra). E gli
scrittori d'importazione che più hanno influenzato la
cosiddetta nuova narrativa italiana sono probabilmente i
cosiddetti minimalisti americani: autori (in particolare
Raymond Carver e David Leavitt) di splendidi racconti o
di romanzi brevissimi (come Meno di zero di
Ellis). In questo NAUTILUS vi proponiamo, dopo i due
racconti lunghi del numero di dicembre (di Matteo
Galiazzo e Gianpiero Valente), un mazzetto di racconti
brevissimi (e, almeno nelle intenzioni degli autori,
fulminanti). Buona lettura.
Gli autori: FABIO
FRACAS (f.fracas{Sostituisci con chiocciola}pd.nettuno.it) è nato in un
piccolo paese della Toscana un giorno autunnale di quasi
trent'anni fa. Da quel momento ha cambiato case (sette),
città (quattro) e interessi (tanti), vivendo
intensamente (forse anche troppo) e cercando di
divertirsi. Di mestiere insegna informatica presso gli
istituti superiori ed i centri di formazione ma si occupa
anche di Cinema e, soprattutto, di Giochi di Ruolo. Ha un
diploma di Musica Elettronica, una laurea in Fisica, una
moglie da mantenere e una grande passione: scrivere. Per
NAUTILUS ha compilato la puntata del Corso di
scrittura narrativa dedicata ai giochi di ruolo
(novembre 1996).
VITALIANO
TREVISAN è nato nel 1960. Nel corso della sua
esistenza ha svolto i seguenti lavori: facchino, operaio
in una tegolaia, operaio metalmeccanico, cameriere,
arredatore, disegnatore, operaio in una fabbrica di
barche a vela, manovale, muratore, tagliaboschi,
progettista di cucine componibili e mobili in genere,
geometra comunale. Attualmente lavora come operaio
lattoniere. Ha pubblicato i racconti di Trio senza
pianoforte (editrice Veneta, vedi NAUTILUS agosto
1996). In aprile 1997 presso Theoria uscirà il romanzo: Un
mondo meraviglioso.
GIULIO
MOZZI è redattore di Nautilus. Ha pubblicato due
volumi di racconti: Questo è il giardino, Theoria
1993; La felicità terrena, Einaudi 1996. Con
Silvia Ballestra ha curato Coda, un volume di
racconti scritti da ragazze e ragazzi con meno di 25
anni, in libreria a gennaio 1997 (ed. Transeuropa). In
febbraio 1997 uscirà, presso Theoria, un volume di saggi
e racconti sullo scrivere intitolato Parole private
dette in pubblico.
PICCIONI, racconto di Vitaliano Trevisan
Lavorare sui
tetti, ogni giorno almeno un tetto diverso, ha i suoi
vantaggi. Il mondo, visto dall'alto, sembra un mondo meno
brutto, le città sono città viste dall'alto, le zone
industriali zone industriali viste dall'alto, tutto
assume dunque un aspetto diverso, un aspetto dall'alto,
comunque migliore del normale aspetto dal basso. E poi
arrampicarsi sui tetti e camminare su quei tetti ci
piace, non sappiamo esattamente perché, ma ci piace,
abbiamo la sensazione di essere bambini che ogni giorno
vanno a giocare proprio là dove la mamma non vuole
assolutamente che vadano a giocare.
Comunque la
storia è questa:
Eravamo sul
tetto di un condominio di sette piani, per cambiare tutte
le grondaie, in lamiera verniciata, con grondaie nuove,
in rame, e andavamo avanti e indietro con i pezzi di
grondaia sulle spalle, converse batti-acqua eccetera.
Tojo, il nostro capo, stava saldando un pezzo di grondaia
in un angolo. Noi andiamo su fin quasi sul colmo, per
togliere un pezzo di grondaia vecchia, e sotto la falda
troviamo un nido di piccioni con dentro due uova di
piccione. Prendiamo in mano le due uova e pensiamo: due
uova di piccione, abbiamo trovato due uova di piccione.
Ehi Tojo, gridiamo, guarda: due uova di piccione! Lui si
alza, ci raggiunge sul colmo e fa: Ah, due uova di
piccione, come se fosse la cosa più normale del mondo. E
poi fa: Sai, dice, una volta, quando ancora lavoravo con
mio padre, un giorno andammo a sistemare il tetto di un
campanile. Facemmo tutto il lavoro all'esterno e poi
andammo dentro la cuspide per sistemare due o tre
cosette. Beh, dice Tojo, dentro la cuspide trovammo
decine di nidi di piccione, tutto pieno di nidi di
piccione, e ogni nido c'erano due piccoli che ancora non
sapevano volare. Venivano fuori con la testina dal nido,
due testine ogni nido e tutta la cuspide era piena di
testine, una cosa impressionante. Dev'essere stato bello,
diciamo noi, con le uova di piccione in mano. Beh
insomma, fa Tojo con la lancia ancora accesa in mano.
Comunque, mio padre mi fa: Vai giù, prendi le reti per
le finestre e un sacco, muoviti. Vado più, prendo reti e
sacco e torno su di corsa. Bene, fa mio padre. Prende le
reti e chiude con le reti tutte le finestre. Poi prende
il sacco, afferra i piccoli di piccione uno per uno, li
tira fuori dal nido, gli tira il collo uno per uno e li
getta dentro il sacco. Non se n'è fatto scappare uno.
Ma, diciamo noi, e le reti? perché le reti alle finestre
se i piccoli non sapevano volare? Ah, fa Tojo, le reti
non erano per loro, erano per non far entrare i padri e
le madri. Dovevi vederli: sembravano impazziti!, se
fossero riusciti a entrare ci avrebbero fatto a pezzi. E
poi?, chiedemmo. Ahhh, fa Tojo, uno spiedo come quello me
lo ricorderò per tutta la vita.
Rimettemmo
le uova al loro posto e riprendemmo a lavorare, perché,
come sempre, avevamo fretta.
HILTI, racconto di Vitaliano Trevisan
Avendo della
Svizzera un'idea molto precisa, non abbiamo alcuna
difficoltà a immaginare che il direttore dell'ufficio
vendite dell'Hilti, fabbrica svizzera il cui marchio è
notissimo nel campo dell'edilizia e attività affini,
tanto che non esiste muratore, elettricista, idraulico,
carpentiere, montatore o lattoniere, che non abbia usato
almeno una volta un trapano a percussione o un avvitatore
o un martello demolitore della marca in questione, che
questo direttore delle vendite, essendo un uomo molto
preciso, un giorno si sia chiesto per quale oscuro
motivo, in un'area geografico-economica i cui confini
coincidevano perfettamente con i confini amministrativi
del comune di Caldogno, non si riuscisse a vendere una
pistola sparachiodi che fosse una. I tabulati di vendita
relativi al prodotto in questione parlavano chiaro: da
ventinove anni non un sola pistola sparachiodi di marca
Hilti era stata venduta in quel comune. Per tutti gli
altri prodotti nessun problema, anzi, le cose andavano
più che bene, ma quell'articolo... Allora il direttore
delle vendite dell'Hilti avrà subito chiamato il
responsabile vendite per il nord Italia, il quale a sua
volta avrà contattato l'agente di zona, il quale avrà
parlato col rappresentante, il quale, forse, gli avrà
raccontato la storia che Mauro, un giorno che eravamo a
mangiare in trattoria durante la pausa di mezzogiorno,
raccontò a noi. Ecco, con parole nostre, la storia che
Mauro ci raccontò con parole sue:
il giorno
sette di giugno del 1963, il muratore G.L., un uomo
conosciuto e stimato in tutto il paese di Caldogno e
anche più in là, caricò la sua nuova sparachiodi Hilti
TKT 200 e tirò indietro la molla, non senza prima aver
tarato l'attrezzo alla potenza massima. Doveva piantare
quel chiodo in una putrella d'acciaio, il perché Mauro
non lo sa, perciò non lo sappiamo nemmeno noi. Comunque,
G.L. appoggiò l'estremità dell'attrezzo all'ala della
putrella e premette il grilletto. Forse non appoggiò la
sparachiodi in modo corretto, forse lo fregò il rinculo,
forse scivolò nel momento esatto in cui premeva il
grilletto, forse la cartuccia difettosa... il chiodo non
si piantò, schizzò via con un'angolazione precisa ma
non calcolabile, rimbalzò su uno dei tubi innocenti, di
spessore trenta decimi circa, diametro 60 mm, che
componevano l'impalcatura, e penetrò lateralmente G.L.
nell'occhio destro di cui lacerò e spappolò, al
passaggio, la cornea, la pupilla, il cristallino,
l'iride, la retina, il muscolo ciliare, in definitiva
distruggendo l'occhio in tutte le sue parti; continuò la
corsa, trapassò, fratturandolo in modo scomposto, il
setto nasale, ed ebbe ancora la forza di farsi strada
nell'occhio sinistro, dove restò conficcato.
