[LETTURE & SCRITTURE]

Non solo libri

RECENSIONI E SCHEDE

  • POVERA POESIA. Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, a c. di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori, pp. LX-1270, L. 75.000
  • POESIA E PARETI.Umberto Fiori e Marco Petrus, Parlare al muro: sedici poesie e otto immagini, Marcos y Marcos, pp. 59, L. 18.000, con una nota di Antonello Negri.
  • DA BELGRADO. Filip David, Frammenti di tempi tenebrosi: diario, Belgrado 1990-1995, Edizioni e (via san Cilino 16, 34128 Trieste, 040-566821), pp. 170, L. 16.000
  • VITA DEL SIGNOR PAPA.Giovanni Paolo II, Dono e mistero, Libreria editrice vaticana, pp. 118, L. 15.000, con illustrazioni di Stanislaw Sobolewski (L.e.v., 06-698.85003)
  • VITA DEL SIGNOR DIO. Jack Miles, Dio: una biografia, Garzanti, pp. 530, L. 45.000, trad. di Piero Capelli.
  • DIO E L'UOMO. Aa.Vv., L'esperienza di Dio: filosofi e teologi a confronto, a c. di Emmanuele Morandi e Riccardo Panattoni, Il Poligrafo (35128 Padova, via Turazza 19, tel. 049-776986) pp. 404, L. 40.000
  • CANNIBALI. Slavenka Drakulic, Il gusto di un uomo, Il saggiatore, pp. 165, L. 25.000
  • NON SOLO PER GAY. Uomini su uomini: nuova letteratura gay americana a c. di Matteo B. Bianchi, Stampa Alternativa, pp. 192, L. 15.000
  • STAR TREK UNO. Leonard Nimoy, I am Spock, Arrow/Random, pp. 356, ill. b/n, L. 18.500 (importazione: Messaggerie internazionali)
  • STAR TREK DUE. Lawrence M. Krauss, La fisica di Star Trek, Longanesi, prefazione di Stephen Hawking, pp. 24.000, L. 28.000
  • PAPERINIK. "Ombre su Venere", n. 1 di Pkna - Paperinik New Adventures, Walt Disney Magazines, pp. 90 tutte a colori, L. 3.800

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AVVISO AI NAVIGANTI. Gli editori che volessero proporre volumi o riviste per recensione devono inviarli al seguente indirizzo: Nautilus, Ashmultimedia, via Fra' Paolo Sarpi 16, 36100 Vicenza, all'attenzione di Giulio Mozzi.

POVERA POESIA. Aa.Vv., Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, a c. di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori, pp. LX-1270, L. 75.000

Libro molto atteso, questo libro delude le aspettative. Naturalmente dispiace dirlo, se non altro perché per una somma di motivi (il prestigio dell'editore e della collana [i Meridiani Mondadori], il nome dei curatori ecc.) questa antologia tenderà a diventare una sorta di canone della poesia della seconda metà del nostro secolo: ed è assolutamente inadatta a questo ruolo. Non vogliamo fare (per ora) il giochino del chi c'è e di chi non c'è: l'assenza di Testori, notata da molti (benché vi sia nel libro un'apposita sezione per i "narratori poeti"), o quella di Biagio Marin (benché vi sia una sezione per i poeti dialettali), non sono poi così importanti, così come non sono importanti alcune inclusioni discutibili (Bevilacqua, Frabotta). Anche esclusioni feroci (o inclusioni terribili) possono essere interessanti, se hanno motivazioni argomentate e comprensibili, se c'è un disegno critico e storico alle spalle: come c'era, ad esempio, e ben solido, nell'antologia Poeti italiani del Novecento curata da Pier Vincenzo Mengaldo (sempre nei Meridiani Mondadori) che non a caso, ma per sua forza, si è rapidamente imposta come canone e come strumento critico battendo l'avversaria antologia compilata da Edoardo Sanguineti (per Einaudi). Allora cerchiamo rapidamente di vedere che cosa c'è, in questo lavoro di Cucchi e Giovanardi, che non ci convince.

Innanzitutto diciamo che, ad onta delle date messe in sottotitolo, questa è essenzialmente un'antologia della poesia italiana degli anni Sessanta e Settanta. Degli Ottanta c'è pochissimo; dei Novanta pressoché nulla. Anche il saggio critico introduttivo di Giovanardi, arrivato a queste date, si limita a un semplice elenco insieme arbitrario e onnicomprensivo (pp. LII-LIII). Poi: i "centri" dell'antologizzazione sono alcune antologie (Quarta generazione, 1954, a cura di Pietro Chiara e Luciano Erba; I novissimi, 1961, a cura di Alfredo Giuliani; Il pubblico della poesia, 1975, a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli) e una rivista (Officina), che forniscono a quattro grosse sezioni tanto il titolo quanto gli autori (eccezione: Amelia Rosselli accorpata ai novissimi), tanto che si ha a tratti l'imbarazzante impressione di avere in mano un'antologia di antologie. Altre sezioni hanno criteri e contenuti alquanto discutibili: la sezione "In dialetto" realizza l'ennesima ghettizzazione della poesia non in lingua (e che fare di chi scrive sia in lingua sia in dialetto, come Pasolini, Zanzotto o Bevilacqua?); la sezione "Quattro percorsi appartati" raccoglie per definizione cose disparate; la sezione "L'etica del quotidiano" cerca di riunire autori più o meno vagamente legati a un'impegno etico e/o politico (ma stilisticamente diversissimi); infine la sezione "Narratori poeti" è quasi ridicola, perché accorpa scritture poetiche che sono unite tra loro solo dal fatto esterno che gli autori sono, o sono stati, anche narratori (ora: Ottiero Ottieri è un narratore in versi, ma altrettanto lo è Franco Loi, che invece sta con i dialettali; Attilio Bertolucci ha scritto con La camera da letto un grande romanzo in versi, eppure sta nella sezione iniziale "La presenza dei maestri"; Pasolini è ben stato narratore, ma sta con il gruppo di Officina...; ben più interessante sarebbe stata una sezione su "la narrazione in versi", che almeno avrebbe creata una categoria critica tutto sommato nuova o comunque intrigante, visto che in Italia quando si pronuncia la parola poesia quasi tutti pensano esclusivamente alla lirica).

