[LETTURE & SCRITTURE]

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QUATTRO POESIE, di Daniela Attanasio

Sarò colpevole come un ospite nella

mia vita perché il viaggio veramente

esiste e io colpevole come un ospite

nella mia casa ne misuro il perimetro

interno. La sabbia rastrellata palmo

a palmo esala odori di salsa combu-

stione, il caldo estivo sopra la tela

d'ombrellone matura questa serra di

parole estive mandate a memoria dalla

tua risata unica libertà unica calma

volontà che comunque resiste

*

L'ospite non somiglia all'abitante

della casa non ha la consuetudine del gesto

e non cammina sopportandone il peso

trascina un tempo di lentezza marina

con calme ondate d'attesa non conosce

l'intesa che attraversa le stanze

nel porto quotidiano. La casa è un porto

a difesa l'ospite ci cammina senza

lasciare impronte ma un'ombra delebile

sul vetro del bicchiere

*

Allora non sapevo se l'impalpabile

riflesso viola delle ciglia

fosse per me segnale convenuto

non sapevo correggere l'inclinazione della

testa alle punte aguzze dei tuoi

denti ancora non sapevo riconoscere

le rocce della lingua che limava baci

e parole. Io non sapevo dirmi la verità

e ti fingevo assente io non sapevo

carezzarti la mano non sapevo aspettare

io sempre la prima a dire non sapevo

più parlare ancora oggi non so se quel

sorriso ardito che ti brillava i denti

fosse amore o scherno

*

Ardita non fui mai come volevo come

avrei voluto come oggi vorrei tagliarti

in due con i miei occhi quando

ti volti indietro senza presentimento

e ti spaventi della mia presenza

io ti ascoltavo da tempo e studiavo

quelle braccia carnose l'adipe

inconsistente una feroce piega

nel vestito. Strattonata dalla folla

degli eventi perdo l'orientamento in

questa girandola spaziale perdo il gusto

del gioco mi spavento a non guardarti più

DANIELA ATTANASIO è nata a Roma nel 1947. Ha pubblicate le raccolte di poesie "Non per amore al mondo" (nel volume collettivo Testarda tregua, Sciascia, Caltanissetta, 1987) e La cura delle cose (Empirìa, Roma, 1993). Ha tradotto la sezione "Love Poems" di Anne Sexton nel volume antologico La doppia immagine (Sciascia., 1989) e il romanzo di Jenny Diski Nonentity (La Luna, Palermo, 1992). Collabora a riviste e quotidiani.

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INTERVISTA A UN'ALA DI RISERVA

racconto di Gianpiero Valente

GIANPIERO VALENTE è nato a Vicenza nel 1957. Insegna discipline pittoriche presso il liceo artistico "Arturo Martini" di Schio (Vi). Ha scritto un romanzo di ambientazione cecoslovacca che sarà pubblicato dalle edizioni Theoria.

Giulio dice: ìIo scrivo sempre per far uscire meglio uníemozione appena abbozzata, per chiarirla. Mai il contrario. Del tuo progetto penso che sia sbagliato, ma tanto tu lo farai lo stesso. Scrivi pure di questa cosa se ti brucia, se ne sei capace fallo, ma ho paura che ne uscirai con le ossa rotteî.

Le cestiste hanno le gambe lunghe, muscolose e tozze, le rotule sporgenti, le mani larghe, líindice e il pollice sviluppati per artigliare la palla anche quando rimbalza lontano. Una cestista che ti fa il segno della pistola sembra che ti punti contro un cannone.

Tempo fa ho pensato di poter diventare come Frank Bascombe (Il personaggio di Richard Ford, nel suo romanzo Sportswriter). Per questo un mercoledì pomeriggio sono andato al giornale della mia città. Nessuno mi ha filato, e quando ho detto che volevo scrivere un pezzo su una squadra di basket femminile, ìanche gratisî, ho aggiunto, mi hanno guardato come uno spostato. Poi il caporedattore sportivo, tipetto molto pratico, ha riflettuto: ìGratis non ci costa niente, in effetti. Torna quando hai qualcosa, e buona fortunaî.

Dodici ore dopo il mio pezzo era già finito, anche nel senso che líinchiostro delle sue belle parole non avrebbe mai visto la luce del sole. Infatti subito ho tradito tutti i saggi consigli di Frank B.: mi sono fatto coinvolgere (Frank la pensa molto come Giulio su questo). Gli atleti sono tipi assolutamente fattuali, dice Frank, inutile cercare di tirar fuori quello che non c'è: sono allenati per dare seguito a uníintenzione, che subito deve concretizzarsi in un gesto. Tu puoi anche chiedergli: ìCosa pensi di questa paura di vincere che vi prende negli ultimi secondi?î, magari ti rispondono, per cortesia, si sforzano di mettere insieme qualche frase da strizzacervelli, ma è evidente che non gliene importa un fico. Se vuoi una risposta seria, qualcosa alla loro portata, devi chiedere: ìSandra, hai provato tre volte il tiro da sotto e ti è mancato il braccio, cos'è successo?î. ìSi è vero, stasera il mio braccio non rispondeva bene come al solito. Ho corso come una matta, mi sono smarcata bene, due buoni passaggi e un paio di contrasti ok li ho fatti, poi però quando cíera da metterla dentro, era come se attaccata al polso ci fosse una spugna invece della mano. Non so cosa dirti, andrà meglio la prossima voltaî. ìOk, ciao Sandra, grazie per líintervista, ci vediamoî ìCi vediamo Carlo, stammi beneî, cose così insomma.

Frank direbbe che questo tipo díintervista è onesto. Perciò se leggesse quello che ho scritto io, probabilmente vi scorgerebbe un atteggiamento sbagliato.

In effetti ho giocato sporco, e mi sono inventato un pezzo di sana pianta. Nel senso che ho parlato con qualcuno della squadra e poi ho ricamato sopra in lungo e in largo, solo per me stesso, perché in realtà sulla mia prima e unica intervista a un atleta non ci sarebbe stato proprio niente da scrivere. Ho scritto più per rabbia e frustrazione, e mentre scrivevo pensavo: quello stronzo vuole che lavori senza pagarmi, allora si becca quello che voglio io, se se lo becca.

Questo è quello che ho pensato allora.