G.L. si
portò le mani agli occhi e si accasciò, tutto senza
suoni. Fu subito soccorso da un compagno di lavoro e
dall'idraulico, che quel giorno si trovava in cantiere
per scavare le tracce. I due caricarono G.L. nel furgone
dell'impresa e lo accompagnarono, alla massima velocità
possibile, al pronto soccorso dell'ospedale di Thiene,
dove la suora che per prima lo soccorse, dopo avergli
pulito la faccia, prese una pinza e gli cavò il chiodo,
un atto del tutto inconsulto, che provocò la lesione
irreparabile del nervo ottico dell'occhio sinistro. Il
buio assoluto si era fatto strada dentro di lui,
sfruttando a suo vantaggio tutte le circostanze del caso.
Quella
puttana di suora, disse Mauro. Comunque, continuò,
nessuno ha più usato una sparachiodi a Caldogno.
Incredibile,
dissi io, versando la bustina di zucchero nel caffè, una
storia davvero incredibile.
Se non ci
credi, fece Mauro, chiedi al rappresentante dell'Hilti,
il tipo con la barba che viene da noi ogni tanto.
Chiedigli quante sparachiodi negli ultimi trent'anni.
Nemmeno una.
No, rispose
sorridendo il rappresentante dell'Hilti, che era venuto
in capannone circa una settimana più tardi a portare una
serie di punte per il trapano, a Caldogno si vende tutto
meno le sparachiodi. Sparachiodi, nemmeno una.
Ringrazio
Mauro, per la storia, e Trieste Antonio per alcune
spiegazioni tecniche relative al funzionamento e all'uso
proprio delle pistole sparachiodi. Non sono riuscito a
procurarmi una pistola sparachiodi Hilti del 1963. Ho
visto il cieco G.L. solo una volta, di profilo, mentre
beveva un bicchiere di vino bianco al bar vicino alla
chiesa di Caldogno.
HIFORD,
EZECHIEL, racconto
di Vitaliano Trevisan
Ogni giorno
ci sono circa cinque camion da caricare. Delle volte sono
solo quattro. Altre volte addirittura sei. Si lavora fino
alle otto di sera, delle volte. Si fanno gli
straordinari, si sgobba. Non è possibile che sia solo
per un po' di soldi in più a fine mese. Ci sembra
impossibile. Sembra piuttosto, così i dirigenti, lo
spirito dell'azienda: se ci si deve fermare per
caricare un camion in più ci si ferma e basta. Anche
Hiford si ferma. Il ghanese che tutti chiamano Tyson per
le dimensioni del suo collo. Un tipo molto pacifico
Hiford. Sulla faccia ha delle cicatrici. Non ci
ricordiamo chi gli abbia chiesto qualcosa in proposito.
Lui comunque ha detto che sono i segni della sua tribù.
Caricando i camion continua a cantare. Canta e ha sempre
un sorriso sulle labbra. Noi continuiamo a rompergli le
scatole: «Ehi, Tyson, perché non canti mai qualcosa
di italiano?» continuiamo a dirgli. Lui una volta ha
detto: «Musica italiana no ha ritmo. No è alegra», così
ha detto Hiford. E ci viene in mente che una volta
eravamo in un locale ad ascoltare un concerto di
percussionisti e tra i percussionisti ce n'era uno
africano, Ezechiele si chiamava, e nessuno stava
ballando. La musica sembrava fatta apposta per ballare,
eppure non ballava nessuno. Ezechiele allora si alzò e
disse: «Perché no ballate? E' sabato bisogna balare.
Lavoro finito fino a lunedì. Baliamo!». Aveva
ragione da vendere. Ma nessuno ballò.
CAFFE', racconto di Vitaliano Trevisan
F., dice E.,
che con F. ha lavorato per anni ad attaccare fili del
telefono, su e giù per i pali per oltre venti anni, non
era del tutto normale, era come si dice "un po'
indietro", non parlava nemmeno bene, balbettava,
aveva l'erre moscia, la esse sibilante, e la effe, quando
lui pronunciava una parola con la effe - una parola come
caffè per esempio - non sembrava neppure una effe, ma un
suono in mezzo tra la esse e la effe, una specie di esfe
insomma. Ma era un grande lavoratore, instancabile e
anche molto simpatico. Fumava come un turco, dice E., una
cicca dietro l'altra, e col mozzicone di una attaccava la
successiva. Incredibile quanto fumava!, una cosa da non
credere, mai visto nessuno fumare così tanto. Ma la sua
vera passione non era il tabacco, ma il caffè. Dovunque
andassimo, dice E., F. voleva caffè. Ci fermavamo al bar
per prendere qualcosa?, F. si beveva un caffè. Estate,
inverno, tutti i momenti sempre caffè. E se qualcuno,
vedendoci fuori a lavorare, ci invitava in casa per
offrirci un bicchiere di vino, lui rifiutava il vino e
chiedeva caffè. anzi, dice E., non lo chiedeva
direttamente: Moka?, diceva, m-m-moka signora? di solito
la signora capiva e faceva subito il caffè, e più lo
faceva forte più F. era contento: la cicca in una mano e
la tazza di caffè nell'altra: felice. Tanto gli piaceva
il caffè, dice E., che più di una volta espresse il
desiderio di morire bevendo caffè, con la tazza di
caffè in mano e nella bocca e nel naso l'aroma di
caffè. M-m-morire così sarebbe p-p-proprio b-bello, non
è m-m-morire così, n-no!, diceva F, dice E. E una sera
sua moglie gli fece il caffè, forte come lo voleva lui,
e poi uscì un attimo nell'orto. Tornò poco dopo. Lo
chiamò. Lui era seduto al tavolo di cucina, ma non
rispose. Lei lo chiamò di nuovo e, visto che ancora non
rispondeva, gli si avvicinò e lo scrollò. Solo allora
si accorse che era morto stecchito: la mano destra
stretta attorno alla tazza di caffè, una cicca che
fumava ancora tra le dita della sinistra. Una bella
morte, disse E., proprio la morte che F. aveva sempre
sognato.
Ordinammo
due caffè. Li faccia forti, dicemmo al barista, più
forti che può.
5'8'' , racconto di Fabio Fracas
Chissà
quanto tempo è passato. 3. Devono essere ore. 4. Mark
chiude gli occhi. 5. Si appoggia allo schienale della
sedia. 8. La mano destra comincia a dargli fastidio. 10.
Ora! 11. La pallina si comprime ancora una volta mentre
le sue dita le si serrano attorno. 2, 3. Mark pensa,
chissà se Sarah mi vedesse così. 5. Sorride e apre gli
occhi. 8,9. Davanti a lui, separati da un vetro, ci sono
tre uomini con un camice bianco. 10. Ora! 11. Gli uomini
lo guardano e gli sorridono. 3. Uno è basso e tarchiato,
con dei folti baffi scuri che gli si arricciano ai lati
della bocca. 4. Un altro è più giovane e senza baffi ma
assomiglia al primo e potrebbe essere suo fratello. 5. Il
terzo è biondo e con una corta barba dorata sulle
guance. 6. Mark è la prima volta che li vede. 7.