Questo modo di organizzare la materia è in somma un po' paradossale, anche perché ottiene l'effetto (sicuramente non voluto) di far sparire l'effetto di contemporaneità, premendo invece sull'effetto d'origine. Il lettore fa un po' fatica a rendersi conto che La camera da letto di Attilio Bertolucci, primo autore antologizzato (pp. 13-26) è contemporanea (1984-88) a Non per chi va di Gianni d'Elia (1986), ultimo autore antologizzato (alle pp.1023-29). Mentre, al contrario, non si vede perché Alda Merini, i cui primi testi effettivamente interessanti escono nel 1984, e che sostanzialmente solo dopo il 1992 è diventata visibile (diventando quasi un oggetto di moda, e pubblicando una quantità di librettini disugualissimi con tutti gli editori possibili e immaginabili) debba restare ancorata al gruppo, del 1954, di Quarta generazione. Un'organizzazione di tal fatta semplicemente fa confusione, e impedisce di capire che cosa è effettivamente successo nella poesia italiana in questi ultimi cinquant'anni. Poco aiutano il saggio introduttivo e le schede, veramente molto brevi, premesse ai singoli autori..

Arrivando finalmente al giochino delle presenze e delle assenze, dobbiamo dire che non turba tanto l'assenza di Testori (e anche di Turoldo, aggiungiamo: che c'entri il fatto religioso?), quanto l'inclusione di Alberto Bevilacqua, lo scrittore più sputtanato del dopoguerra, con un cappello di Maurizio Cucchi che trasuda da ogni parola imbarazzo e obbligazioni editoriali: "Bevilacqua realizza (...), con felice taglio espressionistico e affettuoso, un teatrino di figure bislacche, che portano con sé le loro mattane e le loro fantasie, presenze residuali di un mondo antico autentico" (p. 783), cioè più o meno quanto si potrebbe dire, che so, delle Stampe dell'Ottocento di Palazzeschi o di una quantità d'altri libri di novelle degli anni Trenta. Da battere le mani, invece, le inclusioni di Umberto Bellintani (Cucchi è forse l'unico critico italiano che si ricordi di Bellintani, ma ha perfettamente ragione) e soprattutto di Lorenzo Calogero.

Due parole due sulle note biobibliografiche che concludono il libro (curate da Giovanna De Angelis e Valeria Poggi "sotto la guida di Maurizio Cucchi", p.1032). A un'occhiata veloce sembrano piuttosto disuguali; ci sono delle stranezze, ad es. alcune riviste sono state compulsate accuratamente (il mensile Poesia, ad esempio, dal quale sono citate anche le semplici segnalazioni) mentre altre (anche importanti) sono, ci pare, assenti (ad es. Lengua). In somma, la soluzione ibrida di non dare né una bibliografia completa (impossibile in questa sede?) né una bibliografia essenziale (didattica) ha prodotto degli squilibri. Forse sarebbe bastata la canonica distinzione tra "saggi" e "articoli".

L'impressione finale è che questa antologia abbia cercato di accontentare un po' tutte le lobby, le gang e i salotti della repubblica delle lettere; che si sia persa un'occasione di fare della critica e della storiografia; che il risultato sia poco utile anche come semplice repertorio o manuale di consultazione.

UNA POLEMICA. Nella "Nota dei curatori" (pp. LIX-LX) si accenna ai criteri per la selezione. Ovvia e ineccepibile la scelta di "restringere il campo ad autori che fossero nati nel XX secolo e che avessero pubblicato la loro prima opera importante, o comunque dato compiuta manifestazione di sé, dopo il 1945"; più curioso il sistema adottato per "le esperienze poetiche più recenti": "si è (...) stabilito di prendere in considerazione solo i poeti che entro il 1995 avessero pubblicato almeno una raccolta presso un editore a diffusione nazionale. Pur nella consapevolezza delle difficoltà che soprattutto l'ultima generazione ha incontrato nell'accedere a canali editoriali normali, è sembrato doveroso offrire al lettore di un lavoro di questo genere la possibilità di verificare per suo conto il valore degli autori prescelti e la plausibilità delle tendenze individuate: una verifica che il sommerso dell'editoria a pagamento o dell'esoeditoria nelle sue varie forme non avrebbe potuto assolutamente consentire". Detto in parole comuni: abbiamo scelto di selezionare solo poeti le cui opere si possano trovare in giro, perché pubblicate da "editori a diffusione nazionale". Purtroppo, il fatto che un libro di poesia sia stato pubblicato da "un editore a diffusione nazionale" non garantisce per nulla che il libro stesso sia trovabile. Sfidiamo chiunque a trovare in libreria La beltà di Zanzotto o Passi passaggi di Porta (entrambi editi da Mondadori nella prestigiosa collana "Lo specchio"). Forse la "Nota dei curatori" intendeva dire: abbiamo deciso di prendere in considerazione solo i poeti che godono già di un certo potere all'interno della repubblica delle lettere. A quando un'antologia con i controcoglioni?

UN'ALTRA POLEMICA. Se questa antologia è in buona parte un'antologia di antologie, vien da chiedersi perché non solo non è stata impiegata per disegnare una sezione, ma viene anche duramente attaccata [da Giovanardi nell'introduzione, pp. LII-LV] l'antologia La parola innamorata, pubblicata nel 1978, presso Feltrinelli, da Giancarlo Pontiggia e Enzo di Mauro. Eppure fu un avvenimento importante. Accusare gli allora giovanissimi curatori di aver voluto "«dare la linea» alla poesia post-sessantottesca", inventandosi un "movimento inesistente" dotato di una "tendenza unitaria e possibilmente egemone", della quale La parola innamorata avrebbe dovuto essere la "vulgata" (p. LV) ci pare cosa un po' comica. Così come ci pare comico che qualche riga più sotto la presenza in quell'antologia di Cucchi (poeta, oltre che curatore del volume del quale stiamo parlando), Magrelli, Santagostini, Scalise e Viviani debba essere addirittura scusata (essi vengono giudicati "incolpevoli"). Fatto sta che forse proprio La parola innamorata, con la sua arditezza non libera (è vero) da una certa confusione, generò quella libertà di azione che poi permise a molti di scrivere con la propria voce, esentati appunto da appartenenze a "linee" e "movimenti". Quel libro non fu un intervento critico, fu prima di ogni altra cosa una festa. Senza contare che, bene o male, tutti quelli che hanno dimostrato successivamente di aver davvero qualcosa da dire (compresi appunto Cucchi, Magrelli ecc.) c'erano già, lì dentro. Forse alla Parola innamorata ha nociuto, e continua a nuocere, la radicalità antiaccademica e l'indifferenza ai poteri editoriali.