Sandra ha le gambe lunghe, per niente tozze, le mani grandi ma ben affusolate e i rimbalzi lontani li arraffa lo stesso. Però ha un problema: credo sia innamorata di una sua compagna di squadra, una negretta da trenta punti a partita. Non sto dicendo che vanno a letto assieme, e se lo fanno sono affari loro, e a me non interessa minimamente, anche se noncredo sia così. Per Sandra la sua amica rappresenta quello che lei vorrebbe essere in campo: una buona giocatrice di A1, capace di fare cinque, sei tiri da tre a partita, dieci penetrazioni, magari partendo un paio di volte in progressione direttamente da un rimbalzo conquistato in difesa, e magari dieci su dieci nei tiri liberi. Così quando Sandra vede Ruth giocare proprio in questo modo, le gambe le diventano molli, e le sue lunghe dita affusolate si trasformano in bastoncini di spugna bagnata, perché quel modo per lei è come chiederle di fare un salto a due e venti, cioè mezzo metro in più di quello che riesce a saltare, cinquanta centimetri díaria che lei non attraverserà mai. Sandra però non è affatto il tipo della pappamolla: ha capito che più in là di tanto non riuscirà mai ad arrivare, per questo si accontenta di giocare scorci di partita, e ogni tanto magari tira fuori una prestazione superiore al suo standard. Allora il mister le dice: ìCazzo!, perché non giochi sempre così, quando sei in palla sembri proprio da quintetto base, cristo!î. Così lei è contenta e per una settimana si sente appena un gradino sotto alla sua amica Ruth, cioè appena un niente sotto a quello che ha sempre sognato di diventare. Sandra si ricorda di quando aveva dieci anni e per la prima volta ha cominciato a schiacciare quel pallone pesante contro il pavimento. Poi un giorno improvvisamente si accorse di come era diventato leggero, e come ogni volta ritornava docile, da terra su su fin dentro al palmo della sua mano. Allora le sembrò che la palla fosse diventata quasi una parte di sé, e ora, quando sta più di una settimana senza palleggi le sembra che alla mano manchi qualcosa, che non sia più la stessa. E quando le chiedono cosa rappresenti il basket per lei, lei pensa a quella sensazione, alla palla che le accarezza la mano, per questo risponde con parole abbastanza rituali (ma solo per chi ascolta): ìè come se il basket mi fosse entrato dentroî, risponde. Per questo motivo quel poco che la separa dalla classe di Ruth la fa soffrire terribilmente, perché lei ha accumulato dentro di sé tutto quel lavoro di quindici anni che le costa una fatica enorme, e che non le dà tutto quello che si era aspettata di ricevere in cambio, e non c'è niente da fare perché di più non ne ha, anche se lei non salta mai un allenamento, ascolta quello che gli allenatori le dicono, e ogni volta ci da dentro e ci mette tutto. Ruth invece è uníaltra pasta di donna, e quando arrivò dai mitici campi U.S.A., allíinizio veniva agli allenamenti con quella sua aria indolente, la camminata felpata e molle, e il mister síarrabbiava e le urlava dietro: ìPoi in partita, dopo cinque minuti mi tiri fuori la lingua fino ai piedi, alza quelle ginocchia cazzo!, dacci dentroî. Invece Sandra durante gli allenamenti è sempre sudata fradicia e le ginocchia le tira su fin sotto al mento, e ogni volta che il mister urla, lei butta uníocchiata a Ruth che invece di prendersela si fa una scrollata di spalle e soffia fuori tutto il fiato. Le prime volte Sandra si arrabbiava nel vederle fare quel gesto, poi un giorno lei e Ruth si sono parlate e poi c'è stata la partita, e Sandra allíimprovviso è riuscita a capire quasi tutto di quella sua vita fatta di una palla che ha bisogno della sua mano per essere viva.

Quella volta sono rientrate nello spogliatoio per correre sotto la doccia, e in mezzo a tutte le altre Sandra ha gridato con rabbia: ìPotresti anche sbatterti un poí di più cazzo!, in fondo ti paganoî, perché anche se gioca poco, è lei che nello spogliatoio guida il gruppo. Ruth le rispose pescando parole dal suo slang americano e poi fuori al parcheggio la prese da parte: ìSenti, ce líhai con me?î le disse, con una certa mitezza, perché Ruth riesce ad essere spavalda solo in campo. ìNon mi piace che te la prendi sottogambaî, rispose Sandra, ìpoi ci rimette tutta la squadraî. Ruth rimase lì, con la sua aria annoiata, ma con calma volle risponderle: ìTutti allenatori hanno insegnato a me come si gioca a basket, ma nessuno mi ha insegnato di mettere dentro la palla nel canestro, ok baby!î. Sandra líha guardata, impressionata da quella voglia dellíaltra di non rispondere al suo attacco, ma non è riuscita a capire bene cosa líaltra avesse voluto dire.

Invece la partita successiva, la prima con le americane in squadra, Sandra ha capito: mancavano solo pochi minuti alla fine, lei era in panchina da uníeternità e la sua squadra sotto di dieci punti. Il mister chiama il Time Out e dispone la tattica: scribacchia con il pennarello sulla lavagnetta e disegna un paio di schemi, poi guarda Ruth: ìVoi le fate arrivare la palla in profondità, e tu la metti dentro, ok!î, Ruth si mette le mani sui fianchi e butta fuori il fiato come una vacca spompata, ma Sandra vede i suoi occhi e capisce che sono vivi a dispetto dei gesti del corpo. Allora si arrabbia, perché sente il sudore della maglietta ancora bagnata dai suoi nove minuti appena di partita, le si appiccica fastidiosamente alla schiena ogni volta che si appoggia alla panchina e quasi avrebbe voglia di gridare al mister che, cazzo, sarebbe ora di fare un cambio, e che si sente la mano forte e elastica come una molla díacciaio. Ma lui tiene gli occhi solo su quelli di Ruth e dopo averla fatta voltare, con una mano in mezzo alle scapole la spinge in campo. Dopo trenta secondi Ruth fa un centro da tre, e poi due punti da sotto. La guardia avversaria butta via un gancio facile e la squadra di Sandra ora è sotto di cinque. Ruth è galvanizzata dai due canestri ravvicinati, comincia a correre come non fa quasi mai in allenamento, e come Sandra riesce a fare almeno una volta a stagione, ma è il gioco di mani con la palla che incanta Sandra: Ruth fa viaggiare la palla dalla destra alla sinistra a una velocità impressionante, la fa girare intorno al bacino come se giocasse con líHoola hop, e poi allíimprovviso sembra che la palla le sia sfuggita di mano (questo è un appunto che mi sono segnato durante una partita, prima di conoscere la storia tra loro due): la palla si è staccata e ha perso il contatto con le dita. Tutti nel palazzetto guardano la traiettoria morbida che la palla disegna nellíaria, e quando è ancora lontana dal canestro tutti sanno già che quella sta proprio andando a infilarsi dritta nel mezzo del cerchio di ferro, e per un attimo, frazioni di secondo, la vita dentro allo stadio è congelata: è una sospensione infinitesimale, líanticipazione collettiva di uníimprobabilità che si sta realizzando, subito seguita da uníesplosione liberatoria; le grida e le urla che seguono sono la consolazione perché uno della nostra specie ce líha fatta ancora una volta a fregare il destino dellíimperfezione umana. La differenza tra il canestro di un fuoriclasse e quello di un giocatore qualunque è enorme: quando tira il primo, non appena la palla ha lasciato la sua mano sai subito che entrerà . E questo è tutto.

Quella sera che lího vista anchíio Ruth ha tenuto bene fino alla fine a un ritmo sfiancante e in sei minuti è andata a centro, otto su otto: cinque da due, tre da tre più quattro liberi. Gli ultras del pubblico erano in piedi e scandivano il nome dellíamericana pestando come invasati sui bidoni di ferro.

Eí stato dopo una di queste prestazioni della sua compagna, che Sandra si è fatta aspettare da Ruth, e da allora quasi tutte le sere a fine allenamento, perché Ruth va sempre sotto la doccia per prima e Sandra per ultima. Vanno insieme a mangiare la pizza, a ballare, o allíAtànor per compiacere Victoria, líaltra nera americana della squadra.