Probabilmente anche l'ultima. 9, 10. Ora! 11. La
sensazione di fastidio alla mano comincia a aumentare.
3,4. Gli sembra che la pallina scotti fra le sue dita. 6.
Naturalmente è impossibile, 8, solo che a lui sembra
proprio così. 10. Ora! 11. Mark osserva la propria mano
destra. 5. Normale. 6. Una normalissima mano di un
normalissimo ragazzo di ventun anni che stringe ogni
normalissimi 11 secondi una normalissima pallina verde.
10. Ora! 11. A ben guardare, la mano è leggermente
arrossata vicino al pollice. 2. Mark pensa che forse
dipende dal fatto che la pallina è appena più piccola
del palmo e quindi, ogni volta che stringe, sfrega in
quel punto con l'unghia dell'indice. 7. Anche
l'avambraccio è leggermente indolenzito. 8.
Probabilmente si gonfierà il muscolo. 9, 10. Ora! 11.
Mark guarda verso i tre uomini al di là del vetro. 3.
Adesso sono chini sui loro strumenti. 4. Quello con la
barba solleva la testa. 6. Dice qualcosa agli altri e poi
la riabbassa. 10. Ora! 11. Anche l'altro, quello più
basso, comincia a parlare. 3. Mark non può ascoltare a
causa del vetro. 6. Socchiude gli occhi e cerca di
osservare i movimenti della bocca. 10. Ora! 11. Una fitta
al braccio. 2. La fitta lo distrae. 3. Mark pensa, tanto
non ci capivo niente. 5,6. Il dolore è stato improvviso.
8. Mark è stanco. 10. Ora! 11. Vorrebbe alzarsi per
sgranchirsi le gambe. 3. Sulle caviglie ci sono collegati
i sensori. 4. Anche sui polsi, sul torace e sulla testa.
8,9. Soprattutto sulla testa 10. Ora! 11. Mark osserva il
proprio riflesso sul vetro. 2. È ridicolo. 3. Dalle
estremità dei sensori partono decine di fili colorati
gialli, blu, rossi. 6,7. Alcuni hanno strisce di colori
differenti: blu e rosso, giallo e blu. 10. Ora! 11. Una
serie di fili gli scende dalla testa e striscia fino ad
un grande apparecchio. 3. Gli altri sono collegati a
altre macchine. 5. Il grande apparecchio emette un sordo
ronzio e ogni tanto una specie di bip. 8,9. Bip.
10. Ora! 11. Mark pensa che forse quel bip e collegato al
suo stringere o meno la palla. 3,4. Rimane in ascolto.
6,7,8,9. 10. Ora! 11. No, non è collegato, 2. Bip.
3. Un'altra fitta. 5. Questa volta più forte. 7, 8.
Anche alla testa. 10. Ora! 11. Mark osserva gli altri
apparecchi. 2. Alla sua destra c'è una specie di scatola
quadrata di metallo. 5. Più in là ce n'è un'altra. 7.
La prima è, bip, rivolta verso di lui, 8,
la seconda guarda verso il vetro. 10. Ora! 11. Nella
scatola c'è un piccolo pannello di comando e un monitor
di controllo. 6. È una specie di oscillatore. 7. Sotto
la base della scatola si connettono i fili che gli
partono dalla gamba destra e dal braccio sinistro. 10.
Ora! 11. Bip. 2. Dentro il monitor una linea verde
traccia una scia discontinua che parte da sinistra verso
destra. 5. Ogni volta che la scia riparte la macchina
emette un basso ronzio. 8. Ronzio. 10. Ora! 11.
Mark chiude gli occhi e ascolta. 3. Ronzio. 6. Bip.
8,9, Ronzio. 10. Ora! 11. Anche il ronzio non è
regolare. 2. Dolore. 3 Direttamente alla testa. 4. Ronzio.
6. La mano comincia a sudare. 8. Anche la fronte è
imperlata. 10. Ora! 11. Bip. 3. Sarah mi starà
aspettando, 5, ormai non mancherà molto... 6. Ronzio.
7. Fitta. 9. Mark sente il sangue pulsargli. 10. Ora! 11.
È un ritmo costante. 3. Gli pulsa nel polso. 4 Bip.
5. Anche in testa, ronzio. 7. Sono stanco. 9
L'uomo tarchiato si accarezza i baffi. 10. Ora! 11.
L'altro, il fratello, si alza e gli parla. 2. Ronzio.
3 Il primo risponde. 4. Anche il terzo si alza e indica
Mark. 5. Fa un segno col capo. 7. Ronzio. 8,9. Bip.
10. Ora! 11. Il sangue gli pulsa nelle orecchie. 2. È un
po' come il mare. 4 Fitta. 6. Ora basta. 8. Gli sembra
che gli uomini, ronzio, 9, stiano litigando. 10.
Ora! 11. Mark guarda, li guarda, pulsazione. 2.
Loro non lo stanno guardando, Ronzio. 4. Mark
solleva il braccio sinistro per richiamare la loro
attenzione. 6. Bip, pulsazione. 7.
Il braccio gli sembra pesante. 8. I fili si tendono. 9. Ronzio.
10. Ora! 11. Mark riabbassa il braccio. 2. I fili si
rilassano e ricadono al suolo. Pulsazione. 4. Mark
chiama i tre uomini, ehi, mi sentite? 7. Ronzio.
8. Bip. 9. Pulsazione. 10. Ora! 11. Nessuna
risposta. 2. Ehi, sto parlando con voi! 3. Pulsazione.
4. Fitta. 5. Bastardi!. 7. Ronzio. 8. L'uomo magro
si arrabbia. 9. Pulsazione. 10. Ora! 11. Mark
pensa, ronzio, deve essere il vetro. 2.
Probabilmente non mi sentono a causa del vetro. 3. Bip.
4. Maledetti soldi... maledetto esperimento. 5. Mark
cerca di rilassarsi, pulsazione. 6. Sente una
porta aprirsi. 7. Guarda gli altri fili. 8. Guarda le
altre macchine. 9. Ronzio, pulsazione. 10.
Ora! 11. Fitta al braccio destro. 2. Fitta alla testa, pulsazione.
3. Senso di nausea, ronzio. 4. Mark si alza di
scatto, bip. 5. I fili si strappano, ronzio.
6. Due uomini lo osservano, il terzo si avvicina. 7. Mark
è in piedi, pulsazione, 8, gli gira la testa, ronzio,
9, casca all'indietro, bip. 10. Ora. 11.
AL MOMENTO
GIUSTO, racconto di
Fabio Fracas
Ray
Frederick era un pioniere; un pioniere dello spazio.
All'epoca della Grande Espansione si era arruolato
volontariamente nel corpo dei pionieri terrestri ed era
partito per colonizzare Ghendel: pianeta esterno del
settore meridionale della nebulosa Arten. Ghendel era un
pianeta ricco: plutonio, oro e uranio abbondavano sugli
strati più esterni della sua superficie e Ray era
povero. Talmente povero che tutta la propria quota di
ingaggio l'aveva lasciata a sua moglie Taith e a suo
figlio Ronald. Ray sapeva che non sarebbe più potuto
tornare.
«Un
viaggio; ti passa in fretta», gli avevano detto.
«Dormirai e
quando ti sarai risvegliato ti sembrerà che sia passata
solo una notte; ma per la tua famiglia, per la terra,
saranno passati centotrent'anni. Non rivedrai più
nessuno di quelli che conosci... pensaci bene prima di
firmare.»
Non poteva
pensarci. In una terra popolata da venti miliardi di
persone, quelli come lui, i poveri, non vivevano comunque
a lungo. Con la sua paga, invece, Taith sarebbe diventata
ricca e magari Ronald avrebbe potuto studiare, forse
laurearsi... ed avrebbe ringraziato suo padre per questo.