UNA TERZA POLEMICA. Nell'introduzione Giovanardi osserva che alla "diffusa, debordante creatività degli anni Settanta e dei primi Ottanta" sembra "repentinamente subentrata una devastante aridità": "le voci nuove affiorate nell'ultimo decennio si contano sulle dita di una mano" (p. LVI) D'altra parte, se Giovanardi legge solo gli autori pubblicati da "editori a diffusione nazionale"... E difatti lui stesso ammette: c'è stata "una stretta editoriale senza precedenti, che ha via via falcidiato le collane nazionali di poesia portando alla loro soppressione o drastica riduzione". Ma a questo fatto "oggettivo", secondo Giovanardi, va aggiunta una "disposizione oggettiva degli autori, quasi una mutazione genetica, avvertibile soprattutto nei più giovani, intervenuta nel rapporto fra il produttore di letteratura e l'oggetto della sua attività. E' impossibile non notare come alla sopravvivenza asfittica e malcerta della poesia corrisponda da qualche tempo un'impressionante proliferazione quantitativa della narrativa, che è favorita certo dalle strategie commerciali dei grandi editori, ma che trova comunque terreno fertile nelle scelte creative dei singoli scrittori." E conclude Giovanardi che evidentemente al mito sessantotto-settantasettino della marginalità e dell'opposizione deve essere subentrato il mito del mercato: così che, "anche e soprattutto a livello soggettivo", "passano" "soltanto materiali compatibili con la natura di quel mito [il mercato, appunto]" (p. LVII). A questa veramente curiosa opinone si può ribattere che, se la poesia non "passa" più, ossia non ha più pubblico (un libro di poesie in Italia vende, se va bene, un duecento copie), non sembra privo di senso (anche etico e politico), tentare la via della prosa. Indipendentemente dalle ragioni che hanno interrotto il "passaggio" della poesia. E non si può parlare del fatto che la poesia non "passa" più come di una colpa collettiva (dei poeti o del mercato o della civiltà della immagini o di chi sa chi): bisogna parlarne come di un fatto che va spiegato.

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POESIA E PARETI. Umberto Fiori e Marco Petrus, Parlare al muro: sedici poesie e otto immagini, Marcos y Marcos, pp. 59, L. 18.000, con una nota di Antonello Negri.

Vale la pena di spendere diciottomila lire per avere sedici poesie e otto immagini? La risposta è: sì, senz'altro. Questa plaquette (nella quale Umberto Fiori unisce alcune poesie già pubblicate in Case (San Marco dei Giustiniani, 1986), Esempi (Marcos y Marcos, 1992) e Chiarimenti (id., 1995) è veramente deliziosa. La qualità della poesia di Umberto Fiori si sente subito dalla "voce" (o "pronuncia"); ed è difficile non pensare, leggendola, alla poesia del compianto Beppe Salvia o ai sonetti di Marco Lodoli. Parlare al muro è una raccolta di piccole epifanie (nel senso che alla parola dava James Joyce: improvvise rivelazioni) tutte strettamente urbane, nelle quali il paesaggio urbano (strade, case, tangenziali, parcheggi ecc.) appare come un paesaggio naturale. Ossia: quegli stati estatici che la contemplazione della natura provocava nei poeti romantici dell'Ottocento (e provoca ancor oggi, kitschamente, nei turisti da agenzia viaggi), possono realizzarsi anche davanti all'opera dell'uomo urbanizzato. Da "Muro": "In certe ore / sopra il distributore di benzina / un muro nudo si illumina / e sta contro l'azzurro / come una luna. // A un certo punto uno / abita qui davvero, / e guarda in faccia queste case, e impara / a stare al mondo, / impara a parlare al muro". Certo, rimane nostalgia di un mondo naturale (o piuttosto, osiamo dire, un mondo creaturale): nostalgia che tuttavia non ottunde i sensi. "Lì prima c'era una spianata, un prato / stretto in mezzo a due case. Ora ci stavano / lavorando. Era già scoperchiato / tutto, fino alla base. // Intorno alzano sempre quattro tavole / anche se dentro è vuoto, non c'è niente. / Fanno così, come si copre un morto / sul posto dell'incidente" (da "Fondamenta"). E l'epifania urbana facilmente si rivela priva di senso: "Alte sopra la tangenziale, chiare, / due case con in mezzo un capannone. / E' questa l'apparizione, ma non c'è niente da annunciare" ("Apparizione"). E' proprio questo "non c'è niente da annunciare" che fa di Umberto Fiori un vero poeta, ed è questo sentimento dell'insensatezza del vivere che lo lega a tutta una generazione di poeti, oggi generalmente sui trenta-quarant'anni, capaci di "controllare le metastasi con la sola forza del pensiero", come scrisse Stefano Dal Bianco.

UMBERTO FIORI è stato cantante negli Stormy Six.