ìLoro dividono un piccolo appartamentoî, mi racconta Sandra, ìinvece io vivo ancora con i miei vecchi, e a casa non ci torno sempre di buona voglia: vorrei un piccolo buco per me, ma ho paura di non farcela con lo stipendio delle poste, e con il rimborso spese che mi danno come giocatrice di rincalzoî. Così ha sempre fatto líamore sul sedile di uníauto, perché i suoi sono allíantica ìSono poveraî, mi ha detto, quando lího intervistata, ìNon ho nemmeno una camera mia; Mio padre è in pensione ma prima è stato senza lavoro per una vita e i miei due fratelloni grandi se la sono svignata e non si fanno mai vedere per darci una mano, tutti proprio contenti che ai vecchi ci pensi ioî. E quel ragionamento non mi convinse troppo, perché avevo calcolato che con un paio di milioni al mese ce líavrebbe fatta a sganciarsi da quella situazione.

Quella sera stessa, dopo che avevo parlato con il caporedattore della pagina sportiva, sono andato ad assistere allíallenamento. Quelle ragazze le avevo già viste prima, giocarsi più o meno bene, quattro o cinque partite. Ho chiesto al mister il permesso, e lui ha detto che andava bene. Ho parlato con le americane e con un altro paio di quelle che giocano sempre. Ma il grosso del lavoro ho voluto farlo con le ragazze della panchina. Ho raccolto tre impressioni da quasi tutte e poi ho deciso che avrei fatto una lunga chiacchierata con quellíala dallíaspetto delicato e dallíespressione grintosa. Forse è stata una scelta casuale, forse mi è sembrato subito che lei fosse il collante, líanima del gruppo: tanto sudore e fatica per tutta la settimana, e poi zitta e disciplinata in panchina durante le partite, un modo come un altro per guadagnarsi il rispetto delle compagne, ìse non riesco a cavare niente di buono da questa, posso cambiare mestiereî, ho pensato. Mi ha detto che avrebbe parlato meglio davanti a una birra e io non ho chiesto di meglio. Così ho scoperto che il suo primo lavoro è quello delíimpiegata delle poste, che i suoi vivono solo con il minimo della pensione, e che mangia pane e basket da quando aveva dieci anni. Abbiamo parlato e bevuto una seconda birra, e poi dal piccolo rigagnolo è traboccato un fiume di parole con dentro tutta la storia tra lei e Ruth, non tanto incredibile, ma così inaspettata, che sono rimasto imbambolato scordandomi perfino di prendere appunti, mentre lei parlava.

Líha presa alla larga, raccontandomi dei suoi ritmi frenetici tra lavoro e allenamento, e ultimamente deve spostarsi continuamente da un ufficio postale allíaltro per ragioni di mobilità interna, ì...e sempre per il bene dellíutenzaî, mi ha detto. Mi ha raccontato dei problemi con i suoi, dei rapporti con le compagne di squadra, ì...sai, tutto sommato siamo un buon gruppoî, diceva. Ma poi lentamente ho avvertito il cambio di tonalità, appena uníinflessione più grave, uníattenzione maggiore agli stacchi tra una parola e líaltra, e il ritmo delle frasi è rallentato e tutto ha acquistato una diversa gravità e peso.

ì... un giorno, dopo il lavoro, invece di tornare a casa mia, mi sono fermata allíappartamento di Victoria e Ruthî, s'è messa a raccontarmi Sandra. Fino a questo punto del suo racconto io ancora ho annotato diligentemente appunti sul mio taccuino da falso giornalista.

Quel mercoledì sera di fine novembre, la temperatura non era giusta per la stagione: troppo caldo, cíera un clima da settembre piovoso; pioveva tutti i giorni da più di due settimane. Forse ero solo io che mi sentivo strano, ma avevo líimpressione che in giro ci fossero di quelle facce tirate, e nervi scoperti, molto più del solito.

Continuò a parlarmi delle americane: ìLoro non hanno fatto proprio i salti dalla gioia quando mi hanno vista arrivare...î, mi ha detto, ì...però la soddisfazione di Victoria e Ruth la intuii lo stesso, perché di giorno, se non si allenano se ne stanno sempre da sole tra loro due, e vedere una faccia bianca ogni tanto le distrae. Siamo diventate vere amiche quasi subito, capisciî, mi ha detto (ci siamo accordati per il tu), ìe tra noi tre adesso, cíè uníaltra intesa, anche se stiamo bene con tutta la squadraî.

Alla fine di questa frase mi pare che fumò una sigaretta. A dire il vero potrebbe essere stato anche prima o dopo: quando rivedo la scena cerco sempre il punto in cui allíimprovviso mi sono accorto che accanto a me avevo uníaltra persona da quella che mi ero immaginato, e quel momento lo faccio coincidere con la sua prima sigaretta. Le ho chiesto quanto fuma e cosa ne pensa il mister, mi ha risposto ìquattro o cinque dopo líallenamento, e mai davanti a luiî, ha detto, ìci sembra di fare una cosa offensiva nei suoi riguardi, verso il lavoro che facciamo tutti noiî. ìOk!î, ho detto io, ìanche se non ho mai fatto sport a questi livelli, è una cosa che posso capireî. Ha voluto sapere cosa avevo fatto, (credo mi abbia valutato anche fisicamente, per un atleta devíessere naturale), e quando ha sentito che parlavo di calcio, ha rapidamente cambiato discorso, e anche di questo conosco la ragione: perché i giocatori di basket hanno quasi un complesso di superiorità nei confronti di molti sport, ma verso il calcio, in particolare, soprattutto da noi, dove i calciatori sono strapagati. Quelli della pallacanestro sono orgogliosi della complessità tecnica dei loro gesti, e una volta me lo ha confermato uníintervista a un guru del basket americano; lího letta in una rivista specializzata: ìCoordinazione, velocità, potenza, elasticità, riflessi, istinto, regole precise e gioco di squadra...î, diceva, ì...inoltre niente contatto con líavversario: quello non lo tocchi, devi solo far vedere di cosa sei capace, senza provare a fare il furbo, e se lo fai, allora ti cacciano. Trovatemi un altro sport in cui ci sia tutto questo, e io cambio mestiereî.

ìCosì, immagino che le cose siano andate ancora meglio per te dentro la squadra?î, le ho chiesto per riprendere il discorso su di lei. ìIo ero alle stelle...î, mi ha detto, ì...proprio affascinata, perché loro sono due vere professioniste del basket, le uniche tra di noi, capisciî. Io non capivo dove avrebbe portato quella storia di amicizia tra compagne di squadra, ma ero curioso, per cui mi mostrai molto interessato. Poi mi raccontò líevoluzione del suo rapporto con Ruth: ìAllíinizio non le sopportavoî, disse, ìsoprattutto Ruth, ma poi quando è iniziato il campionato e ho visto come gioca..., io non riesco più a vederla solo come una semplice giocatrice, capisci, perché se hai un dono così è come se avessi qualcosa di più, però non so spiegarmi bene, anche se so cosa voglio dire, capisciî. Non avevo capito molto, però dissi di si, muovendo la testa con energia: ìCerto, certo, è molto chiaroî. Così lei continuò a parlarmi di questo suo rapporto privilegiato con Ruth, e sembrava proprio che ne ricavasse una soddisfazione profonda. Ricordo che in quel momento pensai a cosa sarebbe accaduto a Sandra, se allíimprovviso, per un motivo qualsiasi, loro due avessero litigato. Perché poi abbia deciso di raccontarmi tutto, questo è un mistero, forse perché voleva liberarsi, ma il fatto che abbia deciso di farlo proprio con uno che a lei si era presentato come giornalista, è una tale assurdità per la quale non riesco a trovare una spiegazione decente neanche adesso, e penso che quella sera Sandra abbia avuto molta fortuna ad incontrare me invece che un marchettaro abituale, dello sport sparlato.