«Eccoti la
quota, ragazzo. Questo è quello che una persona normale
riuscirebbe a guadagnare in circa cent'anni... lavorando
dieci ore al giorno. Eppure, non vale quella firma:
questo è il tuo compenso per morire.»
Ray
osservava lo spazio, vuoto, scuro, nero come un incubo,
che si stendeva al di là della navicella. Gli occhi
incollati sul monitor esterno, la mente ancorata ai
ricordi.
Più di
mille anni, pensò. Più di mille anni...
Da quel
primo viaggio Frederick aveva preferito correre per il
cosmo inseguito dai ricordi, piuttosto che fermarsi ad
affrontarli. Corsa dopo corsa, sonno dopo sonno, aveva
visitato gli angoli più sperduti della galassia
colonizzando decine di pianeti. Per la Terra erano
passati più di mille anni, ma per lui tutto sembrava
essersi fermato. Reagiva perfettamente all'ibernazione, i
suoi tessuti non si indebolivano e la vita continuava
prepotentemente a scorrergli dentro il corpo. Lui era
speciale. Gli altri potevano sopportare solo una volta il
lungo sonno, massimo due. Poi morivano. Era come
se il peso del tempo di cui si erano fatti beffe, fosse
ricaduto di colpo su di loro, annientandoli. Ma lui no.
Aveva già dormito decine di volte e non ne aveva
risentito. Per Ray Frederick erano passati poco più di
tre anni da quando era partito.
La navicella
era quasi arrivata. Era nelle vicinanze del sistema
solare e lo spazio cominciò a poco a poco a punteggiarsi
delle luci delle stelle.
Ray sorrise.
Nei mille anni trascorsi la tecnologia si era evoluta al
di là di ogni aspettativa. Ora esistevano alcune navi
che viaggiavano alla velocità della luce. Certo,
costavano più di qualsiasi altro mezzo mai esistito, ma
Ray non aveva più problemi di quel tipo: uranio. Un
intero asteroide di uranio. Ed era suo. Lo aveva scoperto
quasi per caso in uno dei sistemi visitati. Un satellite,
all'ombra di un grande pianeta, nascosto da questo.
Invisibile e freddo; ma ricco.
Il sole
occupava la quasi totalità dello schermo frontale.
Venere e Marte apparivano spenti, schiacciati ed oppressi
da quella massa gigantesca. E la terra era la.
Glielo
avevano detto:
«Basterebbe
girare in senso contrario alla rotazione terrestre alla
velocità della luce, per tornare indietro... sempre se
Einstein ha ragione.»
Ray voleva
rischiare: la nave l'aveva. Dall'ultimo risveglio aveva
pensato solo a quello. Aveva calcolato tutto nei minimi
particolari ed ora stava per farlo. La Terra emerse dal
monitor davanti a lui. Era stupenda. I suoi oceani e le
sue terre trasparivano al di sotto della coltre di nubi
mentre un sole nascente la inondava di luce. Pianse.
Lentamente si avvicinò all'orbita equatoriale
agganciandola; diresse la navicella fino a che non vide
il pianeta ruotare venendogli incontro; programmò la
durata e la potenza della spinta ed infine accese i
motori.
Quando
quella strana nave spaziale atterrò nello spazioporto
della megalopoli, nessuno ci fece caso e se qualcuno la
notò, pensò che fosse semplicemente un prototipo.
Frederick scese ansimando dalla scaletta: era vivo.
Immagini e suoni lo colpivano violentemente mentre il
sangue gli pulsava nel cervello. Era vivo. Ora il tempo
sembrava finire ad ogni istante, mentre lui si dirigeva
verso casa. La sua casa. La bramosia lo consumava e la
gioia di essere tornato lo sconvolgeva. Ronald era li.
Ray lo guardò, un attimo e poi lo abbracciò con
trasporto accarezzandogli i capelli. Taith era uscita
sulla soglia e lo fissava incredula. Gli si avvicinò e
mentre lo baciava gli disse:
«Ray, ma
non dovevi partire?»
«No,
Taith... ho appena cambiato idea.»
CALENDARIO, racconto di Giulio Mozzi
Una mattina
il figlio del calendario parlante si arrampicò su un
albero per gioco, perse l'equilibrio, cadde e morì. La
notizia fu data al calendario parlante dai genitori
naturali del ragazzo: bussarono alla porta della sua
casa, gli dissero che cos'era successo, e se ne andarono.
Il calendario parlante restò in casa per tutto il
giorno. Alla sera i genitori naturali del ragazzo
bussarono di nuovo alla porta del calendario parlante e
lo invitarono alla veglia. Il calendario parlante era
già pronto, vestito con i calzoni e la giacca neri e la
camicia bianca. Seguì l'uomo e la donna fino alla loro
casa. Lasciò i sandali sullo scalino della porta ed
entrò in casa a piedi nudi. Il ragazzo era disteso sul
letto. Sembrava tranquillo e soltanto la piegatura
innaturale del collo faceva capire che non poteva essere
vivo. I curatori dei morti lo avevano vestito di bianco,
lo avevano pettinato e gli avevano colorate le guance e
le labbra. Accanto al letto, su un tavolino basso,
c'erano le cose del ragazzo: il coltello pieghevole, il
colino e i filtri per l'acqua, il binocolo,alcune foglie
dell'albero dal quale era caduto. Il calendario parlante
restò in piedi e in silenzio per un po' di tempo, vicino
al letto, mentre i parenti del ragazzo stavano un passo
indietro per rispetto. Poi il calendario parlante tirò
fuori dalla tasca destra della giacca il regolo dei
giorni e lo mise sul tavolino vicino alle altre cose. Poi
chiese una sedia e un sigaro, e allora tutti
ricominciarono a muoversi e a parlare. Il calendario
parlante sedette sulla sedia a rovescio, appoggiando i
gomiti sullo schienale. Per tutta la notte fumò e
guardò il ragazzo, senza mai parlare, mentre i parenti
del ragazzo ammazzavano il tempo bevendo alcolici e
giocando a carte. Alcuni si ubriacarono, alcuni si
addormentarono in giro per la casa. All'alba i curatori
dei morti svegliarono tutti, poi appoggiarono gli oggetti
che erano sul tavolino sopra il corpo del ragazzo, lo
avvolsero nel lenzuolo e lo portarono fuori della casa
tenendolo alto sopra le loro teste. Il calendario
parlante e i parenti del ragazzo li seguirono. Nella
piazza era già pronto il fuoco e il ragazzo bruciò
rapidamente, con un odore strano. Quando il fuoco fu
spento e i curatori dei morti avevano già cominciato a
raccogliere la cenere, il calendario parlante strinse la
mano a tutti i parenti del ragazzo e tornò a casa. Uscì
quasi subito con il megafono in mano e cominciò a girare
per il paese, secondo il solito percorso, gridando: in
memoria di mio figlio, oggi è ieri! Molti pensarono
che era una cosa giusta, ricordare il ragazzo ripetendo
l'ultimo giorno nel quale il ragazzo era stato vivo; e
così in paese si conservò il lutto. Verso sera il
sindaco andò a trovare il calendario parlante e gli
disse: dovrai cercare un altro figlio. Il calendario
parlante disse: domani; oggi è ieri. Il giorno dopo il
calendario parlante di prima mattina era già in strada
con il megafono e gridava: oggi è ieri! oggi è ieri!