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DA BELGRADO. Filip David, Frammenti di tempi tenebrosi: diario, Belgrado 1990-1995, Edizioni e (via san Cilino 16, 34128 Trieste, 040-566821), pp. 170, L. 16.000

Stiamo parlando di un libro che non si può evitar di leggere. Filip David, intellettuale e autore di teatro, licenziato nel 1992 dalla televisione di Belgrado (dove si occupava, appunto, del teatro) per la sua opposizione alla propaganda di guerra in tv e per aver fondato il primo sindacato indipendente serbo, così scrive nella prima pagina: "Noi, che verso la politica come professione siamo del tutto indifferenti. (...) Che cosa ci ha spinti a uscire dal silenzio delle nostre stanze e dalla dimestichezza con i libri per scendere nell'arena fra le grida che cercano di sopraffarsi, il chiasso e le urla? Prima di ogni altra cosa: l'indignazione (...) causata dalla grande truffa che è stata invece presentata come la grande vittoria del popolo. (...) La nostra oligarchia politica, perdendo il terreno sotto i piedi, non credendo più neppure essa nella validità dei propri canoni ideologici, ha escogitato la vile invenzione del nazionalismo di stato, ha sostituito il bolscevismo con il socialismo nazionale" (p. 7). E tutto questo libro, con una scrittura metà diaristica e metà aforistica, non si dedica ad altro che allo smascheramento (anche sul piano reale, ma soprattutto teorico) di questa truffa. "Il (...) compito principale [della televisione] è quello di giustificare i fallimenti dell'economia e della politica dello stato, o di trasformarli incredibilmente in successi, producendo allo stesso tempo tutta una serie di nemici interni ed esteri, i cosiddetti colpevoli del completo disfacimento del sistema. (...) E' stata creata una tribuna che non ha una propria maniera di pensare, né una posizione sulle più elementari questioni del destino comune. Il ruolo dei media come strumento di istupidimento e di lavaggio dei cervelli umani si realizza con determinazione e assoluta consequenzialità" (p. 74). "La violenza sulla lingua porta alla violenza sugli uomini. L'ideologia totalitaria si esprime al massimo proprio nell'ambito della lingua e dei mezzi di comunicazione. (...) Le parole diventate servi e le parole trasformate in cadaveri, diventano spazzatura nel grande letamaio delle idee distruttive" (p. 56). "Sono passati più di mille giorni di distruzione di Sarajevo. E quanti ne passeranno ancora? Sarajevo e Belgrado in qualcosa si somigliano. L'una viene distrutta dall'esterno, l'altra dall'interno. Per tutto il resto sono diverse. Belgrado convive tranquillamente con la violenza e la miseria. Sarajevo non si rassegna all'indifferenza, Belgrado la recepisce come un modo di sopravvivere. Sarajevo e Belgrado sono due città metafisiche i cui riflessi di luce e le cui ombre si protendono anche su altri mondi, persino su quelli che si formeranno soltanto in un futuro ancora lontano. Il riflesso di Sarajevo viene dalle fiamme ardenti in cui bruciano uomini e biblioteche, il fuoco in cui si consuma Belgrado è una specie di fiamma fredda, fatta di vergogna interiore e angoscia, esiziale per ogni animo umano" (p. 159).

Il pensiero del futuro è quasi impossibile. "Per tutto ciò un giorno si parlerà di colpa collettiva" (p. 32). "Se i padri hanno seminato vento e raccolto burrasca, lasciando in eredità vergogna e disperazione, che aspetto avrà questo paese quando lo prenderanno in consegna i loro figli, una gioventù nei cui geni è già inscritta 'la forma delle cose che sopraggiungono'?" (p. 103). E quali possono essere le scelte dell'intellettuale? Vinto il senso d'impotenza, David propone l'esilio: "esterno", in senso proprio, o "interno": comunque il rifiuto di stare al terribile gioco, e la decisione di testimoniare. "L'esilio interno o esterno, nella società totalitaria, è esigenza di ripulsa nei confronti di una realtà che ha assunto connotati patologici; un disperato tentativo di realizzare un ritorno alla sostanza della comunicazione, pur nell'alienazione del mondo della distruzione, per ristabilire un rapporto con la perduta spiritualità. Qui dove ci troviamo, sull'orlo di quello che era un tempo l'Impero d'oriente, l'esilio dell'intellettuale non è proprio per niente un privilegio naturale, ma piuttosto l'espressione di un'elementare lotta per l'esistenza" (p. 57). E' difficile non sentire, dentro la voce di Filip David, profondamente assimilata, la voce di un altro grande intellettuale del nostro secolo: Theodore W. Adorno, l'autore dei Minima moralia. Come Adorno, David cammina lucidamente sul filo di un pensiero paradossale, estremo, nel quale la contemplazione della disperazione assoluta si confronta con l'idea di redenzione.

FILIP DAVID (Kragujevac, 1940) ha pubblicato: Bunar u tamnoj šumi (Il pozzo nella buia foresta, racconti, 1964); Zapisi o stvarnom i nestvarnom (Appunti sul reale e sull'irreale, racconti, 1969); Princ vatre (Il principe di fuoco, racconti, 1987); Hodocasnici neba i zemlje (I pellegrini del cielo e della terra, romanzo 1995). Filip David è inoltre saggista, scrittore di teatro e sceneggiatore.

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VITA DEL SIGNOR PAPA. Giovanni Paolo II, Dono e mistero, Libreria editrice vaticana, pp. 118, L. 15.000, con illustrazioni di Stanislaw Sobolewski (L.e.v., 06-698.85003)

Probabilmente farà meno rumore del libro-intervista (o piuttosto libro epistolare) curato da Vittorio Messori, Varcare la soglia della speranza; ma questo Dono e mistero non è privo di interesse. Karol Woitila, papa con il nome di Giovanni Paolo II, in occasione dei cinquant'anni del suo sacerdozio racconta con semplicità la storia della sua vocazione sacerdotale. Il libretto è pieno di brevi e affettuosi ricordi di persone comuni e straordinarie: dagli operai della Solvay (dove il giovane Karol lavorò, durante la guerra, per circa due anni) che, sapendolo studente, durante i turni notturni di sorveglianza gli dicevano spesso: "Riposati, staremo di guardia noi" (p. 31); fino all'arcivescovo Adam Stefan Sapieha ("figura incrollabile", p. 78), che durante l'occupazione tedesca organizzò un seminario clandestino in casa propria, incurante che ciò potesse "provocare in ogni momento, sia per i superiori che per i seminaristi, severe repressioni da parte delle autorità tedesche" (p. 21).