ìHo cominciato a fermarmi da loro sempre più spesso e a tornare a casa sempre più tardiî, mi disse, ìNon poi così tardi immagino... visto che praticate sport da professioniste, o quasi?î, ho abbozzato un sorrisetto, come a dire che per noi due questo era ovvio, ma lei candida, mi ha detto: ì qualche volta fino alle tre, anche le quattro di mattinaî, ricordo che mi sono lasciato sfuggire un ìaccidenti!, peròî, e subito mi sono affrettato ad aggiungere, ì...ne avete di energie voi atleti!î. Fu lì che mi accorsi che già a questo punto lei mi badava poco: credo che avrei potuto dirle tutto quello che volevo, anche quello che pensavo veramente, e sono certo che la sua voglia di raccontare non sarebbe diminuita. Pensandoci adesso ho líimpressione che le bastasse solo che io fossi lì, e solo in qualità di rappresentante del genere umano, niente di più e niente di meno: per lei ero un uomo con due orecchie, collegate a uníinfinita complessità di sinapsi nervose che vanno ad innestarsi nel cervello e nel cuore, senza che nessuno sappia bene con esattezza cosa tutto questo significhi; è solo che per tutti, prima o poi, questo sembra significare molto, in alcuni casi quasi tutto, e se in genere ci limitiamo a definire queste situazioni con líespressione: ìho bisogno di qualcuno che mi ascoltiî, in realtà qualche volta vorremmo dire, ìho bisogno di sapere che c'è ancora qualcuno che mi ascolta, perché se non ci fosse, potrei anche darci un taglioî.

Fuori riprese a piovere, e il nostro tavolo era proprio vicino alla finestra, così per un poí ci scambiammo impressioni sulla stagione matta, e su come influiva sullíumore della gente, e quando io dissi che gli atleti sotto questo aspetto sono avvantaggiati: ìmens sana in corpore sanoî, dissi, non avendo niente di meglio a cui appoggiarmi di questa logora saggezza, lei ricominciò a parlare con quella cadenza rallentata, che mi faceva presagire niente di buono.

ìUna sera allíAtànor incontriamo dei tipiî, dice Sandra a un certo punto. Ormai parliamo da uníora attorno alle nostre birre, e di lei ho capito che qualcosa la intristisce da quando ha realizzato che non sarà mai una fuoriclasse, e il fatto che me líabbia confidato già mi tiene sulle spine, ma non per questo mi aspettavo cose sconvolgenti.

ìPer un poí chiacchieriamo con questi due ragazzi neri, sono amici di Victoria, e erano già arrivate le due di mattinaî. Ricordo che feci un tentativo maldestro per alleggerire la tensione che lei metteva nelle sue parole: ìGià, le ore piccoleî, dissi, ma lei quasi non si accorse dell'interruzione, e tanto meno dellíintenzione che cíera dietro. ìHanno tirato fuori una bottiglietta di vetro, anfetamine penso, o ecstasyî, credo che per un attimo mi abbia fissato negli occhi, come non faceva da un poí, ma io a questo punto non trovai nulla da dire, così lei proseguì, non so se rassicurata o meno dalla mia espressione, in ogni caso non cambiò il tono di voce: ìFino ad allora non ne avevo mai saputo niente di questa robaî, dice. ìCertoî, dico io, proprio accondiscendente. Continuo a stare sulla brace, e lei è già da un poí che ha fissato lo sguardo verso un punto nel quale io vedo solo la porta dei servizi con la targhetta ìToiletteî. Mi accesi una sigaretta, nonostante quello fosse un periodo ricco di buoni propositi per smettere, e continuo ad ascoltarla, con la spiacevole sensazione che lei volesse portarmi in un posto dove io non avrei voluto seguirla, e che quello che stava accadendo non avrebbe avuto niente a che fare con il mio pezzo díesordio nel giornalismo sportivo.

ìCosa è successo?î, dico, soffiando fuori il fumo per darmi uníaria più sicura. ìIo guardo le altre e Victoria si mette a ridereî, continuò lei, ìPoi Ruth dice OK, OK, baby, e mentre io mi chiedevo come avrei fatto a rifiutare loro due ne avevano già mandate giù un paio bevendosi una coca cola. Poi Ruth mi ha messo una mano tra i capelli e mi ha detto: prendi anche tu baby, questo fa bene, e ha detto che due in una volta era proprio magico. Me lo disse così, capisci, e nel palmo della mano mi sono trovata due piccole pastiglie bianche, sembravano due occhi che mi guardavanoî. Eí stato a questo punto che smisi definitivamente di prendere appunti, tanto questa storia me la ricordo, pensai. ìE come è stato?î, le ho chiesto, ìStrano, molto strano, piena díenergia, vedevo le cose in modo diversoî. ìBeneî, dico, ìEí uníesperienza che dovrò fare anchíio prima o poi. Tanto per una volta non succede nullaî, ho aggiunto. Sandra è rimasta zitta, ha voltato la testa in un giro di ricognizione per il locale, ma più che altro mi sembrò che avesse voluto evitare i miei occhi. ìNon è stata líunica voltaî, mi ha detto, e io sono rimasto zitto, e credo che riuscii quasi a smettere di respirare per un paio di giri. Se aveva deciso di raccontarmi altro di quello, io non avrei dovuto certo sollecitarla, e neanche lo volevo. Sandra chiamò la cameriera per uníaltra birra, e anchíio feci lo stesso, perché temevo che allíimprovviso si sentisse a disagio, anche se non avevo proprio più nessuna voglia di bere, volevo solo che quella storia che mi stava raccontando finisse al più presto. Mi assalì il bisogno improvviso di tornarmene a casa, nel mio freddo appartamento da trentenne solitario; voglia di mettere lo skyline dei miei piedi in controluce tra me e il televisore, una tazza calda di caffè díorzo in mano, e acchiappare al volo tutto il secondo tempo della partita di coppa campioni, o almeno la parte finale con le interviste (cíera una testa pronta a saltare quella sera, tra líaltro, e molti volevano un risultato negativo, o non troppo brillante, per silurare líallenatore uruguagio seduto su una delle panchine più prestigiose díItalia). Lei non parlava più, ormai da cinque minuti, così decisi di dire io qualcosa: ìHa influito sul tuo rendimento?î, buttai lì, come se stessi parlando di mangiare troppe pizze alla settimana. ìSono dipendenteî, mi ha detto, come se ce líavesse sulla punta della lingua da uníeternità. ìNon sapevo che creassero dipendenza...î, fu líunica cosa che mi venne in mente di dire, (e in effetti non lo sapevo proprio, perché la mia competenza indiretta in fatto di stupefacenti si era fermata alle canne e ai buchi, e non ero aggiornato sugli sviluppi recenti della disciplina), ma lei mi è montata sulle parole: ìcocaî, ha detto, e io mostrai la faccia di uno che non aveva capito. ìDopo le pastiglie, quei due hanno tirato fuori anche quella, e a quel punto non avevo più freni, e non mi sono più posta alcun problemaî. Devo aver fatto di si con la testa, in modo meccanico. ìLa coca mi è piaciuta un saccoî, ha aggiunto Sandra, e quellíespressione così ingenua, da adolescente in ultimo banco, me la fece vedere come una bambina. Eí stato in quel momento che devo aver fatto questi segni concentrici sul mio taccuino, piuttosto nervosi direi, anche se non ho esperienze di interpretazioni grafologiche. Ho lasciato passare qualche secondo e le ho chiesto se anche Victoria e Ruth...?. Ha detto subito di no, con decisione, e ha aggiunto: ìloro solo una pastiglia ogni tanto, in compagniaî. ìAnche quella sera?î, ho insistito, Sandra mi ha guardato: ìMi pare di no, forse Victoria, ma Ruth no di sicuro, perché non le toglievo mai gli occhi di dosso. Me ne ricordereiî. Sono rimasto zitto qualche istante, e poi le ho chiesto: ìPerché, tu si?î. Non disse niente, perché in effetti il motivo me lo aveva già detto, solo che io subito non riuscii a capirlo. In quel momento pensai alla faccia del redattore capo, e che molto probabilmente mi avrebbe indirizzato al suo collega di cronaca. Poi ho guardato Sandra, e mi sono sentito un verme. ì Perché?î, le ho chiesto, e più che per la sua storia ero frustrato dal fatto che di uníintervista del genere non sapevo bene cosa farmene, perché forse sentivo già il bisogno di non farne proprio niente.

