a cura di Giulio Mozzi - gennaio 1997

Letture


NOVE NUOVI RACCONTI BREVI, ANZI BREVISSIMI

Si dice che in Italia non si leggano racconti. Gli stessi editori sostengono che un libro di racconti, proprio perché è di racconti, ha una speranza di vendita del 40% rispetto a un romanzo con caratteristiche analoghe (es.: stesso autore, stesso tipo di scrittura, stessa confezione editoriale ecc.). Sarà vero? Non sarà vero? In fondo almeno un paio dei libri di culto della nuova narrativa italiana sono libri di racconti (Altri libertini, di Pier Vittorio Tondelli; Compleanno dell'Iguana di Silvia Ballestra). E gli scrittori d'importazione che più hanno influenzato la cosiddetta nuova narrativa italiana sono probabilmente i cosiddetti minimalisti americani: autori (in particolare Raymond Carver e David Leavitt) di splendidi racconti o di romanzi brevissimi (come Meno di zero di Ellis). In questo NAUTILUS vi proponiamo, dopo i due racconti lunghi del numero di dicembre (di Matteo Galiazzo e Gianpiero Valente), un mazzetto di racconti brevissimi (e, almeno nelle intenzioni degli autori, fulminanti). Buona lettura.

Gli autori: FABIO FRACAS (f.fracas{Sostituisci con chiocciola}pd.nettuno.it) è nato in un piccolo paese della Toscana un giorno autunnale di quasi trent'anni fa. Da quel momento ha cambiato case (sette), città (quattro) e interessi (tanti), vivendo intensamente (forse anche troppo) e cercando di divertirsi. Di mestiere insegna informatica presso gli istituti superiori ed i centri di formazione ma si occupa anche di Cinema e, soprattutto, di Giochi di Ruolo. Ha un diploma di Musica Elettronica, una laurea in Fisica, una moglie da mantenere e una grande passione: scrivere. Per NAUTILUS ha compilato la puntata del Corso di scrittura narrativa dedicata ai giochi di ruolo (novembre 1996).

VITALIANO TREVISAN è nato nel 1960. Nel corso della sua esistenza ha svolto i seguenti lavori: facchino, operaio in una tegolaia, operaio metalmeccanico, cameriere, arredatore, disegnatore, operaio in una fabbrica di barche a vela, manovale, muratore, tagliaboschi, progettista di cucine componibili e mobili in genere, geometra comunale. Attualmente lavora come operaio lattoniere. Ha pubblicato i racconti di Trio senza pianoforte (editrice Veneta, vedi NAUTILUS agosto 1996). In aprile 1997 presso Theoria uscirà il romanzo: Un mondo meraviglioso.

GIULIO MOZZI è redattore di Nautilus. Ha pubblicato due volumi di racconti: Questo è il giardino, Theoria 1993; La felicità terrena, Einaudi 1996. Con Silvia Ballestra ha curato Coda, un volume di racconti scritti da ragazze e ragazzi con meno di 25 anni, in libreria a gennaio 1997 (ed. Transeuropa). In febbraio 1997 uscirà, presso Theoria, un volume di saggi e racconti sullo scrivere intitolato Parole private dette in pubblico.

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PICCIONI, racconto di Vitaliano Trevisan

Lavorare sui tetti, ogni giorno almeno un tetto diverso, ha i suoi vantaggi. Il mondo, visto dall'alto, sembra un mondo meno brutto, le città sono città viste dall'alto, le zone industriali zone industriali viste dall'alto, tutto assume dunque un aspetto diverso, un aspetto dall'alto, comunque migliore del normale aspetto dal basso. E poi arrampicarsi sui tetti e camminare su quei tetti ci piace, non sappiamo esattamente perché, ma ci piace, abbiamo la sensazione di essere bambini che ogni giorno vanno a giocare proprio là dove la mamma non vuole assolutamente che vadano a giocare.

Comunque la storia è questa:

Eravamo sul tetto di un condominio di sette piani, per cambiare tutte le grondaie, in lamiera verniciata, con grondaie nuove, in rame, e andavamo avanti e indietro con i pezzi di grondaia sulle spalle, converse batti-acqua eccetera. Tojo, il nostro capo, stava saldando un pezzo di grondaia in un angolo. Noi andiamo su fin quasi sul colmo, per togliere un pezzo di grondaia vecchia, e sotto la falda troviamo un nido di piccioni con dentro due uova di piccione. Prendiamo in mano le due uova e pensiamo: due uova di piccione, abbiamo trovato due uova di piccione. Ehi Tojo, gridiamo, guarda: due uova di piccione! Lui si alza, ci raggiunge sul colmo e fa: Ah, due uova di piccione, come se fosse la cosa più normale del mondo. E poi fa: Sai, dice, una volta, quando ancora lavoravo con mio padre, un giorno andammo a sistemare il tetto di un campanile. Facemmo tutto il lavoro all'esterno e poi andammo dentro la cuspide per sistemare due o tre cosette. Beh, dice Tojo, dentro la cuspide trovammo decine di nidi di piccione, tutto pieno di nidi di piccione, e ogni nido c'erano due piccoli che ancora non sapevano volare. Venivano fuori con la testina dal nido, due testine ogni nido e tutta la cuspide era piena di testine, una cosa impressionante. Dev'essere stato bello, diciamo noi, con le uova di piccione in mano. Beh insomma, fa Tojo con la lancia ancora accesa in mano. Comunque, mio padre mi fa: Vai giù, prendi le reti per le finestre e un sacco, muoviti. Vado più, prendo reti e sacco e torno su di corsa. Bene, fa mio padre. Prende le reti e chiude con le reti tutte le finestre. Poi prende il sacco, afferra i piccoli di piccione uno per uno, li tira fuori dal nido, gli tira il collo uno per uno e li getta dentro il sacco. Non se n'è fatto scappare uno. Ma, diciamo noi, e le reti? perché le reti alle finestre se i piccoli non sapevano volare? Ah, fa Tojo, le reti non erano per loro, erano per non far entrare i padri e le madri. Dovevi vederli: sembravano impazziti!, se fossero riusciti a entrare ci avrebbero fatto a pezzi. E poi?, chiedemmo. Ahhh, fa Tojo, uno spiedo come quello me lo ricorderò per tutta la vita.

Rimettemmo le uova al loro posto e riprendemmo a lavorare, perché, come sempre, avevamo fretta.

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HILTI, racconto di Vitaliano Trevisan

Avendo della Svizzera un'idea molto precisa, non abbiamo alcuna difficoltà a immaginare che il direttore dell'ufficio vendite dell'Hilti, fabbrica svizzera il cui marchio è notissimo nel campo dell'edilizia e attività affini, tanto che non esiste muratore, elettricista, idraulico, carpentiere, montatore o lattoniere, che non abbia usato almeno una volta un trapano a percussione o un avvitatore o un martello demolitore della marca in questione, che questo direttore delle vendite, essendo un uomo molto preciso, un giorno si sia chiesto per quale oscuro motivo, in un'area geografico-economica i cui confini coincidevano perfettamente con i confini amministrativi del comune di Caldogno, non si riuscisse a vendere una pistola sparachiodi che fosse una. I tabulati di vendita relativi al prodotto in questione parlavano chiaro: da ventinove anni non un sola pistola sparachiodi di marca Hilti era stata venduta in quel comune. Per tutti gli altri prodotti nessun problema, anzi, le cose andavano più che bene, ma quell'articolo... Allora il direttore delle vendite dell'Hilti avrà subito chiamato il responsabile vendite per il nord Italia, il quale a sua volta avrà contattato l'agente di zona, il quale avrà parlato col rappresentante, il quale, forse, gli avrà raccontato la storia che Mauro, un giorno che eravamo a mangiare in trattoria durante la pausa di mezzogiorno, raccontò a noi. Ecco, con parole nostre, la storia che Mauro ci raccontò con parole sue:

il giorno sette di giugno del 1963, il muratore G.L., un uomo conosciuto e stimato in tutto il paese di Caldogno e anche più in là, caricò la sua nuova sparachiodi Hilti TKT 200 e tirò indietro la molla, non senza prima aver tarato l'attrezzo alla potenza massima. Doveva piantare quel chiodo in una putrella d'acciaio, il perché Mauro non lo sa, perciò non lo sappiamo nemmeno noi. Comunque, G.L. appoggiò l'estremità dell'attrezzo all'ala della putrella e premette il grilletto. Forse non appoggiò la sparachiodi in modo corretto, forse lo fregò il rinculo, forse scivolò nel momento esatto in cui premeva il grilletto, forse la cartuccia difettosa... il chiodo non si piantò, schizzò via con un'angolazione precisa ma non calcolabile, rimbalzò su uno dei tubi innocenti, di spessore trenta decimi circa, diametro 60 mm, che componevano l'impalcatura, e penetrò lateralmente G.L. nell'occhio destro di cui lacerò e spappolò, al passaggio, la cornea, la pupilla, il cristallino, l'iride, la retina, il muscolo ciliare, in definitiva distruggendo l'occhio in tutte le sue parti; continuò la corsa, trapassò, fratturandolo in modo scomposto, il setto nasale, ed ebbe ancora la forza di farsi strada nell'occhio sinistro, dove restò conficcato.

G.L. si portò le mani agli occhi e si accasciò, tutto senza suoni. Fu subito soccorso da un compagno di lavoro e dall'idraulico, che quel giorno si trovava in cantiere per scavare le tracce. I due caricarono G.L. nel furgone dell'impresa e lo accompagnarono, alla massima velocità possibile, al pronto soccorso dell'ospedale di Thiene, dove la suora che per prima lo soccorse, dopo avergli pulito la faccia, prese una pinza e gli cavò il chiodo, un atto del tutto inconsulto, che provocò la lesione irreparabile del nervo ottico dell'occhio sinistro. Il buio assoluto si era fatto strada dentro di lui, sfruttando a suo vantaggio tutte le circostanze del caso.

Quella puttana di suora, disse Mauro. Comunque, continuò, nessuno ha più usato una sparachiodi a Caldogno.

Incredibile, dissi io, versando la bustina di zucchero nel caffè, una storia davvero incredibile.

Se non ci credi, fece Mauro, chiedi al rappresentante dell'Hilti, il tipo con la barba che viene da noi ogni tanto. Chiedigli quante sparachiodi negli ultimi trent'anni. Nemmeno una.

No, rispose sorridendo il rappresentante dell'Hilti, che era venuto in capannone circa una settimana più tardi a portare una serie di punte per il trapano, a Caldogno si vende tutto meno le sparachiodi. Sparachiodi, nemmeno una.

Ringrazio Mauro, per la storia, e Trieste Antonio per alcune spiegazioni tecniche relative al funzionamento e all'uso proprio delle pistole sparachiodi. Non sono riuscito a procurarmi una pistola sparachiodi Hilti del 1963. Ho visto il cieco G.L. solo una volta, di profilo, mentre beveva un bicchiere di vino bianco al bar vicino alla chiesa di Caldogno.

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HIFORD, EZECHIEL, racconto di Vitaliano Trevisan

Ogni giorno ci sono circa cinque camion da caricare. Delle volte sono solo quattro. Altre volte addirittura sei. Si lavora fino alle otto di sera, delle volte. Si fanno gli straordinari, si sgobba. Non è possibile che sia solo per un po' di soldi in più a fine mese. Ci sembra impossibile. Sembra piuttosto, così i dirigenti, lo spirito dell'azienda: se ci si deve fermare per caricare un camion in più ci si ferma e basta. Anche Hiford si ferma. Il ghanese che tutti chiamano Tyson per le dimensioni del suo collo. Un tipo molto pacifico Hiford. Sulla faccia ha delle cicatrici. Non ci ricordiamo chi gli abbia chiesto qualcosa in proposito. Lui comunque ha detto che sono i segni della sua tribù. Caricando i camion continua a cantare. Canta e ha sempre un sorriso sulle labbra. Noi continuiamo a rompergli le scatole: «Ehi, Tyson, perché non canti mai qualcosa di italiano?» continuiamo a dirgli. Lui una volta ha detto: «Musica italiana no ha ritmo. No è alegra», così ha detto Hiford. E ci viene in mente che una volta eravamo in un locale ad ascoltare un concerto di percussionisti e tra i percussionisti ce n'era uno africano, Ezechiele si chiamava, e nessuno stava ballando. La musica sembrava fatta apposta per ballare, eppure non ballava nessuno. Ezechiele allora si alzò e disse: «Perché no ballate? E' sabato bisogna balare. Lavoro finito fino a lunedì. Baliamo!». Aveva ragione da vendere. Ma nessuno ballò.

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CAFFE', racconto di Vitaliano Trevisan

F., dice E., che con F. ha lavorato per anni ad attaccare fili del telefono, su e giù per i pali per oltre venti anni, non era del tutto normale, era come si dice "un po' indietro", non parlava nemmeno bene, balbettava, aveva l'erre moscia, la esse sibilante, e la effe, quando lui pronunciava una parola con la effe - una parola come caffè per esempio - non sembrava neppure una effe, ma un suono in mezzo tra la esse e la effe, una specie di esfe insomma. Ma era un grande lavoratore, instancabile e anche molto simpatico. Fumava come un turco, dice E., una cicca dietro l'altra, e col mozzicone di una attaccava la successiva. Incredibile quanto fumava!, una cosa da non credere, mai visto nessuno fumare così tanto. Ma la sua vera passione non era il tabacco, ma il caffè. Dovunque andassimo, dice E., F. voleva caffè. Ci fermavamo al bar per prendere qualcosa?, F. si beveva un caffè. Estate, inverno, tutti i momenti sempre caffè. E se qualcuno, vedendoci fuori a lavorare, ci invitava in casa per offrirci un bicchiere di vino, lui rifiutava il vino e chiedeva caffè. anzi, dice E., non lo chiedeva direttamente: Moka?, diceva, m-m-moka signora? di solito la signora capiva e faceva subito il caffè, e più lo faceva forte più F. era contento: la cicca in una mano e la tazza di caffè nell'altra: felice. Tanto gli piaceva il caffè, dice E., che più di una volta espresse il desiderio di morire bevendo caffè, con la tazza di caffè in mano e nella bocca e nel naso l'aroma di caffè. M-m-morire così sarebbe p-p-proprio b-bello, non è m-m-morire così, n-no!, diceva F, dice E. E una sera sua moglie gli fece il caffè, forte come lo voleva lui, e poi uscì un attimo nell'orto. Tornò poco dopo. Lo chiamò. Lui era seduto al tavolo di cucina, ma non rispose. Lei lo chiamò di nuovo e, visto che ancora non rispondeva, gli si avvicinò e lo scrollò. Solo allora si accorse che era morto stecchito: la mano destra stretta attorno alla tazza di caffè, una cicca che fumava ancora tra le dita della sinistra. Una bella morte, disse E., proprio la morte che F. aveva sempre sognato.

Ordinammo due caffè. Li faccia forti, dicemmo al barista, più forti che può.