"Come si può parlare di dio dopo Auschwitz?" A questa domanda il pensiero religioso europeo (tanto cristiano quanto ebraico) ha avute serie difficoltà a rispondere, e spesso la risposta è stata: "Non si può più parlarne". Il giovane Karol, durante la guerra operaio e seminarista clandestino (solo a Dachau furono internati circa tremila sacerdoti polacchi, ad Auschwitz morì Massimiliano Kolbe...), non era indifferente ai tempi. "Ciò che posso dire è che la tragedia della guerra diede al processo di maturazione della mia scelta di vita una colorazione particolare. Mi aiutò a cogliere da un'angolatura nuova il valore e l'importanza della vocazione. Di fronte al dilagare del male ed alle atrocità della guerra mi diventava sempre più chiaro il senso del sacerdozio e della sua missione nel mondo" (p. 45). L'attuale papa vede in tutto questo il segno della provvidenza divina. "Il mio sacerdozio, già al suo nascere, si è iscritto nel grande sacrificio di tanti uomini e tante donne della mia generazione. A me la Provvidenza ha risparmiato le esperienze più pesanti; tanto più grande è perciò il senso del mio debito verso le persone (...) che con il loro sacrificio sul grande altare della storia hanno contribuito al realizzarsi della mia vocazione sacerdotale" (p. 47) "A volte mi domandavo: tanti miei coetanei perdono la vita, perché non io? Oggi so che non fu un caso. Nel contesto del grande male della guerra, nella mia vita personale tutto volgeva in direzione del bene costituito dalla vocazione" (p. 45, i corsivi sono dell'autore).
UN COMMENTO INDIRETTO. Primo Levi, in I sommersi e i salvati (Einaudi Tascabili, p. 63), racconta un colloquio "al ritorno della prigionia" con "un amico più anziano (...), mite ed intransigente". Racconta Levi: "Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato, certamente arricchito. Mi disse che l'essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancormeno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia? [Si tratta di Se questo è un uomo]. Questa opinione mi parve mostruosa. (...) Potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso" (cf. anche Se questo è un uomo, Einaudi Tascabili, p. 116).

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VITA DEL SIGNOR DIO. Jack Miles, Dio: una biografia, Garzanti, pp. 530, L. 45.000, trad. di Piero Capelli.

Questo è un libro splendido e chiunque abbia un interesse per il divino (da credente, da agnostico, da ateo; da cristiano o da ebreo o da altro: non importa) dovrebbe darci almeno un'occhiata. E non è privo d'interesse anche per chi sia interessato solo al fatto letterario. Jack Miles infatti ha tentato di scrivere una biografia del signor dio trattandolo come se fosse un personaggio letterario, il protagonista di un'opera narrativa chiamata Bibbia (notiamo che Miles si limita all'antico testamento, o più esattamente alla Bibbia ebraica, nella quale si trovano gli stessi libri che nell'antico testamento cristiano, ma in ordine diverso: dopo i due libri dei Re seguono i profeti, dopo i profeti i libri sapienziali, e il tutto si conclude con le Cronache). Un po' come se si cercasse, esaminando a fondo l'Amleto di Shakespeare, di costruire un ritratto del personaggio-Amleto (cosa che, a dire il vero, la critica letteraria fa usualmente). Se questo è il punto di vista, facilmente ci si pongono delle domande: qual è il "carattere" del personaggio-dio? Perché il personaggio-dio si comporta nel tale e nel talaltro modo? Quale sarà la sua interiorità? Quali i moventi delle sue azioni?

Va da sé che, in questo modo, si ricupera una percezione del dio ebraico (e cristiano) come persona: percezione che è storicamente (e teologicamente) esatta, ma in tempi recenti si è molto persa. Diciamo che dal "secolo dei lumi" in poi l'idea di dio più diffusa, almeno nei ceti intellettuali, è piuttosto quella di un dio astratto, appunto impersonale, non soggetto ai vincoli di un "carattere"; l'idea di un dio-persona viene respinta come rozza, infantile, degradante per il dio stesso. Ma già anticamente, grosso modo dal neoplatonismo in poi, la percezione di dio come persona era stata parecchio scossa, e mescolata con quella (un po' neoplatonica appunto, e un po' aristotelica) di dio-demiurgo o di dio-motore immobile. Un dio per filosofi, in somma.

Jack Miles ci guida a una percezione di dio più antica ma, forse proprio perché antica, molto profondamente radicata in ciascuno di noi. E' bello riuscire a rivedere il dio della Genesi che passeggia nel giardino per intrattenersi con le sue creature. E' bello vedere come il dio progressivamente "impara ad essere dio" (questo è uno dei contenuti più forti del libro di Miles): puro dio-creatore all'inizio, dio-tribale per Abramo, dio-guerriero e dio-legislatore difronte a Mosè, dio-feudatario durante il periodo dei re, dio che comincia a pensare a sé stesso come padre difronte all'amore entusiasta e all'affetto filiale di Davide, dio-assente nel Qoèlet. Miles ci guida ad osservare come la Bibbia racconti effettivamente la storia di dio & del suo popolo: è sempre in risposta alle azioni del popolo che si è scelto (e che non è scelto da subito) che dio trova in sé nuove risorse, accresce la propria identità, restando sempre sé stesso si trasforma: "egli non sembra avere vita se non in connessione con la sua creatura umana" (p. 469).