Avrei dovuto parlare con calma con quella ragazza, che ora non mi sembrava più nemmeno tanto alta, e indirizzarla ad un consultorio medico da un'équipe specializzata in casi come il suo. Lei ha buttato giù tutta la birra fino in fondo, e anchíio ne ho bevuto un sorso. Lei non rispondeva. ìPerché lo racconti a me?î, le ho detto a quel punto. Si è alzata ed è andata al bagno.

Quando è tornata mi ha chiesto se volevo andarmene, e io, che non vedevo líora di farlo, ho detto: ìNo, assolutamente!î, perché lei mi sembrò proprio sul punto di qualcosa, e senza colpa ne merito, mi toccava la mia parte di responsabilità.

Così poi finì di dire tutto quello che ancora le era rimasto dentro: ìQuella sera che ho preso la roba è stato bellissimoî, ha cominciato a dire appena si fu tranquillizzata sulle mie intenzioni, e sempre con gli occhi puntati sul fondo della birra, ìmolto caldo, molto caldo...î, disse, ìuna sensazione di calore e di pieno, capisciî. Io non avevo più bisogno di risponderle, perché lei neanche mi vedeva, e questo era líunico aspetto positivo della faccenda, perché proprio non sapevo quale fosse la mia espressione in quel momento: se era come la immaginavo da dentro, doveva essere orribile. Ad ogni modo cercai di mostrarmi tranquillo, riflessivo. Disse: ìIo guardavo la gente, ed era come se fossero tutti perfetti, capisci, un piacere intenso che mi entrava dagli occhi. Capito?î. Invece di risponderle provai a sondare fino a che punto fosse caduto il suo livello di reattività. ìSentiî, le dissi, appena un poí aggressivo: ìio non ti conosco, e neanche sono affari miei, ma con questa storia del caldo che ti fa star bene e le facce degli altri che sembrano perfette, o cosa cavolo hai detto prima, tu ti stai giocando tutto: carriera e salute, cazzo!î, le ho detto, e poi ho aggiunto: ì...e se vai a raccontarlo in giro con questa facilità va a finire che ti mettono anche dentro! Te ne rendi conto?î. Lei si è bloccata e mi ha guardato dritto negli occhi, così ho capito cosa era andata a fare in bagno. ìNon vuoi che finisca?î, mi ha chiesto con un tono gentile, quasi rassegnato. Rimasi completamente disarmato e le dissi che volevo proprio che mi raccontasse tutto, con una punta quasi di rabbia, tanto per darle la sensazione che la sua storia mi stava a cuore, e perché era quello che lei si aspettava da me, anche se in realtà non vedevo líora di scapparmene via di corsa. Sembrò proprio soddisfatta da quella mia reazione decisa e si lanciò per svuotarsi fino allíultima goccia. Credo sentisse una gran pena verso se stessa, e sapevo che líautocommiserazione è una delle trappole in cui ti fa scivolare qualunque dipendenza. Ma non potevo far altro che rimanere ad ascoltare, perché sarebbe stato un atto troppo meschino piantarla lì in quel modo.

ìContinuavo a fissare Ruth e poi allíimprovviso mi sono sentita proprio come lei. Questo non te lo posso descrivereî, mi disse, ì...perché è stato proprio tutto per me, troppo fantastico. Ho sentito per la prima volta che anchíio ero una brava giocatrice di pallacanestro. Italiana, capisci, ma alla pari con quelle americane, alla pari con Ruth...î, mi ha detto, ì...e per un attimo ho anche pensato di poter diventare meglio di leiî. Non potevo far altro che starmene zitto. Poi ha continuato: ìe mi sono innamorataî. Lei ha piazzato qui uníaltra lunga pausa, così mi sono tirato su di morale, e ho trovato la forza per farle una domanda: ìUn ragazzo?î, ho chiesto, tanto per dire qualcosa e anche perché finalmente quella mi era sembrata una buona notizia. ìNo, di Ruthî, lo ha detto e si è messa a ridere, proprio in modo esagerato, e io mi sono guardato intorno piuttosto a disagio. ìE glielíhai detto?î, ho sperato che almeno in questo avesse avuto un istinto di conservazione. ìNoî, mi ha risposto, e lo ha detto con un tono caldo, con tutta la voce arrotondata attorno a quelle due semplici lettere, quello fu proprio un bel no, e quasi ho sospirato con sollievo. ìE lo sei ancora?, voglio dire, sei lesbica?î, così le ho chiesto, in modo confuso, perché in realtà ero curioso di sapere tutte e due le cose assieme. ìNon credoî, ha detto, ì...sono solo una che non gioca maiî. ìMa non sei líunica, cazzo!î, ho cercato di reagire, più confuso che arrabbiato. In realtà io avrei voluto che quella storia banale di piccole frustrazioni avesse trovato uníaccomodante via díuscita, fatta di sacrifici e piccole azioni edificanti. In quel momento avrei voluto che la storia di quellíala di riserva fosse riducibile a un buon pezzo di giornalismo da poter leggere in classe ai ragazzini delle medie: ìvedete ragazzi come si fa ad essere prima di tutto campioni nella vita!î. Invece Sandra non era riuscita a trasformarsi in una bella favoletta sulle virtù dello sport, e si era limitata ad essere solo una parte della realtà di tutti i giorni: non voglio dire con questo che ogni tanto la vita reale non possa trasformarsi in un apologo istruttivo e edificante, ma ho líimpressione che sia molto più difficile incontrarla sotto questa veste. Lei si è alzata e mi ha detto che andava in bagno uníaltra volta. Quando è uscita per me era proprio fatta, forse anche per la suggestione delle sue parole, ma líespressione dei suoi occhi era decisamente esagerata.