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5'8'' , racconto di Fabio Fracas

Chissà quanto tempo è passato. 3. Devono essere ore. 4. Mark chiude gli occhi. 5. Si appoggia allo schienale della sedia. 8. La mano destra comincia a dargli fastidio. 10. Ora! 11. La pallina si comprime ancora una volta mentre le sue dita le si serrano attorno. 2, 3. Mark pensa, chissà se Sarah mi vedesse così. 5. Sorride e apre gli occhi. 8,9. Davanti a lui, separati da un vetro, ci sono tre uomini con un camice bianco. 10. Ora! 11. Gli uomini lo guardano e gli sorridono. 3. Uno è basso e tarchiato, con dei folti baffi scuri che gli si arricciano ai lati della bocca. 4. Un altro è più giovane e senza baffi ma assomiglia al primo e potrebbe essere suo fratello. 5. Il terzo è biondo e con una corta barba dorata sulle guance. 6. Mark è la prima volta che li vede. 7. Probabilmente anche l'ultima. 9, 10. Ora! 11. La sensazione di fastidio alla mano comincia a aumentare. 3,4. Gli sembra che la pallina scotti fra le sue dita. 6. Naturalmente è impossibile, 8, solo che a lui sembra proprio così. 10. Ora! 11. Mark osserva la propria mano destra. 5. Normale. 6. Una normalissima mano di un normalissimo ragazzo di ventun anni che stringe ogni normalissimi 11 secondi una normalissima pallina verde. 10. Ora! 11. A ben guardare, la mano è leggermente arrossata vicino al pollice. 2. Mark pensa che forse dipende dal fatto che la pallina è appena più piccola del palmo e quindi, ogni volta che stringe, sfrega in quel punto con l'unghia dell'indice. 7. Anche l'avambraccio è leggermente indolenzito. 8. Probabilmente si gonfierà il muscolo. 9, 10. Ora! 11. Mark guarda verso i tre uomini al di là del vetro. 3. Adesso sono chini sui loro strumenti. 4. Quello con la barba solleva la testa. 6. Dice qualcosa agli altri e poi la riabbassa. 10. Ora! 11. Anche l'altro, quello più basso, comincia a parlare. 3. Mark non può ascoltare a causa del vetro. 6. Socchiude gli occhi e cerca di osservare i movimenti della bocca. 10. Ora! 11. Una fitta al braccio. 2. La fitta lo distrae. 3. Mark pensa, tanto non ci capivo niente. 5,6. Il dolore è stato improvviso. 8. Mark è stanco. 10. Ora! 11. Vorrebbe alzarsi per sgranchirsi le gambe. 3. Sulle caviglie ci sono collegati i sensori. 4. Anche sui polsi, sul torace e sulla testa. 8,9. Soprattutto sulla testa 10. Ora! 11. Mark osserva il proprio riflesso sul vetro. 2. È ridicolo. 3. Dalle estremità dei sensori partono decine di fili colorati gialli, blu, rossi. 6,7. Alcuni hanno strisce di colori differenti: blu e rosso, giallo e blu. 10. Ora! 11. Una serie di fili gli scende dalla testa e striscia fino ad un grande apparecchio. 3. Gli altri sono collegati a altre macchine. 5. Il grande apparecchio emette un sordo ronzio e ogni tanto una specie di bip. 8,9. Bip. 10. Ora! 11. Mark pensa che forse quel bip e collegato al suo stringere o meno la palla. 3,4. Rimane in ascolto. 6,7,8,9. 10. Ora! 11. No, non è collegato, 2. Bip. 3. Un'altra fitta. 5. Questa volta più forte. 7, 8. Anche alla testa. 10. Ora! 11. Mark osserva gli altri apparecchi. 2. Alla sua destra c'è una specie di scatola quadrata di metallo. 5. Più in là ce n'è un'altra. 7. La prima è, bip, rivolta verso di lui, 8, la seconda guarda verso il vetro. 10. Ora! 11. Nella scatola c'è un piccolo pannello di comando e un monitor di controllo. 6. È una specie di oscillatore. 7. Sotto la base della scatola si connettono i fili che gli partono dalla gamba destra e dal braccio sinistro. 10. Ora! 11. Bip. 2. Dentro il monitor una linea verde traccia una scia discontinua che parte da sinistra verso destra. 5. Ogni volta che la scia riparte la macchina emette un basso ronzio. 8. Ronzio. 10. Ora! 11. Mark chiude gli occhi e ascolta. 3. Ronzio. 6. Bip. 8,9, Ronzio. 10. Ora! 11. Anche il ronzio non è regolare. 2. Dolore. 3 Direttamente alla testa. 4. Ronzio. 6. La mano comincia a sudare. 8. Anche la fronte è imperlata. 10. Ora! 11. Bip. 3. Sarah mi starà aspettando, 5, ormai non mancherà molto... 6. Ronzio. 7. Fitta. 9. Mark sente il sangue pulsargli. 10. Ora! 11. È un ritmo costante. 3. Gli pulsa nel polso. 4 Bip. 5. Anche in testa, ronzio. 7. Sono stanco. 9 L'uomo tarchiato si accarezza i baffi. 10. Ora! 11. L'altro, il fratello, si alza e gli parla. 2. Ronzio. 3 Il primo risponde. 4. Anche il terzo si alza e indica Mark. 5. Fa un segno col capo. 7. Ronzio. 8,9. Bip. 10. Ora! 11. Il sangue gli pulsa nelle orecchie. 2. È un po' come il mare. 4 Fitta. 6. Ora basta. 8. Gli sembra che gli uomini, ronzio, 9, stiano litigando. 10. Ora! 11. Mark guarda, li guarda, pulsazione. 2. Loro non lo stanno guardando, Ronzio. 4. Mark solleva il braccio sinistro per richiamare la loro attenzione. 6. Bip, pulsazione. 7. Il braccio gli sembra pesante. 8. I fili si tendono. 9. Ronzio. 10. Ora! 11. Mark riabbassa il braccio. 2. I fili si rilassano e ricadono al suolo. Pulsazione. 4. Mark chiama i tre uomini, ehi, mi sentite? 7. Ronzio. 8. Bip. 9. Pulsazione. 10. Ora! 11. Nessuna risposta. 2. Ehi, sto parlando con voi! 3. Pulsazione. 4. Fitta. 5. Bastardi!. 7. Ronzio. 8. L'uomo magro si arrabbia. 9. Pulsazione. 10. Ora! 11. Mark pensa, ronzio, deve essere il vetro. 2. Probabilmente non mi sentono a causa del vetro. 3. Bip. 4. Maledetti soldi... maledetto esperimento. 5. Mark cerca di rilassarsi, pulsazione. 6. Sente una porta aprirsi. 7. Guarda gli altri fili. 8. Guarda le altre macchine. 9. Ronzio, pulsazione. 10. Ora! 11. Fitta al braccio destro. 2. Fitta alla testa, pulsazione. 3. Senso di nausea, ronzio. 4. Mark si alza di scatto, bip. 5. I fili si strappano, ronzio. 6. Due uomini lo osservano, il terzo si avvicina. 7. Mark è in piedi, pulsazione, 8, gli gira la testa, ronzio, 9, casca all'indietro, bip. 10. Ora. 11.

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AL MOMENTO GIUSTO, racconto di Fabio Fracas

Ray Frederick era un pioniere; un pioniere dello spazio. All'epoca della Grande Espansione si era arruolato volontariamente nel corpo dei pionieri terrestri ed era partito per colonizzare Ghendel: pianeta esterno del settore meridionale della nebulosa Arten. Ghendel era un pianeta ricco: plutonio, oro e uranio abbondavano sugli strati più esterni della sua superficie e Ray era povero. Talmente povero che tutta la propria quota di ingaggio l'aveva lasciata a sua moglie Taith e a suo figlio Ronald. Ray sapeva che non sarebbe più potuto tornare.