Beninteso, Miles non ignora la letteratura critica e storica. Mentre ci racconta l'evoluzione caratteriale di dio ci spiega anche come la critica storia abbia interpretato questa evoluzione come "successive incorporazioni" di altri dèi: la dea-rettile Mot, babilonese; il dio orgiastico e guerriero Baal, cananeo; e così via. Miles marca molto l'imprevedibilità del personaggio-dio, che affida compiti agli uomini e poi li ostacola, che agisce quasi inconsapevole della sua potenza distruttiva, che ripetutamente afferma: avrò misericordia di chi vorrò avere misercordia. E' naturale che, da questo punto di vista, il libro di Giobbe diventi centrale. E infatti, al termine del capitolo su Giobbe, Miles riflette: "Che cos'è che rende Dio divino? Che cos'è che rende il protagonista della Bibbia così bizzarramente inevitabile, così repellente e ad un tempo così attraente? (...) Dio, in quanto personaggio letterario, mantiene il proprio peculiare potere perché in lui (...) quanto vi è di più radicalmente e incomprensibilmente terrificante nell'esistenza umana viene dotato di voce e di intenzione così come di capricciosità e di silenzio" (p. 383). E interessante è anche la lettura che Miles fa del Deuteronomio (uno dei libri biblici più trascurati dai lettori cristiani): in esso, attraverso i tre grandi discorsi di Mosè, si raccontano sì fatti già ampiamente narrati nei libri precedenti, ma soprattutto si tenta la prima grande "integrazione" di tutte le diverse personalità divine con le quali il popolo eletto ha avuto che fare. "Il Deuteronomio ha avuto un impatto definitivo sul modo in cui ci si immagina Dio. Il Dio del Deuteronomio è rimasto Dio per gli ebrei e i cristiani fino ai tempi moderni. In occidente anche l'ateismo e l'agnosticismo sono stati inclini a prendere questo Dio almeno come riferimento per l'immaginario. Quanto un ateo occidentale dice di non credere in Dio, è il Dio del Deuteronomio che egli rifiuta, a livello di immaginario" (p. 170).

JACK MILES è un ex sacerdote gesuita. Vive con la moglie e la figlia in California. Ha studiato al Pontificio collegio gregoriano di Roma e all'Università ebraica di Gerusalemme. Ha approfondito lo studio delle lingue del vicino Oriente alla Harvard University. Dopo aver insegnato alla University of California, ora è direttore dello Humanities Center della Claremont Graduate School, in California, dove insegna. E' editorialista e collaboratore di vari giornali e riviste: The Los Angeles Time, The Washington Post, The Atlantic Monthly, The Boston Globe, Harvard Theological Review, Commonweal, Tiknun.

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DIO E L'UOMO. Aa.Vv., L'esperienza di Dio: filosofi e teologi a confronto, a c. di Emmanuele Morandi e Riccardo Panattoni, Il Poligrafo (35128 Padova, via Turazza 19, tel. 049-776986) pp. 404, L. 40.000

Per secoli uno dei compiti affidati alla teologia (e alla filosofia, sua ancella) fu quello di dimostrare per via razionale l'esistenza di dio e, in subordine, l'esistenza di tutti i suoi attributi. In questo volume (pesante nei sensi migliori della parola) una quindicina tra teologi e filosofi si riuniscono in un'ideale tavola rotonda e tentano di parlare di dio non a partire da concetti, bensì a partire dall'esperienza. "L'uomo conosce Dio in quanto entra in un rapporto con Lui", scrive, con ardita umiltà, Divo Barsotti; la conoscenza razionale di Dio, cioè tutto il discorso teologico e filosofico, non può più prescindere da questo dato d'esperienza. "Non si tratta di dimostrare che Dio esiste", scrive Johannes B. Lotz (autore del saggio forse più importante dell'intera raccolta), "bensì al contrario che l'esistente è in ultima analisi divino". Ossia, che ciò di cui facciamo esperienza (l'esistente appunto, il mondo e la storia) è divino.

In questo approccio diventano fondamentali la lettura e l'interpretazione tanto della storia umana (che dovrebbe poter diventare tutta "storia divina": ma come si può parlare di "storia divina", si chiede proprio Lotz, dopo Auschwitz?) quanto dell'esperienza mistica. E difatti il saggio di Barsotti si presenta come un commento alle Laudes Dei di San Francesco; Paul Gilbert propone una lettura di Sant'Anselmo d'Aosta; Luisa Muraro affronta gli scritti delle "beghine" Margherita Porete e Hadewijch di Anversa.

Importante, per un gruppo d'autori ben radicato nella tradizione tomista, è il confronto con la filosofia moderna e contemporanea, "non più intesa come una deviazione o un pericolo per la riflessione", come scrive Massimo Marassi, "ma come la modalità storica che sola permette l'accesso all'eredità del passato". Caduta quindi ogni demonizzazione, così come ogni complesso d'inferiorità o superiorità, il confronto anche con gli esponenti più radicali del nichilismo contemporaneo si fa serrato e avvincente. (p)

INDICE DEL VOLUME. Cornelio Fabro, Senso e struttura esistenziale della preghiera. Johannes B. Lotz, Prova ontologica ed esperienza di Dio. Divo Barsotti, Una teologia dell'esperienza di Dio: Le "Laudes Dei" di San Francesco d'Assisi. Mario Pangallo, Presupposti metafisici dell'esperienza del trascendente in San Tommaso commentatore del "Liber de causis". Massimo Marassi, Esperienza e riflessione trascendentale in Johannes B. Lotz. Emmanuele Morandi, Morte dell'uomo e presenza di Dio: la teologia come "rapporto" in Divo Barsotti. Paul Gilbert, Pensiero ed esperienza cristiana in Anselmo d'Aosta. Vittorio Possenti, Trascendenza immanente. Giacomo Coccolini, Homo capax Dei? Eugen Biser, Cosa parla in favore di Dio? Johannes B. Metz, Il discorso su Dio di fronte alla storia di sofferenza del mondo. Piero Coda, Rivelazione cristologica ed esperienza di Dio. Mario Ruggenini, Poesia dell'assenza: Hölderlin e il "tempo del bisogno". Ferdinando Luigi Marcolungo, Il Dio che viene all'idea. Umberto Regina, Sören Kierkegaard: il felice incontro di ragione e paradosso. Riccardo Panattoni, Il tempo della memoria e la memoria come tempo: Agostino, Monica e la morte. Umberto Soncini, Prospettive preliminari ad una ermeneutica fenomenologica del testo biblico. Luisa Muraro, Esperienza (di Dio) e differenza femminile. Bruno Forte, La riscoperta dell'oggetto puro: "Deus dixit". La svolta di Karl Barth.