Siamo rimasti lì altri dieci minuti. Sembrava che non avesse più niente da dirmi, che non le importasse di quello che aveva già detto, non mi chiese nemmeno se poi avrei scritto la sua storia, e forse è in quel momento credo, che ho rinviato definitivamente a uníaltra occasione líinizio glorioso della mia professione di giornalista sportivo.

Ricordo che quando il mattino dopo lei era già sulla porta del mio appartamento e io ancora in boxer e canottiera, lího salutata, e non sapendo bene cosa fare le ho teso la mano, e lei invece mi ha puntato contro il pollice e líindice affusolati, mimando una pistola, e mi sembrò proprio díessere sotto il tiro díun cannone.

Gianpiero Valente

[riga][su]

ACQUA

racconto di Matteo Galiazzo

MATTEO GALIAZZO è nato nel. Abita a Genova. Collabora alla rivista di narrazioni Il Maltese (cf. NAUTILUS, agosto 1996). Un suo racconto è compreso nell'antologia Gioventù cannibale appena pubblicata da Einaudi (cf. NAUTILUS, novembre 1996). In marzo 1997, sempre presso Einaudi, uscirà la raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte.

Non occorre che le dica, professore, che siamo tutti cannibali. Gli uomini muoiono e i vermi bucano i loro corpi. Poi i vermi muoiono e radici di piante bucano i loro corpi. Poi le piante muoiono strappate dai denti, e vanno a morire negli stomaci di grossi ovini. Poi io entro in un supermercato e dentro la plastica trasparente c'è carne umana, professore, strappata dai vermi strappati dalle radici strappate dai denti. Nulla si crea, lei lo sa, la materia in circolo è sempre quella, gli atomi sono sempre quelli.

Oppure. Se ora c'è una persona, una persona a caso, e sta per addentare un panino, se io rubo quel panino a quella persona, non le permetto di mangiarlo e invece lo mangio io, è cannibalismo anche questo, capisce. E' come se mangiassi direttamente la carne che si sarebbe formata dentro di lui dopo aver mangiato il panino, non c'è nessuna differenza. La direzione nella quale il tempo scorre non è una giustificazione a niente, professore. L'aborto è un omicidio, professore.

La materia è sempre la stessa, l'ho già detto. Non ce n'è dell'altra, di nuova, non ce n'è una scorta infinita alla quale la natura possa attingere per fabbricare i nostri corpi. La natura è come uno scultore, uno scultore a corto di materiale, costretto a distruggere le opere create il giorno prima per potere avere di che costruirne delle altre. Ogni giorno la natura distrugge vite, perché altre vite possano essere create. La natura ha bisogno dei nostri atomi, professore. E' per questo che si muore. E' per questo che tutto muore, gli uomini, gli animali, le piante. Perché altri uomini, altri animali, piante, rocce, altri fiumi, altri pianeti, stelle galassie, perché altri universi possano nascere. Perché quando Dio ha creato l'uomo, contemporaneamente il fango dal quale ha preso vita ha dovuto morire. Perché il miracolo della creazione è solo l'altra faccia di un altro miracolo, professore, quello della distruzione di tutte le cose.

Durante il nono decennio di questo secolo avvenne qualcosa, qualcosa che avrebbe potuto benissimo restare confinato negli spazi soliti della divulgazione medica, ma che invece dilagò nell'immaginario collettivo con la forza sociologica simile a quella che avrebbe potuto avere l'invasione della Terra da parte di forze extraterrestri.

L'invasione avvenne per gradi. All'inizio si pensava che la malattia, che allora era ancora solo un piccolo ruscello, scorresse all'interno di alcuni alvei ben precisi. Questi alvei vennero riconosciuti in un primo tempo come l'omosessualità e la tossicodipendenza. La maggior parte della gente si sentiva al sicuro, poiché questi alvei interessavano una parte ridotta e ben delimitata di popolazione. Si può dire che l'eterosessualità in quel periodo rappresentava come un pendio, una collina, e si pensava che mai sarebbe stata raggiunta dal ruscello.

Il livello delle acque tuttavia non rimase costante, e in pochi anni crebbe fino a lambire gli argini, argini che ora apparivano sempre più precari e non affatto definiti in modo preciso.

Ma ancora prima che ciò avvenisse, quando ancora la malattia era solo un ruscello, avvenne che la diffusione della notizia della sua esistenza si avvantaggiò di mezzi che nessun'altra malattia, per quanto grave e più diffusa, aveva fin lì potuto usare.

I due alvei lungo i quali la malattia scorreva incontravano nel loro cammino una zona illuminata da potenti riflettori. Gli sguardi di molte persone erano normalmente puntati verso questa zona, cosicché quando si vide passare il primo cadavere portato a valle dalle acque, be', tutti, fu proprio tutto il mondo a vederlo. E tutti seppero della malattia. Il cadavere era quello di un attore americano. Il suo nome era Rock Hudson.

C'è stato un tempo, professore, un tempo in cui un uomo in riva a un lago dette da mangiare a una grande folla radunatasi per ascoltare le sue parole. Ecco, le potrà sembrare ambizioso, forse, ma è quello che farò anch'io. Non ho intenzione di mettermi a predicare, questo no, o di girare di città in città a portare la parola di un ipotetico Dio, non ho intenzione di annunciare nessuna salvezza per quelli che mi seguiranno. Eppure io li salverò, professore, io li sfamerò, io moltiplicherò il cibo per le loro bocche, lo farò di nuovo. Io darò loro da mangiare. Forse le sembra poco. Ma non lo è. Io sfamerò quella gente, tutta la gente.

Forse lei non capisce. Non posso vedere le espressioni sul suo viso mentre ascolta queste cassette che le mando. Lei si chiederà perché proprio lei. Un giorno forse glie lo spiegherò. Vede, è un motivo del tutto personale, non ha niente a che fare con la materia dei miei studi. Non ho scelto lei come destinatario nella speranza che in qualche modo possa aiutarmi nei miei studi, o anche solo incoraggiarmi. Lei è un immunologo, i miei studi invece riguardano la chimica organica. Lei non mi può essere utile, in questo senso. La sua incompetenza, mi perdoni ma sono sicuro che capirà il senso assolutamente non offensivo del termine, la sua incompetenza anzi mi è molto di conforto. Se lei si occupasse di chimica sarebbe umana per lei la tentazione di giudicare quello che faccio da un punto di vista accademico. E non voglio che sia così. Non mi occorre quel tipo di giudizio o di conforto. Ho bisogno di sentire la mia voce che parla a qualcuno, di modo che io possa intercettarla lateralmente. E' una specie di autocoscienza, in un certo senso.