«Un viaggio; ti passa in fretta», gli avevano detto.

«Dormirai e quando ti sarai risvegliato ti sembrerà che sia passata solo una notte; ma per la tua famiglia, per la terra, saranno passati centotrent'anni. Non rivedrai più nessuno di quelli che conosci... pensaci bene prima di firmare.»

Non poteva pensarci. In una terra popolata da venti miliardi di persone, quelli come lui, i poveri, non vivevano comunque a lungo. Con la sua paga, invece, Taith sarebbe diventata ricca e magari Ronald avrebbe potuto studiare, forse laurearsi... ed avrebbe ringraziato suo padre per questo.

«Eccoti la quota, ragazzo. Questo è quello che una persona normale riuscirebbe a guadagnare in circa cent'anni... lavorando dieci ore al giorno. Eppure, non vale quella firma: questo è il tuo compenso per morire.»

Ray osservava lo spazio, vuoto, scuro, nero come un incubo, che si stendeva al di là della navicella. Gli occhi incollati sul monitor esterno, la mente ancorata ai ricordi.

Più di mille anni, pensò. Più di mille anni...

Da quel primo viaggio Frederick aveva preferito correre per il cosmo inseguito dai ricordi, piuttosto che fermarsi ad affrontarli. Corsa dopo corsa, sonno dopo sonno, aveva visitato gli angoli più sperduti della galassia colonizzando decine di pianeti. Per la Terra erano passati più di mille anni, ma per lui tutto sembrava essersi fermato. Reagiva perfettamente all'ibernazione, i suoi tessuti non si indebolivano e la vita continuava prepotentemente a scorrergli dentro il corpo. Lui era speciale. Gli altri potevano sopportare solo una volta il lungo sonno, massimo due. Poi morivano. Era come se il peso del tempo di cui si erano fatti beffe, fosse ricaduto di colpo su di loro, annientandoli. Ma lui no. Aveva già dormito decine di volte e non ne aveva risentito. Per Ray Frederick erano passati poco più di tre anni da quando era partito.

La navicella era quasi arrivata. Era nelle vicinanze del sistema solare e lo spazio cominciò a poco a poco a punteggiarsi delle luci delle stelle.

Ray sorrise. Nei mille anni trascorsi la tecnologia si era evoluta al di là di ogni aspettativa. Ora esistevano alcune navi che viaggiavano alla velocità della luce. Certo, costavano più di qualsiasi altro mezzo mai esistito, ma Ray non aveva più problemi di quel tipo: uranio. Un intero asteroide di uranio. Ed era suo. Lo aveva scoperto quasi per caso in uno dei sistemi visitati. Un satellite, all'ombra di un grande pianeta, nascosto da questo. Invisibile e freddo; ma ricco.

Il sole occupava la quasi totalità dello schermo frontale. Venere e Marte apparivano spenti, schiacciati ed oppressi da quella massa gigantesca. E la terra era la.

Glielo avevano detto:

«Basterebbe girare in senso contrario alla rotazione terrestre alla velocità della luce, per tornare indietro... sempre se Einstein ha ragione.»

Ray voleva rischiare: la nave l'aveva. Dall'ultimo risveglio aveva pensato solo a quello. Aveva calcolato tutto nei minimi particolari ed ora stava per farlo. La Terra emerse dal monitor davanti a lui. Era stupenda. I suoi oceani e le sue terre trasparivano al di sotto della coltre di nubi mentre un sole nascente la inondava di luce. Pianse. Lentamente si avvicinò all'orbita equatoriale agganciandola; diresse la navicella fino a che non vide il pianeta ruotare venendogli incontro; programmò la durata e la potenza della spinta ed infine accese i motori.

Quando quella strana nave spaziale atterrò nello spazioporto della megalopoli, nessuno ci fece caso e se qualcuno la notò, pensò che fosse semplicemente un prototipo. Frederick scese ansimando dalla scaletta: era vivo. Immagini e suoni lo colpivano violentemente mentre il sangue gli pulsava nel cervello. Era vivo. Ora il tempo sembrava finire ad ogni istante, mentre lui si dirigeva verso casa. La sua casa. La bramosia lo consumava e la gioia di essere tornato lo sconvolgeva. Ronald era li. Ray lo guardò, un attimo e poi lo abbracciò con trasporto accarezzandogli i capelli. Taith era uscita sulla soglia e lo fissava incredula. Gli si avvicinò e mentre lo baciava gli disse:

«Ray, ma non dovevi partire?»

«No, Taith... ho appena cambiato idea.»

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CALENDARIO, racconto di Giulio Mozzi

Una mattina il figlio del calendario parlante si arrampicò su un albero per gioco, perse l'equilibrio, cadde e morì. La notizia fu data al calendario parlante dai genitori naturali del ragazzo: bussarono alla porta della sua casa, gli dissero che cos'era successo, e se ne andarono. Il calendario parlante restò in casa per tutto il giorno. Alla sera i genitori naturali del ragazzo bussarono di nuovo alla porta del calendario parlante e lo invitarono alla veglia. Il calendario parlante era già pronto, vestito con i calzoni e la giacca neri e la camicia bianca. Seguì l'uomo e la donna fino alla loro casa. Lasciò i sandali sullo scalino della porta ed entrò in casa a piedi nudi. Il ragazzo era disteso sul letto. Sembrava tranquillo e soltanto la piegatura innaturale del collo faceva capire che non poteva essere vivo. I curatori dei morti lo avevano vestito di bianco, lo avevano pettinato e gli avevano colorate le guance e le labbra. Accanto al letto, su un tavolino basso, c'erano le cose del ragazzo: il coltello pieghevole, il colino e i filtri per l'acqua, il binocolo,alcune foglie dell'albero dal quale era caduto. Il calendario parlante restò in piedi e in silenzio per un po' di tempo, vicino al letto, mentre i parenti del ragazzo stavano un passo indietro per rispetto. Poi il calendario parlante tirò fuori dalla tasca destra della giacca il regolo dei giorni e lo mise sul tavolino vicino alle altre cose. Poi chiese una sedia e un sigaro, e allora tutti ricominciarono a muoversi e a parlare. Il calendario parlante sedette sulla sedia a rovescio, appoggiando i gomiti sullo schienale. Per tutta la notte fumò e guardò il ragazzo, senza mai parlare, mentre i parenti del ragazzo ammazzavano il tempo bevendo alcolici e giocando a carte. Alcuni si ubriacarono, alcuni si addormentarono in giro per la casa. All'alba i curatori dei morti svegliarono tutti, poi appoggiarono gli oggetti che erano sul tavolino sopra il corpo del ragazzo, lo avvolsero nel lenzuolo e lo portarono fuori della casa tenendolo alto sopra le loro teste. Il calendario parlante e i parenti del ragazzo li seguirono. Nella piazza era già pronto il fuoco e il ragazzo bruciò rapidamente, con un odore strano. Quando il fuoco fu spento e i curatori dei morti avevano già cominciato a raccogliere la cenere, il calendario parlante strinse la mano a tutti i parenti del ragazzo e tornò a casa. Uscì quasi subito con il megafono in mano e cominciò a girare per il paese, secondo il solito percorso, gridando: in memoria di mio figlio, oggi è ieri! Molti pensarono che era una cosa giusta, ricordare il ragazzo ripetendo l'ultimo giorno nel quale il ragazzo era stato vivo; e così in paese si conservò il lutto. Verso sera il sindaco andò a trovare il calendario parlante e gli disse: dovrai cercare un altro figlio. Il calendario parlante disse: domani; oggi è ieri. Il giorno dopo il calendario parlante di prima mattina era già in strada con il megafono e gridava: oggi è ieri! oggi è ieri! Qualcuno cominciò a pensare che la cosa era strana e andò a dirlo al sindaco. Verso sera il sindaco andò a trovare il calendario parlante e gli disse: allora domani comincerai a cercare un altro figlio. Domani, disse il calendario parlante. Il giorno dopo il calendario parlante di prima mattina era già in strada con il megafono e gridava: oggi è ieri! oggi è ieri! Il sindaco, che era un uomo pio ma sensato, aspettò davanti alla porta di casa che il calendario parlante finisse il suo giro. Quando il calendario parlante cercò di rientrare a casa il sindaco lo fermò e gli disse, rispettosamente ma con fermezza, che non si poteva prolungare indefinitamente il lutto; che gli uomini e le donne del paese dovevano tornare al lavoro; che entro qualche giorno sarebbe stato necessario cominciare i raccolti; che, infine, bisognava che il calendario parlante si prendesse un nuovo figlio: il calendario parlante aveva una certa età e non si poteva correre il rischio che il paese restasse senza calendario parlante. Mentre il sindaco parlava il calendario aveva tenuti gli occhi bassi, le braccia distese lungo il corpo, in un atteggiamento molto remissivo. Quando il sindaco finì di parlare il calendario parlante lo guardò negli occhi finché il sindaco fu costretto ad abbassare gli occhi. Allora il calendario parlante sollevò la mano destra, nella quale teneva il megafono, e sbatté il megafono contro la parete della sua casa, una, due, tre, quattro volte, finché il megafono non fu completamente rotto. Poi aprì la mano e lasciò cadere il manico inutile. Allora, e solo allora, il calendario parlante cominciò a piangere. Quell'anno sul paese cadde neve in piena estate, ci fu sole bollente d'inverno, gli alberi persero tutte le foglie in primavera e le riacquistarono in autunno; i bambini smisero di crescere e gli adulti cominciarono a comportarsi come bambini, giocando a prendersi e a farsi gli scherzi con l'acqua; alle donne anziane tornarono le mestruazioni, una rimase incinta e mise al mondo un bel vecchio con la barba bianca. Il calendario parlante ringiovanì, diventò un giovanotto prestante che dava la caccia a tutte le ragazze, diventò un adolescente insopportabile, diventò un bambino dolce e ingenuo, un giorno non uscì più di casa e i suoi piccoli compagni di giochi che spiarono dalle finestre videro solo, al centro dell'unica stanza, un bianchissimo e pulitissimo uovo, alto circa una spanna, che ondeggiava leggermente come se, all'interno, si muovesse qualcosa.