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CANNIBALI. Slavenka Drakulic, Il gusto di un uomo, Il saggiatore, pp. 165, L. 25.000

A New York, nel periodo di Natale, una giovane donna polacca sta pulendo l'appartamento dove ha vissuto un lungo periodo, prima di tornare in patria. Lo pulisce, si capisce subito, per eliminare le tracce di un sanguinoso omicidio. Anzi: di una vera macellazione, cui è seguito un pasto di carne umana. Per mezzo di lunghi flash-back, veniamo a sapere cos'è accaduto nei mesi precedenti. La donna ha conosciuto in una biblioteca José, un antropologo brasiliano; nel giro di pochi giorni, l'uomo si è trasferito a vivere da lei. La loro convivenza è tutta tesa a raggiungere il grado massimo di intimità, anche per supplire alla mancanza, loro entrambi stranieri, di una lingua comune con cui esprimersi liberamente. Serve un linguaggio più immediato delle parole e questo linguaggio è il cibo, la cui preparazione diventa un rito elaborato e sontuoso. Poi c'è il sesso, che è fatto di gesti simbolici: mordersi, leccarsi. Alla fine l'intimità è tanto completa da eliminare le differenze, i rispettivi passati; non c'è più neanche bisogno di sforzarsi a parlare: "Le parole sono avvolte nella nostra pelle". Il mondo esterno, però, torna a intromettersi con la ricomparsa di Ines, moglie di José. Come fare, si chiede la protagonista, per eliminare definitivamente ogni distanza, ogni ostacolo tra me e l'amato? Semplice: diventare una persona sola; non per niente, fin dall'inizio una serie di coincidenze ha richiamato il tema del cannibalismo. Sono queste coincidenze a rafforzare in lei un certo senso del destino, la convinzione che non ci sia altra strada, sebbene questa sia piena di difficoltà e di ripensamenti: ciò che è necessario è sempre difficile.

In generale, la Drakulic è brava. Certo, ci sono frasi che sembrano uscite da un romanzetto rosa: "già completamente prigioniera del suo volto", "risvegliò in me un'ondata di desiderio". Ma questo non è un romanzetto rosa, è un libro che parla della corporeità e di come cambia la percezione di questa corporeità, quando ci si innamora. Certe pagine sono forti perché descrivono l'amore in modo credibile, come pochi riescono a fare. Per contro, altre sono fragili e sono quelle in cui si tenta di dare una valenza mistica alla pratica del cannibalismo: eh no, cara Drakulic, ci dispiace ma non c'è posto per il tema di Dio in un romanzo dove il corpo è tutta una calda, sanguinosa sostanza. (mancassola) [cf., nel Corso di scrittura narrativa a puntate, "Istruzioni per scrivere un racconto cannibale", in questo numero di NAUTILUS]

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NON SOLO PER GAY. Uomini su uomini: nuova letteratura gay americana, a c. di Matteo B. Bianchi, Stampa Alternativa, pp. 192, L. 15.000

In America, Man on man è una serie di cinque antologie, la prima delle quali uscita nel 1986, che si propone di presentare gli autori più significativi, alcuni già affermati e altri meno, nell'ambito della nuova narrativa gay americana. Da qui sono passati David Leavitt e il bravissimo Dale Peck. Questo Uomini su uomini comprende una selezione di racconti tradotti dai primi quattro volumi, con una preferenza soprattutto a quegli autori ancora sconosciuti in Italia. E quasi tutti meriterebbero davvero di venir conosciuti, Joe Kennan ad esempio per la sua efficace vena comica, o George Stambolian autore del bellissimo "In macchina con papà": "Non lontano da qui c'è la cava abbandonata piena d'acqua dentro la quale, una volta, ragazzini nudi si tuffavano dalle rocce per provare a sé stessi di essere uomini. Un ragazzo grassoccio che era con me alle superiori, Willie Korda, mi parlà di questo posto un pomeriggio in cui eravamo soli nello spogliatoio. 'Hanno già i peli', mi sussurrò, 'e puoi vedere tutto'. Mi mise la mano sulla cerniera e si offrì di accompagnarmi, ma io la trovai da solo. Mi accucciavo in un boschetto di lauro e li osservavo mentre saltavano. I loro genitali al sole mentre volavano per un secondo nella luce chiara."

Proprio Stambolian, morto nel 1992, è stato il curatore dei primi quattro volumi di Men on men. E' stato lui, si legge nell'introduzione italiana, a suggerire che la narrativa gay sia una necessaria opportunità affinché i gay analizzino e giudichino sé stessi dopo che per anni sono stati analizzati e giudicati da altri. E' stata ancor più necessaria, potremmo aggiungere, come strumento di rielaborazione di fronte all'epidemia dell'Aids; e a questo proposito non si può non rimandare, ancora, a Dale Peck: Martin e John (in Italia per Feltrinelli, anche in economico) è stato un libro fondamentale. Solo, auguriamoci che questi racconti, buoni esempi di narrativa tout court oltre che di narrativa gay, non restino patrimonio dei soli lettori gay. (mancassola)

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STAR TREK UNO. Leonard Nimoy, I am Spock, Arrow/Random, pp. 356, ill. b/n, L. 18.500 (importazione: Messaggerie internazionali)