Olifea ad esempio non capisce. Stanotte l'ho sognata. Allevava api. Le portava in giro dentro la bocca, così, nello stesso modo con cui si possono portare i criceti in tasca. E' stato quando l'ho baciata che mi sono accorto dell'ape. E quando l'ape è morta dopo avermi punto la lingua Olifea se ne infilava subito un'altra in bocca, non so, le tirava fuori da un sacchetto e se le metteva in bocca come fossero caramelle, come fossero pop-corn.

Olifea comunque non capisce. Con lei non posso parlare così come sto parlando a lei in questo momento. Ah. Mi accorgo che l'uso del lei che le riservo, professore, può creare degli equivoci, potrebbe pensare che le sto attribuendo modi e pensieri di Olifea. Passerò momentaneamente all'uso del voi, quindi, in modo da distinguerla da lei. Dicevo, con Olifea non posso parlare. Tutto il tempo che io passo a studiare alla mia idea Olifea lo considera rubato a lei. E' inutile per me spiegarle l'importanza e la portata dei miei studi, non vuole sentire ragioni. Dice che a fare come me sono i bambini, che quando vogliono essere lasciati in pace dai genitori dicono che stanno studiando, e improvvisamente i genitori stanno zitti, abbassano la voce, il televisore, spengono l'aspirapolvere. Oppure quando le mamme chiedono ai figli se per favore possono andare giù a fare un po' di spesa. Sto studiando, mamma. E la mamma scende lei a fare la spesa. Magari si insospettiscono un po', ma vedete, specie per quei genitori che non hanno studiato, lo studio è una specie di lasciapassare assoluto che i figli hanno diritto di usare comunque. Magari non è vero, magari non stanno veramente studiando, ma per quei genitori l'idea di rischiare di interrompere veramente lo studio dei figli è capace di annichilire tutto il resto. Come dire, meglio un reo libero che un innocente in prigione, così ragionano loro.

E Olifea pensa che io faccia lo stesso con lei, che io utilizzi questo lasciapassare collaudato con i miei genitori per crearmi dei tempi franchi, degli spazi, per tenerla lontana, insomma.

E poi odia le mosche. Le mosche che si riproducono nelle teche di vetro. In un certo senso è gelosa di loro. Dev'esserci qualcosa di simbolico nel fatto che l'ho sognata con un'ape in bocca.

L'impressione che la malattia fosse alle porte, alle porte di tutti, fu una conseguenza del dilagare delle informazioni. In un certo senso il livello immaginario al quale l'acqua era arrivata era molto più alto del livello reale. Gli argini sembravano destinati ad essere sommersi. L'eterosessualità non fu più un pendio abbastanza elevato. La monogamia sessuale diventò quello che poteva essere considerato l'ultimo lotto di terreno asciutto.

Nel frattempo era inevitabile constatare un altro fenomeno. Pubblicità significa commercio. I flussi di informazione sono veicoli fondamentali sfruttando i quali non è difficile provocare paralleli flussi di denaro.

Non tardò ad accorgersene Robert Gallo, un ricercatore del NIH statunitense, il quale in barba ai tre postulati di Koch, dei quali nemmeno uno veniva soddisfatto dall'HIV, pretese di avere isolato per primo il virus della malattia, l'HIV appunto.

A questo punto mi permetto un'apparente digressione. Esistono contesti microsociali tipici dei gruppi maschili dell'adolescenza all'interno dei quali vi è una continua tensione in ciascun soggetto verso la coesione. In altre parole, è tipico dell'adolescenza maschile il formarsi di gruppi, i cui elementi non cercano altra legittimazione che all'interno del gruppo stesso. Questa situazione si manifesta in maniera visibile nei rapporti con l'altro sesso. Il ragazzo facente parte del gruppo, accantonati i propri gusti personali, cerca di avere rapporti con ragazze che lui può anche personalmente considerare brutte, ma che è sicuro che piacciano agli altri componenti del gruppo. Siccome però nessuno manifesta di fronte agli altri i propri gusti reali, i gusti che vengono assunti come gusti del gruppo sono gusti fittizi.

C'è comunque una fase nella quale il ragazzo si accorge di non essere in grado di stabilire autonomamente quali siano i gusti del gruppo. Questo avviene per le modalità attraverso le quali questi gusti dovrebbero emergere.

A questo punto avviene spesso che ragazze oggettivamente bruttissime sotto tutti gli standard, ma che hanno capito il meccanismo, riescano a convincere, attraverso trucchi e atteggiamenti particolari, di essere ragazze che corrispondono perfettamente ai gusti del gruppo. Uno di questi atteggiamenti tipici è l'essere stronze. Quando una ragazza si comporta in maniera molto indisponente, si crea nel maschio l'idea che questo comportamento si sia formato come difesa alle continue avance da parte dell'universo maschile.

Il solo fatto di comportarsi come se la sua vita non fosse stata altro fino a quel momento che evitare approcci, è in grado istantaneamente di cancellare l'evidente ammasso di tare fisiche che la compone. La reazione a catena che si crea è simile a quella che si può osservare gettando pezzi di polistirolo in un pollaio. Il fatto che anche una sola gallina accorra fa scattare immediatamente anche tutte le altre, in un putiferio di zuffe e beccate che si prolungherà anche quando è ormai chiaro a tutte l'apporto calorico del polistirolo.

Per altri versi ci sono analogie molto più forti che si possono riscontrare all'interno di una qualsiasi borsa valori. E' una specie di aggiotaggio all'incontrario.

Comunque, la capacità delle donne di sfruttare questa tara nelle comunicazioni inframaschili ha qualcosa del modo con cui Robert Gallo ha affermato la propria scoperta. Si può dire che l'odiosità che lo contraddistingue ha creato attorno a lui un'aura di autorevolezza che i risultati delle sue ricerche sicuramente non hanno mai avuto.

Il movente etico da cui Gallo era sostenuto, il motivo che gli dava la forza di lottare e lavorare ininterrottamente fu chiaro abbastanza presto. La battaglia legale con l'Istituto Pasteur di Parigi che stabilì chi poteva sfruttare economicamente i risultati della scoperta dell'HIV fu in questo senso uno spettacolo assolutamente illuminante.

Olifea dice che i corpi si deteriorano prima dei cervelli. Che sarebbe quindi razionale sfruttare adesso le possibilità che i nostri fisici offrono l'un l'altro.

Ma io la penso diversamente. Esistono stati mentali alternativi. Esistono finestre, per così dire. C'è un periodo durante il quale puoi puntare il telescopio e vedere Giove ed è un periodo passato il quale non puoi più. Le finestre si chiudono, insomma.

Esiste uno stato che mi permette gli studi che sto compiendo. Questo stato è una specie di stanza mentale, per così dire, all'interno della quale io entro. Una volta entrato osservo la forma dei miei pensieri, e hanno una consistenza diversa da quella abituale, si associano tra loro attraverso altri sistemi di valenze. E' questa stanza mentale che mi permette di progredire nei miei studi. L'ingresso in questa stanza non è una cosa affatto semplice. Non utilizzo nessun tipo di droga, a volte basta la stanchezza a provocarmi allucinazioni che mi facilitano l'ingresso. Occorre in particolare provocare il rilassamento di una particolare area del mio cervello, o almeno questa è la cosa che io mi figuro per raggiungere questo stato mentale. Non ne so molto di neurologia, professore.