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AMORE, racconto di Giulio Mozzi

Il bambino disse: «Voglio una pistola».

L'uomo disse: «Va bene». Guidava piano, cercando un parcheggio.

All'Upim il bambino guardò tutte le pistole. Ne scelse una a tamburo, di metallo nero e lucido, con l'impugnatura di legno. Prese anche una confezione di cartucce e una cintura da pistolero con la fondina. L'uomo pagò tutto.

A casa, l'uomo portò subito il bambino in bagno. Lo spogliò e lo mise nella vasca da bagno. Lo lavò con cura, con il bagnoschiuma e la spugna. Il bambino stava dritto in piedi dentro la vasca.

L'uomo avvolse il bambino nell'asciugamano grande, lo portò in camera da letto e lo distese sopra il letto grande. Aprì l'asciugamano e cominciò a massaggiare delicatamente il bambino. Lo toccava appena con la punta delle dita.

Quando l'uomo toccò l'inguine del bambino, il bambino disse: «Portami la pistola». L'uomo andò nell'ingresso e prese la pistola dal sacchetto dell'Upim. La diede al bambino.

Poi l'uomo si spogliò e si distese sul letto vicino al bambino. Stava disteso sul fianco destro e accarezzava ancora il bambino con il palmo della mano sinistra. Il bambino era disteso sulla schiena e teneva la pistola nella mano destra. Guardava il soffitto e ogni tanto tendeva il braccio destro verso l'alto.

L'uomo baciò i capezzoli del bambino e poi cominciò a leccargli il petto. Il sesso del bambino si mosse appena. L'uomo lo prese in bocca e cominciò a succhiarlo lentamente. Il bambino non si muoveva quasi più e teneva il braccio destro, la pistola impugnata, appoggiato al letto.

«Lascia stare la pistola, adesso», disse l'uomo. Il bambino disse: «No». Si inginocchiò e cominciò a toccare il sesso dell'uomo con la canna della pistola. L'uomo si abbandonò.

Il bambino si sedette sopra il petto dell'uomo. Strinse la mano sinistra alla base del sesso dell'uomo, che era diventato gonfio, e continuò a toccarne la punta con la canna della pistola.

L'uomo si sollevò appoggiandosi sui gomiti. Era quasi seduto. Con entrambe le mani prese il bambino per la vita. Ruotò in modo da appoggiarlo sul fianco sul letto. Aprì le gambe del bambino, infilò la testa in mezzo e di nuovo prese il sesso in bocca.

Il bambino cominciò a leccare il sesso dell'uomo. Evitava il glande e la radice, lo toccava appena con la lingua, piccoli colpi senza appoggiare. L'uomo invece teneva tutto il sesso del bambino dentro la bocca. Poi il bambino si distese, chiuse gli occhi.

Con un brivido il bambino venne, una sola goccia molto liquida. L'uomo la inghiottì, pulì il sesso del bambino con la lingua. Il bambino rimase fermo, gli occhi ancora chiusi.

«Fai venire anche me», disse l'uomo.

Il bambino disse: «No», senza aprire gli occhi.

«Fammi venire», disse ancora l'uomo.

Il bambino aprì gli occhi e si inginocchiò. Puntò la pistola in faccia all'uomo, tenendola con tutte e due le mani. «Ti uccido», disse.

L'uomo disse: «Io ti voglio bene».

«Non devi muoverti», disse il bambino. Con la mano sinistra continuò a tenere la pistola puntata in faccia all'uomo. Con la destra prese il sesso dell'uomo vicino alla punta e lo strinse forte.

«Mi fai male», disse l'uomo. Ma non si mosse.

Il bambino disse: «Se ti muovi ti uccido». Abbassò la mano destra e scoprì il glande dell'uomo. Cominciò a pizzicarlo con il pollice e l'indice. L'uomo chiuse gli occhi.

L'uomo venne sussultando. Lo sperma, molto e denso, bagnò la mano del bambino. Il bambino sfregò la mano sporca sulla pancia dell'uomo.

L'uomo restò disteso con gli occhi chiusi, respirò a fondo tre volte, quattro. Aspettò un poco. Disse a bassa voce: «Adesso ti riporto a casa, amore».

«Ti sei mosso», disse il bambino. Infilò la canna della pistola nell'ombelico dell'uomo e cominciò a spingere.

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IL CIELO, racconto di Giulio Mozzi

Per me il cielo è sempre stato qualcosa che stava molto in alto. Da bambino abitavo in una cittadina di mare, d'estate c'erano solo turisti in giro, il cielo era sempre molto sereno e le nuvole, quando c'erano nuvole, erano cirri lontanissimi e sottili.

Solo ogni tanto il cielo si abbassava, diventava nero e si abbassava fino alle cime delle case. A volte eravamo in spiaggia e da lontano vedevamo il cielo che si abbassava, diventava nero e sembrava srotolarsi sopra il mare come un grosso panno di feltro. Scappavamo dalla spiaggia in fretta e già in mezzo al vento, con la sabbia che ci entrava negli occhi e gli ombrelloni che ci correvano dietro rotolando e saltando.

«Svelti, svelti», diceva la mamma. «Dobbiamo sbrigarci, prima che arrivino le trombe d'aria.»