Qualcuno cominciò a pensare che la cosa era strana e
andò a dirlo al sindaco. Verso sera il sindaco andò a
trovare il calendario parlante e gli disse: allora domani
comincerai a cercare un altro figlio. Domani, disse il
calendario parlante. Il giorno dopo il calendario
parlante di prima mattina era già in strada con il
megafono e gridava: oggi è ieri! oggi è ieri! Il
sindaco, che era un uomo pio ma sensato, aspettò davanti
alla porta di casa che il calendario parlante finisse il
suo giro. Quando il calendario parlante cercò di
rientrare a casa il sindaco lo fermò e gli disse,
rispettosamente ma con fermezza, che non si poteva
prolungare indefinitamente il lutto; che gli uomini e le
donne del paese dovevano tornare al lavoro; che entro
qualche giorno sarebbe stato necessario cominciare i
raccolti; che, infine, bisognava che il calendario
parlante si prendesse un nuovo figlio: il calendario
parlante aveva una certa età e non si poteva correre il
rischio che il paese restasse senza calendario parlante.
Mentre il sindaco parlava il calendario aveva tenuti gli
occhi bassi, le braccia distese lungo il corpo, in un
atteggiamento molto remissivo. Quando il sindaco finì di
parlare il calendario parlante lo guardò negli occhi
finché il sindaco fu costretto ad abbassare gli occhi.
Allora il calendario parlante sollevò la mano destra,
nella quale teneva il megafono, e sbatté il megafono
contro la parete della sua casa, una, due, tre, quattro
volte, finché il megafono non fu completamente rotto.
Poi aprì la mano e lasciò cadere il manico inutile.
Allora, e solo allora, il calendario parlante cominciò a
piangere. Quell'anno sul paese cadde neve in piena
estate, ci fu sole bollente d'inverno, gli alberi persero
tutte le foglie in primavera e le riacquistarono in
autunno; i bambini smisero di crescere e gli adulti
cominciarono a comportarsi come bambini, giocando a
prendersi e a farsi gli scherzi con l'acqua; alle donne
anziane tornarono le mestruazioni, una rimase incinta e
mise al mondo un bel vecchio con la barba bianca. Il
calendario parlante ringiovanì, diventò un giovanotto
prestante che dava la caccia a tutte le ragazze, diventò
un adolescente insopportabile, diventò un bambino dolce
e ingenuo, un giorno non uscì più di casa e i suoi
piccoli compagni di giochi che spiarono dalle finestre
videro solo, al centro dell'unica stanza, un bianchissimo
e pulitissimo uovo, alto circa una spanna, che ondeggiava
leggermente come se, all'interno, si muovesse qualcosa.
AMORE, racconto di Giulio Mozzi
Il bambino
disse: «Voglio una pistola».
L'uomo
disse: «Va bene». Guidava piano, cercando un
parcheggio.
All'Upim il
bambino guardò tutte le pistole. Ne scelse una a
tamburo, di metallo nero e lucido, con l'impugnatura di
legno. Prese anche una confezione di cartucce e una
cintura da pistolero con la fondina. L'uomo pagò tutto.
A casa,
l'uomo portò subito il bambino in bagno. Lo spogliò e
lo mise nella vasca da bagno. Lo lavò con cura, con il
bagnoschiuma e la spugna. Il bambino stava dritto in
piedi dentro la vasca.
L'uomo
avvolse il bambino nell'asciugamano grande, lo portò in
camera da letto e lo distese sopra il letto grande. Aprì
l'asciugamano e cominciò a massaggiare delicatamente il
bambino. Lo toccava appena con la punta delle dita.
Quando
l'uomo toccò l'inguine del bambino, il bambino disse:
«Portami la pistola». L'uomo andò nell'ingresso e
prese la pistola dal sacchetto dell'Upim. La diede al
bambino.
Poi l'uomo
si spogliò e si distese sul letto vicino al bambino.
Stava disteso sul fianco destro e accarezzava ancora il
bambino con il palmo della mano sinistra. Il bambino era
disteso sulla schiena e teneva la pistola nella mano
destra. Guardava il soffitto e ogni tanto tendeva il
braccio destro verso l'alto.
L'uomo
baciò i capezzoli del bambino e poi cominciò a
leccargli il petto. Il sesso del bambino si mosse appena.
L'uomo lo prese in bocca e cominciò a succhiarlo
lentamente. Il bambino non si muoveva quasi più e teneva
il braccio destro, la pistola impugnata, appoggiato al
letto.
«Lascia
stare la pistola, adesso», disse l'uomo. Il bambino
disse: «No». Si inginocchiò e cominciò a toccare il
sesso dell'uomo con la canna della pistola. L'uomo si
abbandonò.
Il bambino
si sedette sopra il petto dell'uomo. Strinse la mano
sinistra alla base del sesso dell'uomo, che era diventato
gonfio, e continuò a toccarne la punta con la canna
della pistola.
L'uomo si
sollevò appoggiandosi sui gomiti. Era quasi seduto. Con
entrambe le mani prese il bambino per la vita. Ruotò in
modo da appoggiarlo sul fianco sul letto. Aprì le gambe
del bambino, infilò la testa in mezzo e di nuovo prese
il sesso in bocca.
Il bambino
cominciò a leccare il sesso dell'uomo. Evitava il glande
e la radice, lo toccava appena con la lingua, piccoli
colpi senza appoggiare. L'uomo invece teneva tutto il
sesso del bambino dentro la bocca. Poi il bambino si
distese, chiuse gli occhi.
Con un
brivido il bambino venne, una sola goccia molto liquida.
L'uomo la inghiottì, pulì il sesso del bambino con la
lingua. Il bambino rimase fermo, gli occhi ancora chiusi.
«Fai venire
anche me», disse l'uomo.
Il bambino
disse: «No», senza aprire gli occhi.
«Fammi
venire», disse ancora l'uomo.
Il bambino
aprì gli occhi e si inginocchiò. Puntò la pistola in
faccia all'uomo, tenendola con tutte e due le mani. «Ti
uccido», disse.
L'uomo
disse: «Io ti voglio bene».
«Non devi
muoverti», disse il bambino. Con la mano sinistra
continuò a tenere la pistola puntata in faccia all'uomo.
Con la destra prese il sesso dell'uomo vicino alla punta
e lo strinse forte.
«Mi fai
male», disse l'uomo. Ma non si mosse.
Il bambino
disse: «Se ti muovi ti uccido». Abbassò la mano destra
e scoprì il glande dell'uomo. Cominciò a pizzicarlo con
il pollice e l'indice. L'uomo chiuse gli occhi.
L'uomo venne
sussultando. Lo sperma, molto e denso, bagnò la mano del
bambino. Il bambino sfregò la mano sporca sulla pancia
dell'uomo.
L'uomo
restò disteso con gli occhi chiusi, respirò a fondo tre
volte, quattro. Aspettò un poco. Disse a bassa voce:
«Adesso ti riporto a casa, amore».
«Ti sei
mosso», disse il bambino. Infilò la canna della pistola
nell'ombelico dell'uomo e cominciò a spingere.
IL CIELO, racconto di Giulio Mozzi
Per me il
cielo è sempre stato qualcosa che stava molto in alto.
Da bambino abitavo in una cittadina di mare, d'estate
c'erano solo turisti in giro, il cielo era sempre molto
sereno e le nuvole, quando c'erano nuvole, erano cirri
lontanissimi e sottili.
Solo ogni
tanto il cielo si abbassava, diventava nero e si
abbassava fino alle cime delle case. A volte eravamo in
spiaggia e da lontano vedevamo il cielo che si abbassava,
diventava nero e sembrava srotolarsi sopra il mare come
un grosso panno di feltro. Scappavamo dalla spiaggia in
fretta e già in mezzo al vento, con la sabbia che ci
entrava negli occhi e gli ombrelloni che ci correvano
dietro rotolando e saltando.
«Svelti,
svelti», diceva la mamma. «Dobbiamo sbrigarci, prima
che arrivino le trombe d'aria.»
Le trombe
d'aria a volte le vedevamo davvero, quando il cielo basso
arrivava così in fretta che non ce la facevamo a
rifugiarci a casa. Allora ci schiacciavamo tutti dentro
al Gran Caffè del Mare, che aveva grandi vetrate e
grandi porte a vetri. Le trombe d'aria arrivavano e
passeggiavano sulla spiaggia, erano grandi colonne nere
che succhiavano la sabbia e lasciavano dei solchi
profondi fino a mezza gamba.