I fan di Star Trek, giustamente addolorati per recente la morte dell'attore Mark Lenard (68 anni, New York), meglio noto come Sarek, ambasciatore di Vulcano presso la Federazione dei pianeti uniti, e padre del dottor Spock, potranno ora consolarsi con l'autentica biografia del loro beniamino, il dottor Spock appunto, scritta... da lui stesso, ossia da Leonard Nimoy, interprete del personaggio nonché autore, regista e produttore di svariati episodi della serie. E' ovviamente un libretto leggero, divertente, ma anche interessante per capire come funzionano certi meccanismi della popolarità. Impressionante un episodio: un gruppo di fan visita il set (cosa abbastanza frequente); durante una pausa, una "ragazza dagli occhi sognanti" si avvicina a Nimoy e gli dice: "Buongiorno. Io rappresento un gruppo di persone del New Mexico che è in contatto con intelligenze aliene. Lei non si rende conto dell'importanza di ciò che ha fatto. Lei è stato scelto, in senso metafisico, per accogliere dentro di sé l'entità aliena di nome Spock" (p. 16). La narrazione di Nimoy (che non parla solo di Star Trek, ma di tutta la sua carriera d'attore di cinema e di teatro) si interrompe qua e là per lasciare spazio a surreali conversazioni tra Nimoy e Spock. Ad esempio, a proposito della famosa reclam della birra Heineken: "SPOCK: Che cosa significa? NIMOY: E' la pubblicità di una birra. SPOCK: Non ne sono sicuro. Ci sono delle implicazioni nascoste. Rinfresca le parti che le altre birre non raggiungono. Le mie orecchie, ad esempio? Si tratta forse di umorismo? NIMOY: E' un gioco di parole a sfondo sessuale. SPOCK: Ah" (p. 156). Il volume contiene alcune fotografie (tra le quali una bellissima del dottor Spock a due anni e mezzo) ma non contiene apparati (filmografie ecc.).

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STAR TREK DUE. Lawrence M. Krauss, La fisica di Star Trek, Longanesi, prefazione di Stephen Hawking, pp. 24.000, L. 28.000

Che cos'è la famosa "velocità curvatura"? Che cosa succede veramente quando l'universo, almeno così come lo si vede dallo schermone della sala comandi dell'Enterprise, improvvisamente accelera e sembra venirci addosso o addirittura esplodere? Con la scusa di passare al vaglio scientifico l'universo immaginario di Star Trek, in questo astuto e gradevolissimo libro Lawrence M. Krauss riesce a spiegarci per benino quasi tutti i concetti fondamentali dell'astrofisica. Si scopre così che l'universo inventato da Gene Roddenberry è meno scombinato e casuale di quel che può sembrare e che un "motore a curvatura", almeno teoricamente, è possibile. Ci vorrebbe per alimentarlo una pila della dimensione di qualche pianeta, ma in somma, non ci si può sempre lasciar ammazzare dai particolari. Uno degli aspetti piacevoli del libro è la scelta, didatticamente opportuna, dell'approccio storico: Krauss ci racconta l'evoluzione delle conoscenze dalla meccanica newtoniana alla realtività ristretta e allargata, per finire con la teoria dei quanti (che chiude svariati problemi, ma altri ne apre). Di altre invenzioni tecnologiche di Star Trek (il mitico teletrasporto, naturalmente) si parla più in breve: alla trattazione teorica, che spesso svela contraddizioni e paradossi, seguono eventuali ipotesi di realizzazione pratica. Il libro insomma è interessante, scorrevole, istruttivo e (cosa che forse lascerebbe perplesso il dottor Spock) decisamente divertente. (ms)

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PAPERINIK. "Ombre su Venere", n. 1 di Pkna - Paperinik New Adventures, Walt Disney Magazines, pp. 90 tutte a colori, L. 3.800

Per chi non se ne fosse accorto, è uscito finalmente (dopo tre numeri zero) il primo numero ufficiale di Pkna - Paperinik New Adventures, interamente prodotto in Italia. Si tratta di una versione post-fantascientifica del celebre supereroe; potremmo dire, qualcosa come Paperinik nell'era di Blade Runner o della Matrice spezzata. Per chi si fosse perse le puntate precedenti: Paperino è assunto come custode della Ducklair Tower, un grattacielo di proprietà di Paperon de' Paperoni. Si tratta di un grattacielo supertecnologico, costruito da un inventore straricco e bizzarro (Everett Ducklair), pieno di servomeccanismi di molti dei quali si ignora l'esatta funzione. Paperino scopre casualmente Uno, il supermegacomputer (con interfaccia paperoide) che governa la Ducklair Tower; e, in quanto Paperinik, se ne fa un alleato. Divertentissimo è il rapporto tra Paperino e Uno, l'unico computer autenticamente freddurista che si trovi in letteratura. Paperinik e Uno, alleati, difendono la Terra dai tentativi di penetrazione degli Evroniani, extraterrestri vagamente paperomorfi ma cattivi che più cattivi non si può. Come in tutte le serie di questo tipo incontrano amici e nemici: il perfido Fangus Angus, giornalista televisivo produttore di notizie false (nota: è di origini neozelandesi ed è... un cactus! - forse il primo personaggio disneyano basato su un vegetale), o la terribile Xadhoom, unica sopravvissuta del popolo Xerbiano sterminato dai guerrieri di Evron, che per compiere la sua vendetta si è cyberizzata in pura energia (caratterialmente e fisicamente sembra una versione più hard di Tank Girl); eccetera eccetera. Benché avventuroso e perfettamente aggiornato con le ultime novità dal cyberspazio, questo Paperinik conserva tutta l'autoironia e la comicità (...e l'imbranataggine) del personaggio originale. Disegno, colorazione e impaginazione sono fortemente innovativi (e forse questa era la cosa che andava detta per prima); la scuola italiana si conferma come la più originale nell'interpretare e reinterpretare i personaggi della banda Disney. Nell'attuale clima di revival degli anni Sessanta, cogliamo l'occasione per chiedere una riedizione della mitica Paperetta Yé-yé.

TUTTI GLI UMANI DI PK. Dir. resp. Paolo Cavaglione. Progetto editoriale: Ezio Sisto, Max Monteduro. Testi: Valentina de Poli, Davide Catenacci, Simone Stenti. Segreteria: Elena Orlandi. Per l'episodio "Ombre su Venere": soggetto Francesco Artibani e Simone Stenti; sceneggiatura Francesco Artibani; matite e chine Claudio Sciarrone; lettering Nicoletta Foffa; colori Litomilano; copertina di Claudio Sciarrone (disegno) e Max Monteduro (colori in computergrafica). Redazione di Pk: cp 340 20102, Milano; fax 02-29085162.

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