Le trombe d'aria a volte le vedevamo davvero, quando il cielo basso arrivava così in fretta che non ce la facevamo a rifugiarci a casa. Allora ci schiacciavamo tutti dentro al Gran Caffè del Mare, che aveva grandi vetrate e grandi porte a vetri. Le trombe d'aria arrivavano e passeggiavano sulla spiaggia, erano grandi colonne nere che succhiavano la sabbia e lasciavano dei solchi profondi fino a mezza gamba.

Perché poi andavamo a vederli, naturalmente, i solchi. Erano una grande meraviglia. La mamma diceva che se fossimo rimasti in spiaggia la tromba ci avrebbe portati via. «Via dove», domandavamo. «Via», diceva la mamma. «In cielo.»

Ma queste cose succedevano raramente. Per quasi tutto l'anno il cielo era altissimo e non si avvicinava agli uomini.

Il mio spavento più grande fu quando andammo in montagna, dal nonno, a Lozzo di Cadore. Ci furono giorni di sole e poi all'improvviso un giorno di nuvole. E le nuvole - io le vedevo benissimo - erano più in basso di noi.

Mi ricordo che piansi tanto per lo spavento. La mamma non riusciva a capire, il nonno neanche. Quando il papà telefonò dalla Romania, la sera, stavo piangendo ancora. Mi ricordo che mi disse: «Non preoccuparti, anch'io per andare in Romania ho preso l'aeroplano, sono passato attraverso il cielo e non mi è successo niente di male».

Quando il papà tornò dalla Romania mi costruì un aeroplanino ritagliando il legno sottile delle cassette da frutta. L'elica funzionava con l'elastico. Mi spiegò tutto, mi ricordo ancora la parola portanza. Andavamo in spiaggia a farlo volare e lo perdevamo sempre in mezzo agli ombrelloni. Quando lo raccoglievamo mi sembrava una cosa magica, perché quell'aeroplanino era stato nel cielo, e perché sopra un aeroplano quasi uguale a quello, però molto più grande, mio papà era volato fino in Romania per lavorare.

Mi ricordo che la Romania era lontanissima.

Fu l'anno dopo che il papà mi disse, un giorno: «La prossima notte ci saranno degli uomini che voleranno fino alla luna». Quando venne buio andammo tutti sulla terrazza, e il papà e la mamma ci parlarono a lungo della luna. Dicevano che sulla luna forse vivevano degli animali strani, magri e pallidi; oppure forse non ci viveva nessuno: non si sapeva bene. Gli uomini andavano lì per saperlo.

La notte dopo andammo tutti al bar Nido d'oro, proprio sotto casa. Avevano portata fuori la televisione e messe le sedie tutte intorno. Noi andammo giù presto e così ci potemmo sedere. A un certo punto però il papà si alzò per lasciare il posto a una signora, e poi la mamma mi fece sedere sulle sue ginocchia per lasciare il posto a un altro signore anziano.

Io mi addormentai. La mamma mi svegliò al momento giusto. Dalle immagini dentro la televisione non si capiva tanto. La mamma mi spiegava parlandomi sottovoce nell'orecchio, ma la gente intorno gridava e batteva le mani. Ogni tanto al posto delle immagini confuse facevano vedere Tito Stagno che raccontava tutto in un modo semplice. Io comunque avevo molto sonno e ogni tanto mi cadeva la testa. Però mi ricordo benissimo quando Tito Stagno si alzò in piedi battendo le mani e gridando forte: «Gol! Gol!».

Dopo quel giorno stavamo spesso fuori sulla terrazza, la sera, e pensavamo a quegli uomini che erano così lontani. Il papà costruì un cannocchiale con un tubo di cartone e delle lenti, e diceva che quel cannocchiale avvicinava la luna di cento volte. Anche guardandola col cannocchiale, però, la luna restava lontanissima. Gli uomini che c'erano sopra non si vedevano.

Poi, un giorno, successe che venne un vento fortissimo. Restammo chiusi in casa per tre giorni e c'era la paura dell'alluvione. Era inverno, e l'anno dopo l'alluvione venne veramente. Quell'anno invece bastò il vento, che durò tre giorni e poi non ci fu più. Smise di notte, ce ne accorgemmo tutti perché finì di colpo il rumore. Io mi svegliai e andai in camera della mamma e del papà. Avevo sognato che il vento portava via le cose e le persone, e mi era venuta paura. Allora il papà mi mise il cappotto sopra il pigiama, se lo mise anche lui, mi prese in spalla e mi portò a fare il giro dell'isolato, perché vedessi che era tutto a posto.

Io guardai le cose e vidi che erano tutte a posto. Poi guardai in alto e vidi che il cielo era tutto bianco. Anche il papà guardò in alto, e si fermò ammirato. C'erano tantissime stelle, non avevamo mai viste così tante stelle. Sembrava che avessero gettato dello zucchero addosso al cielo. E facevano tantissima luce. Restammo a guardare tutte quelle stelle, anche se avevamo freddo. Il papà mi disse: «Vedi, vicino a ognuna di quelle stesse c'è un pianeta proprio uguale alla terra, e su ognuno di questi pianeti c'è il mare. Vicino a tutti i mari ci sono dei paesi, e in tutti i paesi vicino ai mari, in questo momento, è notte. E' notte, è passato il vento, e in ogni paese c'è un papà che va in giro nella notte, con il suo bambino sulle spalle. E il papà e il bambino guardano le stelle.»

E' per questo, e in onore di mio padre, che ho deciso che da grande voglio fare l'astronauta.

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CHE COSA SONO IO PER VOLTOLINI, E CHE COSA E' LUI PER ME?

di Roberta Schiavon

Ci sono molti modi di recensire un libro. Si può essere "tecnici", si può essere "critici", si può essere "emotivi" e così via. A noi interessa innanzitutto restituire l'esperienza della lettura. «Che cosa è stato, per te, leggere questo libro? Che relazioni hai trovate tra ciò che hai letto e la tua vita?»: queste sono le domande. A Roberta Schiavon, scrittrice giovanissima (26 anni, ha pubblicato due racconti nell'antologia Coda, ed. Transeuropa) abbiamo chiesto di leggere e di raccontare per NAUTILUS Forme d'onda di Dario Voltolini. Voltolini, classe 1959, ha pubblicato tre volumi di brevi pezzi narrativi: Una intuizione metropolitana (Bollati Boringhieri), Rincorse (Einaudi) e appunto Forme d'onda (Feltrinelli). Inoltre ha scritto con il musicista Nicola Campogrande, classe 1969, un "melologo con canzoni" intitolato Mosorrofa o dell'ottimismo (vedi NAUTILUS di agosto 1996). E' sicuramente uno degli scrittori più interessanti della sua generazione. (gm)

COPERTINA. Per prima cosa in un libro c'è la copertina. In Forme d'onda di Dario Voltolini (Feltrinelli, pp. 150, L. 28.000) nella copertina c'è una «cìcara dela luce», come si dice nel mio dialetto, cioè un isolatore fatto a forma di tre campane di porcellana una infilata sull'altra. Si trova in cima ai pali dove si incrociano i fili elettrici ad alta tensione.

A casa di mia nonna una «cìcara dela luce» serve a tenere aperta la porta. A recuperare questa cosa in porcellana fu (quando era piccola) mia mamma: si bagnò fino alle ginocchia per andare a prenderla nel fosso.

MOTIVI PER LEGGERE QUESTO LIBRO. Per imparare l'italiano. Io, in casa e in paese, parlo dialetto. Nel dialetto posso lasciarmi trasportare dal ritmo della conversazione senza pensare al significato. Quando parlo italiano, penso al significato e le parole nella frase hanno sempre una posizione strana: non sono in grado di parlare ad orecchio. Il libro di Voltolini serve a formare l'orecchio: che manca, a volte, credo, anche a chi parla italiano dalla nascita.