Perché poi
andavamo a vederli, naturalmente, i solchi. Erano una
grande meraviglia. La mamma diceva che se fossimo rimasti
in spiaggia la tromba ci avrebbe portati via. «Via
dove», domandavamo. «Via», diceva la mamma. «In
cielo.»
Ma queste
cose succedevano raramente. Per quasi tutto l'anno il
cielo era altissimo e non si avvicinava agli uomini.
Il mio
spavento più grande fu quando andammo in montagna, dal
nonno, a Lozzo di Cadore. Ci furono giorni di sole e poi
all'improvviso un giorno di nuvole. E le nuvole - io le
vedevo benissimo - erano più in basso di noi.
Mi ricordo
che piansi tanto per lo spavento. La mamma non riusciva a
capire, il nonno neanche. Quando il papà telefonò dalla
Romania, la sera, stavo piangendo ancora. Mi ricordo che
mi disse: «Non preoccuparti, anch'io per andare in
Romania ho preso l'aeroplano, sono passato attraverso il
cielo e non mi è successo niente di male».
Quando il
papà tornò dalla Romania mi costruì un aeroplanino
ritagliando il legno sottile delle cassette da frutta.
L'elica funzionava con l'elastico. Mi spiegò tutto, mi
ricordo ancora la parola portanza. Andavamo in
spiaggia a farlo volare e lo perdevamo sempre in mezzo
agli ombrelloni. Quando lo raccoglievamo mi sembrava una
cosa magica, perché quell'aeroplanino era stato nel
cielo, e perché sopra un aeroplano quasi uguale a
quello, però molto più grande, mio papà era volato
fino in Romania per lavorare.
Mi ricordo
che la Romania era lontanissima.
Fu l'anno
dopo che il papà mi disse, un giorno: «La prossima
notte ci saranno degli uomini che voleranno fino alla
luna». Quando venne buio andammo tutti sulla terrazza, e
il papà e la mamma ci parlarono a lungo della luna.
Dicevano che sulla luna forse vivevano degli animali
strani, magri e pallidi; oppure forse non ci viveva
nessuno: non si sapeva bene. Gli uomini andavano lì per
saperlo.
La notte
dopo andammo tutti al bar Nido d'oro, proprio sotto casa.
Avevano portata fuori la televisione e messe le sedie
tutte intorno. Noi andammo giù presto e così ci potemmo
sedere. A un certo punto però il papà si alzò per
lasciare il posto a una signora, e poi la mamma mi fece
sedere sulle sue ginocchia per lasciare il posto a un
altro signore anziano.
Io mi
addormentai. La mamma mi svegliò al momento giusto.
Dalle immagini dentro la televisione non si capiva tanto.
La mamma mi spiegava parlandomi sottovoce nell'orecchio,
ma la gente intorno gridava e batteva le mani. Ogni tanto
al posto delle immagini confuse facevano vedere Tito
Stagno che raccontava tutto in un modo semplice. Io
comunque avevo molto sonno e ogni tanto mi cadeva la
testa. Però mi ricordo benissimo quando Tito Stagno si
alzò in piedi battendo le mani e gridando forte: «Gol!
Gol!».
Dopo quel
giorno stavamo spesso fuori sulla terrazza, la sera, e
pensavamo a quegli uomini che erano così lontani. Il
papà costruì un cannocchiale con un tubo di cartone e
delle lenti, e diceva che quel cannocchiale avvicinava la
luna di cento volte. Anche guardandola col cannocchiale,
però, la luna restava lontanissima. Gli uomini che
c'erano sopra non si vedevano.
Poi, un
giorno, successe che venne un vento fortissimo. Restammo
chiusi in casa per tre giorni e c'era la paura
dell'alluvione. Era inverno, e l'anno dopo l'alluvione
venne veramente. Quell'anno invece bastò il vento, che
durò tre giorni e poi non ci fu più. Smise di notte, ce
ne accorgemmo tutti perché finì di colpo il rumore. Io
mi svegliai e andai in camera della mamma e del papà.
Avevo sognato che il vento portava via le cose e le
persone, e mi era venuta paura. Allora il papà mi mise
il cappotto sopra il pigiama, se lo mise anche lui, mi
prese in spalla e mi portò a fare il giro dell'isolato,
perché vedessi che era tutto a posto.
Io guardai
le cose e vidi che erano tutte a posto. Poi guardai in
alto e vidi che il cielo era tutto bianco. Anche il papà
guardò in alto, e si fermò ammirato. C'erano tantissime
stelle, non avevamo mai viste così tante stelle.
Sembrava che avessero gettato dello zucchero addosso al
cielo. E facevano tantissima luce. Restammo a guardare
tutte quelle stelle, anche se avevamo freddo. Il papà mi
disse: «Vedi, vicino a ognuna di quelle stesse c'è un
pianeta proprio uguale alla terra, e su ognuno di questi
pianeti c'è il mare. Vicino a tutti i mari ci sono dei
paesi, e in tutti i paesi vicino ai mari, in questo
momento, è notte. E' notte, è passato il vento, e in
ogni paese c'è un papà che va in giro nella notte, con
il suo bambino sulle spalle. E il papà e il bambino
guardano le stelle.»
E' per
questo, e in onore di mio padre, che ho deciso che da
grande voglio fare l'astronauta.
CHE COSA SONO
IO PER VOLTOLINI, E CHE COSA E' LUI PER ME?
di Roberta
Schiavon
Ci sono molti
modi di recensire un libro. Si può essere
"tecnici", si può essere "critici",
si può essere "emotivi" e così via. A noi
interessa innanzitutto restituire l'esperienza della
lettura. «Che cosa è stato, per te, leggere questo
libro? Che relazioni hai trovate tra ciò che hai letto e
la tua vita?»: queste sono le domande. A Roberta
Schiavon, scrittrice giovanissima (26 anni, ha pubblicato
due racconti nell'antologia Coda, ed. Transeuropa)
abbiamo chiesto di leggere e di raccontare per NAUTILUS Forme
d'onda di Dario Voltolini. Voltolini, classe 1959, ha
pubblicato tre volumi di brevi pezzi narrativi: Una
intuizione metropolitana (Bollati Boringhieri), Rincorse
(Einaudi) e appunto Forme d'onda (Feltrinelli).
Inoltre ha scritto con il musicista Nicola Campogrande,
classe 1969, un "melologo con canzoni"
intitolato Mosorrofa o dell'ottimismo (vedi
NAUTILUS di agosto 1996). E' sicuramente uno degli
scrittori più interessanti della sua generazione. (gm)
COPERTINA.
Per prima cosa in un libro c'è la copertina. In Forme
d'onda di Dario Voltolini (Feltrinelli, pp. 150, L.
28.000) nella copertina c'è una «cìcara dela luce»,
come si dice nel mio dialetto, cioè un isolatore fatto a
forma di tre campane di porcellana una infilata
sull'altra. Si trova in cima ai pali dove si incrociano i
fili elettrici ad alta tensione.
A casa di mia
nonna una «cìcara dela luce» serve a tenere aperta la
porta. A recuperare questa cosa in porcellana fu (quando
era piccola) mia mamma: si bagnò fino alle ginocchia per
andare a prenderla nel fosso.
MOTIVI PER
LEGGERE QUESTO LIBRO. Per imparare l'italiano. Io, in
casa e in paese, parlo dialetto. Nel dialetto posso
lasciarmi trasportare dal ritmo della conversazione senza
pensare al significato. Quando parlo italiano, penso al
significato e le parole nella frase hanno sempre una
posizione strana: non sono in grado di parlare ad
orecchio. Il libro di Voltolini serve a formare
l'orecchio: che manca, a volte, credo, anche a chi parla
italiano dalla nascita.