Non con tutti i libri in prosa si può imparare il suono dell'italiano. «Poiché una regola canonica della scrittura in prosa ha sempre detto di fare in modo che la frase non richiami l'attenzione su di sé (con rime interne, assonanze, cacofonie, ripetizioni ravvicinate e così via), ecco che chi scrive in prosa cerca di combinare le parole in modo che il loro suono non copra il loro significato. Questo grado zero della sonorità può essere raggiunto solo perché il suono della lingua madre ci accompagna sempre e qualcosa che gli accordi passa sullo sfondo. Non già perché sia possibile azzerare in assoluto il suono della lingua. Questo va tenuto ben presente. Ecco però allora che a me vien voglia spesso - non sempre - di farlo invece ben percepire, questo suono, uno di questi suoni dell'italiano» (intervista a Dario Voltolini, in Maltese - narrazioni, n. 19, 1996).

Io vorrei fare in modo che il significato delle parole non coprisse il loro suono. Parlare come cantare, senza pensare al significato, dovrebbe essere molto rilassante.

ESPERIMENTI. Voltolini è bravo perché studia. I suoi testi si leggono ad alta voce, creano effetti strani: il suono di cui si parlava prima (cf. il CD Mosorrofa). Ogni racconto un esperimento. E' per questo che non ci si può ubriacare della sua prosa: non scorre al di fuori della sua volontà. Di questo Voltolini è consapevole: parlando del racconto «Pavana del viale» spiega: «Tutte queste virgole dovrebbero almeno ottenere che la comprensione del significato delle frasi venga differita quanto meno fino alla fine delle stesse, e non prima, in modo da evitare effetti di velocizzazione della lettura» (Maltese, id.).

E' il lettore che spinge molto lentamente fino a formare una fascinazione, ma molto astratta e fragile.

POLPA DI GRANCHIO. Ogni volta che leggo un bel libro penso che questo libro sia stato scritto per me. Così mi sono chiesta se la fascinazione che Voltolini produce può servire a qualcosa, dal momento che, per me, tutto deve servire a qualcosa. Cioè: perché Voltolini (mi) scrive?

Mi è sembrato di poter dare una risposta dopo aver letto due racconti che parlano (anche) di polpa di granchio: «Obrycki's» e «Sapateira».

Da «Obrycki's»: «Il punto è che non passano molti minuti prima che gli avventori regrediscano a uno stato selvaggio, strappandosi i granchi di mano e martellando come falegnami in ritardo, come se i preparativi per la serata li avessero fatti in una vita precedente, il profumo, la giacca, il nodo alla cravatta, il calzino e un'ultima strofinata alla scarpa. Schizzi di salsa e corazze sbriciolate, cesti di rifiuti a lato e boccali branditi con un gemito, giù a martellate, e picchia sulla lama, abbandona la posata, abbranca la chela e spezzala, succhia la polpa con stridore contorciti per angolare le fauci negli ultimi recessi del granchio e prendine subito un altro e bevi che picchia e le signore spaccano carapaci con le dita introdotte a cercare polpa e polpa bianca e generosa dopo essersi tanto nascosta ora guizza sulla carta del tavolo attenta che cade!» (pp. 20-21).

Da «Sapateira»: «Mi arriva questa ghiotta macchina da guerra, questo crostaceo più largo del piatto, e prendo a martellarne le chele. Si sprigiona il sapore del mare, fresco e seducente, e adesso, dopo qualche mese, noto guardando sull'atlante che Lisbona è all'altezza di Baltimora. Stanno di fronte, città di granchi. Questo qui lo chiamano Sapateira. L'odore salmastro è sessuale, iodato» (p. 142)

SVILIRE/SVELARE. «Molto bello, ma quante storie per un po' di polpa di granchio», ho pensato io che lavoro in una trattoria di pesce. Da circa otto anni il fine settimana sono una cameriera extra. Nel posto dove lavoro c'è solo il menù fisso: pesce lesso e frittura di pesce con polenta. La polpa di granchio fa parte del pesce lesso. Quando preparo la vaschetta di plastica bianca ci metto, insieme ai polpi e alle seppie, la polpa di granchio. Facendo presto, calcolando ad occhio il peso (perché si paga a peso) prendo questi tubetti arancione dal mucchio sopra il frigo di metallo, li sguscio dal cellophane e li taglio a pezzi corti.

Quando i clienti hanno finito di mangiare, vado ai tavoli a spreparare, butto quello che hanno avanzato in un'unica vaschetta di plastica sporca. Tutto insieme: verde della pancia dei polpi, zampe di seppia, spicchi di limone spremuti e polpa di granchio avanzata perché «il gusto non era molto buono».

Quando faccio il travaso dei piatti penso che i clienti siano degli animali cattivi. Animali perché è normale la loro voracità e il loro spreco, non c'è in loro alcuna innaturalità; cattivi perché anche se io ho dei soldi grazie a loro, loro rendono vile il cibo che mangiano, i passi che io metto uno dietro l'altro, la cucina, i miei movimenti, me. Niente è prezioso e degno di essere conservato.

Voltolini (mi) scrive e capisco che le cose sono molto belle, svela la loro forma che non sono capace di vedere quando passo tra gli oggetti e le persone perché i miei sensi sono tappati (mi difendo).

Perché Voltolini (mi) scrive?

Per contrastare il naturale il processo di svilimento.

STRUTTURE. Come fa Voltolini a capire la preziosità degli oggetti? Come riesce a tenere aperti i suoi sensi? Risposte: uno, non scrive mai di cose verso le quali nutre antipatia; due, vede la comunanza fra tutte le cose.

Troviamo a p. 61 («Teatro» ): «...non possiamo non vedere la comunanza di strutture, non possiamo non credere di intuire la rete fitta di fili trasparenti che resta sospesa come le ciglia di dea che dorma: un'idea di natura.»

In «L'aeroplano» Voltolini racconta di un bambino che lancia un aeroplano di carta attraverso il cortile del condominio. L'aeroplano, dopo aver volato, rimane sospeso in aria sopra un terrazzino, dall'altra parte del cortile. Il bambino corre in cortile per vedere più da vicino questa cosa magica. «Due fili erano tesi per la larghezza del balcone. Due fili sottili, per stendere biancheria leggera. (...) I due fili anche si incontravano in un punto (...) E proprio lì, in uno dei due angoli dell'incrocio, era andato a infilarsi il muso acuto dell'aeroplanino, restando impigliato e fermo. (...) Rispetto a tutte le soluzioni più magiche del mistero, questa reale - fatta di geometria e caso - era assai superiore.» (pp. 78-79).

Ogni racconto di Voltolini è tenuto insieme da queste strutture, fatte di geometria e caso, sottili come i trasparenti fili di biancheria che imbrigliano l'aeroplanino. E il racconto è come un isolatore all'incrocio di più fili elettrici.

Si raccontano fatti e si descrivono oggetti che tra loro, apparentemente, non hanno nessuna continuità. Eppure esiste ciò che collega: «C'è questa voglia che contiene mille voglie che tutte insieme vogliono recuperare ogni cosa che possa servire per riuscire a dire quello che a lungo si è pensato. O meglio ancora c'è una soglia oltre la quale sappiamo che ci sono altre soglie e, tuttavia, passata questa non si torna indietro: e scegli pure la storia classica, scegli pure la cosa reinventata, scegli pure lo scontro frontale, oppure sguscia da dietro e cogli di sorpresa: tutto quello che fai oltre la soglia testimonia di un'unica voglia, che è la voglia di dire una sola grande cosa: che non importa quanto alti siano i muri neri, quanto stretto il tempo scorra garrota attorno al collo, quanto friabile diventi il pavimento: la sola cosa è che, in tutto questo tempo, nonostante tutto e nonostante noi stessi, noi abbiamo pensato lo stesso» (pp. 62-63).

Che cosa posso avere in comune con Voltolini, io che non parlo neppure la stessa lingua, che non riesco a sentire allo stesso modo, che vedo nella polpa di granchio e nella «cìcara dela luce» non qualcosa da apprezzare di per sé stessa ma avanzi rottami che sono stati buttati via, che non contano niente e non hanno valore.

Che cosa mi accomuna a Voltolini?

La contemplazione.

IL MARE. A volte ho dei momenti di grazia. Guardo dalla finestra e vedo quello che vede Voltolini. «Nella penombra della camera da letto entra un soffio di aria fresca. La porta sul balcone è aperta. Dagli scuri socchiusi filtra la prima luce del giorno. Molli tende alla finestra placidamente si muovono gonfiandosi e ricadendo come veli. E' il movimento di un respiro regolare da dormiente. Lui, nella piazza del letto più vicina al balcone, sta per svegliarsi» (p. 11).

Io scrivo dei pensierini e poi mi viene da cantare. E suono (male) il flauto dolce e la chitarra, e ballo senza nessuna scuola, e tutto mi sembra collegato, «e tutto insieme non pesa niente» (p. 106). E' davvero una gioia non aggressiva, e non c'è niente da mutare: «"Non sono io, quello", pensa. Le dice: "Non sono io quello che ti vuole spianare, ti vuole rifare, ti vuole razionalizzare, io sono solo il chirurgo plastico, il dermatologo, il fisioterapista, calmati, bestia"» (p. 92).

E se ho qualche dubbio che la contemplazione possa bastare a salvarci dal ridiventare rottami che producono rottami, la nostra forza sta nella capacità di vedere tutto come se guardassimo il mare e di salutarlo perché siamo certi di ritornare.

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LE AVVENTURE DI AL CULTMAN:

Oggetti di culto degli adolescenti d'oggi: libri, film, fumetti...
di Alberto Fassina

Momentaneamente in prestito

dal diario inesistente di Al Cultman

"ma vuoi che nelle sere di primavera

non la vada a prendere con un fiore

con la macchina e con la benzina

per magari fare un giro in collina"

Perché l'ascolto e la riascolto questa canzone, che tra l’altro parla anche di Gesù.

E l'ascolto per questa frase, semplice, e spero anche io di avere un giorno una macchina, suonarle, regalare un fiore.

Semplice, poco originale. Ma cosa importa, sono innamorato.

della macchina della benzina.

Di lei. Suonarle: "Puoi scendere?"

"Ok arrivo"

"Ma le fragole lo sa

col limone lei lo sa

fanno male male

senza amore"

Ti penti, ti penti di baci, dati così a caso

che lei spera in qualcosa di più.

Vuoi aspettare, c'è confusione?

E se fai partire un bacio. Se lo fai partire che sia di quelli che non scordi più

Almeno

Che il cinema, e quei baci sono diversi.

Le fragole... senza amore.

E poi le aspettative sbagliate. Ti penti la sera a letto. Di carezze date perché non puoi vivere senza coccole.

Non puoi vivere senza che nessuno ti accarezzi i capelli il sabato sera.

A letto ti penti.

"Perché la vita è incontrarsi illuminare il buio

perché la vita è scontrarsi magari sotto il sole

... si può anche morire per certe carezze

perché la vita è morire per certe cose non dette

perché è la dove contano gli imbarazzi

gli imbarazzi e le timidezze."

Le carezze sono micidiali. Meglio di birra vino

Meglio di qualsiasi sigaretta, di qualsiasi passeggiata.

Meglio di qualsiasi rimedio per quando si litiga. Per quando sembra che nessuno ti vuole bene.

Avere qualcuno che ti accarezza. Che dice qualcosa in un orecchio.

La voce bassa. La bocca fa rumori di parole che si staccano piano piano. Si staccano dalle labbra, dalla lingua. (parole che si stropicciano)

Fanno rumore, lì tra l'orecchio i capelli.

Una parola micidiale.

Non la scrivo

ognuno ha la sua.

"Amando le donne si fanno 1.000 km

per dire ciao come va?

Come stai?

Passavo di qua per caso"

Sarei passato per forza a farti gli auguri.

Non potevo che questo compleanno passasse, che quest'anno cominciasse, che questo Natale finisse

senza i miei auguri

senza appoggiare le labbra alla tua guancia.

Non poteva non andare così, ho controllato i tuoi movimenti, quando esci, quando prendi l'autobus

E' tutto il giorno che giro sperando di incrociarti

adesso che ti vedo

ti assicuro che è tutto diverso.

Con i miei auguri, io sto bene

spero anche tu.

"Gli autobus di notte...

... randagi come cani li ho visti traballare

con certi meccanismi rotti fare troppo rumore

nessuno gli sta cercando...

sono locomotive su binari morti

sonno le vecchie idee anche quelle forti nessuno ormai le usa.

... non ti fanno un po’ spavento

tenerezza...

anche se inutili

generosi...

provare rispetto per i vecchi motori

che non vorrebbero lasciarci mai

non vorrebbero mai morire."

Notte solo a guardare cose diverse dal giorno.

a pensare a idee che hanno perso colori. Sembra che domani potrebbero cambiare tutte le cose. Sembra che domani ci sarà più energia. Più voglia. Idee geniali. Voti migliori.

Domani persone nuove da incontrare. Solo diciotto anni, domani può succedere di tutto

Anche questa notte.

"ed il sesso è un problema

oppure no?"

Lunghi silenzi

Scritte le parole per quanto belle siano non bastano

parole bellissime, non mi bastano.

Una registrazione, le sue parole. Non fatemi parlare. Non fatemi scrivere.

Parole belle ma non bastano a descrivere a raccontare.

E' un problema? Forse si. E' giusto stare così bene?

E giusto stare bene, bisogna meritarselo. Bisogna obbedire ai grandi.

Bisogna mantenere i segreti.

E' giusto stare così bene, o devo chiedere il permesso a qualcuno.

Fare l'amore adesso? Non so se sia gusto

Le dico sotto voce.

Lunghi silenzi.

"I professori non chiedevano mai se eravamo felici"

Si entra in classe. Il tempo passa a guardare i compagni. Sorrido, se prendono appunti e stanno attenti mi vengono i sensi di colpa. I professori parlano, anche più del necessario. Anche di più della lezione.

Voi siete una classe, siete vicino alla maturità, siete migliorati, il compito è insufficiente.

Perché se copiate copierete sempre.

Siete felici. Adesso al di là della lezione. Al di là della mattina.

Siete felici?

Non l'ha mai chiesto nessuno.

"Le sigarette con il male che fanno erano le uniche

amiche...

Io intanto cercavo le chiavi per aprire me e il

mondo

come fanno quelli bravi che smontano le radio

e ci guardano dentro

Alla mattina tutto è bellissimo sembra tutto lì da

inventare

alla sera ogni sera qualcosa che manca qualcosa

che stanca...

tu sei una canzone...

chi ti ha dato il diritto di farmi del male?"

"Ho abbracciato anche la radio per la voce di una dj."

La voce

può fare grandi cose

ascoltando Carboni non abbraccio la radio.

Ma lo ringrazio.

Perché le sue parole assomigliano alla mia vita.

ascoltandolo mi dà sicurezza. Che anche lui ha provato, che anche lui si è chiesto, che anche lui non ha capito

quello che non riesco a capire io.

Alberto Fassina

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