Non con tutti
i libri in prosa si può imparare il suono dell'italiano.
«Poiché una regola canonica della scrittura in prosa ha
sempre detto di fare in modo che la frase non richiami
l'attenzione su di sé (con rime interne, assonanze,
cacofonie, ripetizioni ravvicinate e così via), ecco che
chi scrive in prosa cerca di combinare le parole in modo
che il loro suono non copra il loro significato. Questo
grado zero della sonorità può essere raggiunto solo
perché il suono della lingua madre ci accompagna sempre
e qualcosa che gli accordi passa sullo sfondo. Non già
perché sia possibile azzerare in assoluto il suono della
lingua. Questo va tenuto ben presente. Ecco però allora
che a me vien voglia spesso - non sempre - di farlo
invece ben percepire, questo suono, uno di questi suoni
dell'italiano» (intervista a Dario Voltolini, in Maltese
- narrazioni, n. 19, 1996).
Io vorrei
fare in modo che il significato delle parole non coprisse
il loro suono. Parlare come cantare, senza pensare al
significato, dovrebbe essere molto rilassante.
ESPERIMENTI.
Voltolini è bravo perché studia. I suoi testi si
leggono ad alta voce, creano effetti strani: il suono di
cui si parlava prima (cf. il CD Mosorrofa). Ogni
racconto un esperimento. E' per questo che non ci si può
ubriacare della sua prosa: non scorre al di fuori della
sua volontà. Di questo Voltolini è consapevole:
parlando del racconto «Pavana del viale» spiega:
«Tutte queste virgole dovrebbero almeno ottenere che la
comprensione del significato delle frasi venga differita
quanto meno fino alla fine delle stesse, e non prima, in
modo da evitare effetti di velocizzazione della lettura»
(Maltese, id.).
E' il lettore
che spinge molto lentamente fino a formare una
fascinazione, ma molto astratta e fragile.
POLPA DI
GRANCHIO. Ogni volta che leggo un bel libro penso che
questo libro sia stato scritto per me. Così mi sono
chiesta se la fascinazione che Voltolini produce può
servire a qualcosa, dal momento che, per me, tutto deve
servire a qualcosa. Cioè: perché Voltolini (mi) scrive?
Mi è
sembrato di poter dare una risposta dopo aver letto due
racconti che parlano (anche) di polpa di granchio:
«Obrycki's» e «Sapateira».
Da
«Obrycki's»: «Il punto è che non passano molti minuti
prima che gli avventori regrediscano a uno stato
selvaggio, strappandosi i granchi di mano e martellando
come falegnami in ritardo, come se i preparativi per la
serata li avessero fatti in una vita precedente, il
profumo, la giacca, il nodo alla cravatta, il calzino e
un'ultima strofinata alla scarpa. Schizzi di salsa e
corazze sbriciolate, cesti di rifiuti a lato e boccali
branditi con un gemito, giù a martellate, e picchia
sulla lama, abbandona la posata, abbranca la chela e
spezzala, succhia la polpa con stridore contorciti per
angolare le fauci negli ultimi recessi del granchio e
prendine subito un altro e bevi che picchia e le signore
spaccano carapaci con le dita introdotte a cercare polpa
e polpa bianca e generosa dopo essersi tanto nascosta ora
guizza sulla carta del tavolo attenta che cade!» (pp.
20-21).
Da
«Sapateira»: «Mi arriva questa ghiotta macchina da
guerra, questo crostaceo più largo del piatto, e prendo
a martellarne le chele. Si sprigiona il sapore del mare,
fresco e seducente, e adesso, dopo qualche mese, noto
guardando sull'atlante che Lisbona è all'altezza di
Baltimora. Stanno di fronte, città di granchi. Questo
qui lo chiamano Sapateira. L'odore salmastro è sessuale,
iodato» (p. 142)
SVILIRE/SVELARE.
«Molto bello, ma quante storie per un po' di polpa di
granchio», ho pensato io che lavoro in una trattoria di
pesce. Da circa otto anni il fine settimana sono una
cameriera extra. Nel posto dove lavoro c'è solo il menù
fisso: pesce lesso e frittura di pesce con polenta. La
polpa di granchio fa parte del pesce lesso. Quando
preparo la vaschetta di plastica bianca ci metto, insieme
ai polpi e alle seppie, la polpa di granchio. Facendo
presto, calcolando ad occhio il peso (perché si paga a
peso) prendo questi tubetti arancione dal mucchio sopra
il frigo di metallo, li sguscio dal cellophane e li
taglio a pezzi corti.
Quando i
clienti hanno finito di mangiare, vado ai tavoli a
spreparare, butto quello che hanno avanzato in un'unica
vaschetta di plastica sporca. Tutto insieme: verde della
pancia dei polpi, zampe di seppia, spicchi di limone
spremuti e polpa di granchio avanzata perché «il gusto
non era molto buono».
Quando faccio
il travaso dei piatti penso che i clienti siano degli
animali cattivi. Animali perché è normale la loro
voracità e il loro spreco, non c'è in loro alcuna
innaturalità; cattivi perché anche se io ho dei soldi
grazie a loro, loro rendono vile il cibo che mangiano, i
passi che io metto uno dietro l'altro, la cucina, i miei
movimenti, me. Niente è prezioso e degno di essere
conservato.
Voltolini
(mi) scrive e capisco che le cose sono molto belle, svela
la loro forma che non sono capace di vedere quando passo
tra gli oggetti e le persone perché i miei sensi sono
tappati (mi difendo).
Perché
Voltolini (mi) scrive?
Per
contrastare il naturale il processo di svilimento.
STRUTTURE.
Come fa Voltolini a capire la preziosità degli
oggetti? Come riesce a tenere aperti i suoi sensi?
Risposte: uno, non scrive mai di cose verso le quali
nutre antipatia; due, vede la comunanza fra tutte le
cose.
Troviamo a p.
61 («Teatro» ): «...non possiamo non vedere la
comunanza di strutture, non possiamo non credere di
intuire la rete fitta di fili trasparenti che resta
sospesa come le ciglia di dea che dorma: un'idea di
natura.»
In
«L'aeroplano» Voltolini racconta di un bambino che
lancia un aeroplano di carta attraverso il cortile del
condominio. L'aeroplano, dopo aver volato, rimane sospeso
in aria sopra un terrazzino, dall'altra parte del
cortile. Il bambino corre in cortile per vedere più da
vicino questa cosa magica. «Due fili erano tesi per la
larghezza del balcone. Due fili sottili, per stendere
biancheria leggera. (...) I due fili anche si
incontravano in un punto (...) E proprio lì, in uno dei
due angoli dell'incrocio, era andato a infilarsi il muso
acuto dell'aeroplanino, restando impigliato e fermo.
(...) Rispetto a tutte le soluzioni più magiche del
mistero, questa reale - fatta di geometria e caso - era
assai superiore.» (pp. 78-79).
Ogni racconto
di Voltolini è tenuto insieme da queste strutture, fatte
di geometria e caso, sottili come i trasparenti fili di
biancheria che imbrigliano l'aeroplanino. E il racconto
è come un isolatore all'incrocio di più fili elettrici.
Si raccontano
fatti e si descrivono oggetti che tra loro,
apparentemente, non hanno nessuna continuità. Eppure
esiste ciò che collega: «C'è questa voglia che
contiene mille voglie che tutte insieme vogliono
recuperare ogni cosa che possa servire per riuscire a
dire quello che a lungo si è pensato. O meglio ancora
c'è una soglia oltre la quale sappiamo che ci sono altre
soglie e, tuttavia, passata questa non si torna indietro:
e scegli pure la storia classica, scegli pure la cosa
reinventata, scegli pure lo scontro frontale, oppure
sguscia da dietro e cogli di sorpresa: tutto quello che
fai oltre la soglia testimonia di un'unica voglia, che è
la voglia di dire una sola grande cosa: che non importa
quanto alti siano i muri neri, quanto stretto il tempo
scorra garrota attorno al collo, quanto friabile diventi
il pavimento: la sola cosa è che, in tutto questo tempo,
nonostante tutto e nonostante noi stessi, noi abbiamo
pensato lo stesso» (pp. 62-63).
Che cosa
posso avere in comune con Voltolini, io che non parlo
neppure la stessa lingua, che non riesco a sentire allo
stesso modo, che vedo nella polpa di granchio e nella
«cìcara dela luce» non qualcosa da apprezzare di per
sé stessa ma avanzi rottami che sono stati buttati via,
che non contano niente e non hanno valore.
Che cosa mi
accomuna a Voltolini?
La
contemplazione.
IL MARE.
A volte ho dei momenti di grazia. Guardo dalla finestra e
vedo quello che vede Voltolini. «Nella penombra della
camera da letto entra un soffio di aria fresca. La porta
sul balcone è aperta. Dagli scuri socchiusi filtra la
prima luce del giorno. Molli tende alla finestra
placidamente si muovono gonfiandosi e ricadendo come
veli. E' il movimento di un respiro regolare da
dormiente. Lui, nella piazza del letto più vicina al
balcone, sta per svegliarsi» (p. 11).
Io scrivo dei
pensierini e poi mi viene da cantare. E suono (male) il
flauto dolce e la chitarra, e ballo senza nessuna scuola,
e tutto mi sembra collegato, «e tutto insieme non pesa
niente» (p. 106). E' davvero una gioia non aggressiva, e
non c'è niente da mutare: «"Non sono io,
quello", pensa. Le dice: "Non sono io quello
che ti vuole spianare, ti vuole rifare, ti vuole
razionalizzare, io sono solo il chirurgo plastico, il
dermatologo, il fisioterapista, calmati, bestia"»
(p. 92).
E se ho
qualche dubbio che la contemplazione possa bastare a
salvarci dal ridiventare rottami che producono rottami,
la nostra forza sta nella capacità di vedere tutto come
se guardassimo il mare e di salutarlo perché siamo certi
di ritornare.
LE AVVENTURE
DI AL CULTMAN:
Oggetti di culto degli
adolescenti d'oggi: libri, film, fumetti...
di Alberto
Fassina
Momentaneamente in prestito
dal diario inesistente di Al
Cultman
"ma vuoi che nelle sere di primavera
non la vada a prendere con un
fiore
con la macchina e con la benzina
per magari fare un giro in
collina"
Perché l'ascolto e la riascolto
questa canzone, che tra laltro parla anche di
Gesù.
E l'ascolto per questa frase,
semplice, e spero anche io di avere un giorno una
macchina, suonarle, regalare un fiore.
Semplice, poco originale. Ma cosa
importa, sono innamorato.
della macchina della benzina.
Di lei. Suonarle: "Puoi
scendere?"
"Ok arrivo"
"Ma le fragole lo sa
col limone lei lo sa
fanno male male
senza amore"
Ti penti, ti penti di baci, dati
così a caso
che lei spera in qualcosa di più.
Vuoi aspettare, c'è confusione?
E se fai partire un bacio. Se lo
fai partire che sia di quelli che non scordi più
Almeno
Che il cinema, e quei baci sono
diversi.
Le fragole... senza amore.
E poi le aspettative sbagliate. Ti
penti la sera a letto. Di carezze date perché non puoi
vivere senza coccole.
Non puoi vivere senza che nessuno
ti accarezzi i capelli il sabato sera.
A letto ti penti.
"Perché la vita è
incontrarsi illuminare il buio
perché la vita è scontrarsi
magari sotto il sole
... si può anche morire per
certe carezze
perché la vita è morire per
certe cose non dette
perché è la dove contano gli
imbarazzi
gli imbarazzi e le
timidezze."
Le carezze sono micidiali. Meglio
di birra vino
Meglio di qualsiasi sigaretta, di
qualsiasi passeggiata.
Meglio di qualsiasi rimedio per
quando si litiga. Per quando sembra che nessuno ti vuole
bene.
Avere qualcuno che ti accarezza.
Che dice qualcosa in un orecchio.
La voce bassa. La bocca fa rumori
di parole che si staccano piano piano. Si staccano dalle
labbra, dalla lingua. (parole che si stropicciano)
Fanno rumore, lì tra l'orecchio i
capelli.
Una parola micidiale.
Non la scrivo
ognuno ha la sua.
"Amando le donne si fanno
1.000 km
per dire ciao come va?
Come stai?
Passavo di qua per caso"
Sarei passato per forza a farti gli
auguri.
Non potevo che questo compleanno
passasse, che quest'anno cominciasse, che questo Natale
finisse
senza i miei auguri
senza appoggiare le labbra alla tua
guancia.
Non poteva non andare così, ho
controllato i tuoi movimenti, quando esci, quando prendi
l'autobus
E' tutto il giorno che giro
sperando di incrociarti
adesso che ti vedo
ti assicuro che è tutto diverso.
Con i miei auguri, io sto bene
spero anche tu.
"Gli autobus di notte...
... randagi come cani li ho
visti traballare
con certi meccanismi rotti fare
troppo rumore
nessuno gli sta cercando...
sono locomotive su binari morti
sonno le vecchie idee anche
quelle forti nessuno ormai le usa.
... non ti fanno un po
spavento
tenerezza...
anche se inutili
generosi...
provare rispetto per i vecchi
motori
che non vorrebbero lasciarci mai
non vorrebbero mai morire."
Notte solo a guardare cose diverse
dal giorno.
a pensare a idee che hanno perso
colori. Sembra che domani potrebbero cambiare tutte le
cose. Sembra che domani ci sarà più energia. Più
voglia. Idee geniali. Voti migliori.
Domani persone nuove da incontrare.
Solo diciotto anni, domani può succedere di tutto
Anche questa notte.
"ed il sesso è un problema
oppure no?"
Lunghi silenzi
Scritte le parole per quanto belle
siano non bastano
parole bellissime, non mi bastano.
Una registrazione, le sue parole.
Non fatemi parlare. Non fatemi scrivere.
Parole belle ma non bastano a
descrivere a raccontare.
E' un problema? Forse si. E' giusto
stare così bene?
E giusto stare bene, bisogna
meritarselo. Bisogna obbedire ai grandi.
Bisogna mantenere i segreti.
E' giusto stare così bene, o devo
chiedere il permesso a qualcuno.
Fare l'amore adesso? Non so se sia
gusto
Le dico sotto voce.
Lunghi silenzi.
"I professori non
chiedevano mai se eravamo felici"
Si entra in classe. Il tempo passa
a guardare i compagni. Sorrido, se prendono appunti e
stanno attenti mi vengono i sensi di colpa. I professori
parlano, anche più del necessario. Anche di più della
lezione.
Voi siete una classe, siete vicino
alla maturità, siete migliorati, il compito è
insufficiente.
Perché se copiate copierete
sempre.
Siete felici. Adesso al di là
della lezione. Al di là della mattina.
Siete felici?
Non l'ha mai chiesto nessuno.
"Le sigarette con il male
che fanno erano le uniche
amiche...
Io intanto cercavo le chiavi per
aprire me e il
mondo
come fanno quelli bravi che
smontano le radio
e ci guardano dentro
Alla mattina tutto è bellissimo
sembra tutto lì da
inventare
alla sera ogni sera qualcosa che
manca qualcosa
che stanca...
tu sei una canzone...
chi ti ha dato il diritto di
farmi del male?"
"Ho abbracciato anche la
radio per la voce di una dj."
La voce
può fare grandi cose
ascoltando Carboni non abbraccio la
radio.
Ma lo ringrazio.
Perché le sue parole assomigliano
alla mia vita.
ascoltandolo mi dà sicurezza. Che
anche lui ha provato, che anche lui si è chiesto, che
anche lui non ha capito
quello che non riesco a capire io.
Alberto Fassina
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