Comunque, il fatto che questa stanza mentale sia necessaria ai miei studi è la mia più grande fonte di angoscia. Se fosse possibile non uscirei mai da quella stanza. Ma non è fisicamente possibile. La mia paura è che un giorno, domani stesso magari, io non riesca più ad entrare. Che per qualche motivo fisiologico la finestra si sia chiusa, che il mio cervello si modifichi per qualche motivo organico e io non sia più in grado di entrare nella stanza. Per questo devo finire i miei studi al più presto. E' questo che tento inutilmente di spiegare a Olifea. Ma lei non crede alla stanza nascosta. Dice che è solo un modo come un altro per dire che ho bisogno di concentrarmi. Ma non è così. Spero che almeno lei capisca, professore.

E poi i bambini. Lei non può capire, professore, la disgrazia di abitare un appartamento rivolto verso un cortile frequentato da bambini. I bambini sono le aggregazioni di molecole più irregolarmente rumorose che esistono. Giocano a calcio qua sotto. La porta è la saracinesca abbassata di un garage. Già fa rumore quella. Ma le loro urla. Sono qualcosa di orribile. Cocaina. Ecco quello a cui penso ascoltandoli. La cocaina fa quell'effetto. Qualcosa di molto simile devo scorrere nei loro sangui.

La stanza nascosta ha pareti molto fragili, professore, è un po' come un acquario. Ci vuole poco per le voci dei bambini a rompere le pareti e a fare uscire l'acqua con tutto quello che c'è dentro, me compreso. Ogni volta che questo succede, professore, mi sento in diritto di odiarli. Rozzi, disarticolati. Distributori di fonemi tribali.

Potrei studiare da qualche altra parte, mi dirà. Ma le mosche. Non posso staccarmi dalle mosche. E' tutto collegato: la stanza nascosta, le mosche, sono parti di un procedimento che mi è necessario per progredire, professore.

L'idea che l'HIV non avesse niente a che fare con la malattia fu espressa per la prima volta ufficialmente da Peter Duesberg dell'Università di Berkeley. Duesberg ricordò al mondo dell'esistenza dei postulati di Koch.

Il primo postulato dice che il microrganismo sospetto deve essere presente in tutti i casi della malattia. Questo non avviene con l'HIV.

Il secondo postulato dice che il microrganismo deve poter essere prelevato da un ospite e fatto riprodurre in una coltura pura. Questo non avviene per l'HIV.

Il terzo postulato dice che delle inoculazioni di colture pure dei microrganismi in animali devono produrre in questi la medesima malattia. Questo non avviene con l'HIV.

La conseguenza è che l'HIV non è la causa della malattia. Inoculazioni di HIV in soggetti sani non possono provocare la malattia.

Robert Gallo ha risposto alle osservazioni di Duesberg nel modo più convincente. Col silenzio. Sfruttando il collegamento diretto che si era creato tra il suo staff e i media Gallo è praticamente diventato l'unica fonte primaria di informazione sulla malattia. La sua preoccupazione è stata quella di convincere l'opinione pubblica scavalcando così le obiezioni del mondo accademico. Mondo accademico che del resto non ha tardato ad allinearsi sulle posizioni di Gallo quando sono cominciate a diventare chiare le implicazioni della propulsione pubblicitaria che si era creata per la malattia. Per prima cosa i fondi venivano offerti solo per quelle ricerche che seguivano il filone dell'HIV. Le ricerche alternative, basate su altre ipotesi, non sono state confutate sul piano scientifico, è stato semplicemente impedito loro di evolversi, sono state prosciugate.

Inoltre l'esistenza di una causa alla quale attribuire la malattia ha fatto sì che William Haseltine e Max Essex, tanto fare i nomi di due dei più importanti ricercatori mondiali, potessero fare miliardi attraverso una società farmaceutica che vende i test per l'HIV.

Un tale esercito di allineati annunciò l'arrivo del farmaco.

Il farmaco si chiamava azidotimina AZT. Fu immediatamente autorizzato dalla Commissione Farmacologica Federale degli Usa. L'efficacia del farmaco viene affermata sulla base di un unico esperimento, condotto nel 1986 su 282 soggetti. Per 17 settimane a una metà dei soggetti furono somministrate dosi di AZT, mentre l'altra metà riceveva un placebo. L'ipotetica segretezza che di solito è un fondamento perché esperimenti di questo tipo siano significativi non fu mantenuta a lungo, per cui i malati appresero chi di loro stava ricevendo l'AZT e chi il placebo. A quel punto chi riceveva l'AZT cominciò a dividerlo con chi riceveva il placebo, in modo che tutti avessero una probabilità di sopravvivere. Il resoconto dell'esperimento può essere considerato il più chiaro episodio di falsificazione di dati degli ultimi cinquant'anni.

Quando scelsi la specializzazione in immunologia tutto questo doveva ancora succedere. Ero già disgustato allora dalle interferenze che i flussi di denaro provocano nelle direzioni della ricerca. L'idea di esperimenti puri, dettati solo dalla sete di sapere e di guarire si era ben presto dovuta scontrare con la realtà dei fatti. Era estremamente doloroso per me constatare quanto venisse stanziato per la cura di trascurabili malattie tipicamente occidentali e quanto per le malattie da sottonutrizione, ad esempio. Le ricerche sull'obesità. Sulle carie. Sull'alito. Sui difetti della pelle. Un esercito di medici che si occupa di eliminare nei, raddrizzare nasi, iniettare silicone. Ho sentito che ora numerosi chirurghi americani sono in grado di eseguire un'operazione al tendine inguinale che permette di allungare il pene di qualche centimetro. Per aumentare il diametro gli stessi medici iniettano del grasso sotto la pelle. Non so se capite. Contemporaneamente, in altre parti del mondo, i medici servono ad altro. A salvare vite, per quanto è possibile, ma non è questo, vedete. I flussi di denaro sono come una corrente d'aria che ti sposta la rotta, tu punti in una direzione e invece ti stai spostando di traverso. Creano una mappa che delimita i confini tra le cose che puoi fare e quelle che non puoi fare. E non te ne accorgi, ti si falsa tutto il quadro. Ad esempio è successo anche a me. Avrei potuto scegliere una specializzazione che mi avrebbe portato direttamente in Africa in mezzo ai lebbrosi. Invece no. Praticamente senza accorgermene ho scelto immunologia. E' stata una specie di compromesso, una via di mezzo. E non è finita.

Una volta conseguita la specializzazione, neanche allora sono partito per l'Africa a debellare contagi tropicali, no. Avrei potuto farlo. Sono rimasto qua. A insegnare. L'Università mi ha offerto un posto e io sono rimasto. Mi sono accorto dopo due o tre mesi di aver accettato il posto. Ma sono scattati dei meccanismi di difesa mentale interni. Il mio sistema nervoso deve aver rilasciato delle endorfine autogiustificanti. Comunque si tratta di bloccare malattie, malattie vere, o almeno di insegnare ad altri a farlo. Questo era il messaggio in codice contenuto nella chimica di quelle endorfine. Ancora non era arrivata quella malattia.

Quando la malattia arrivò ero ancora abbastanza disorientato, disorientato dal fatto che le mete che mi prefiggevo e che avrebbero dovuto dare un senso a tutto quello che vivevo mi si spostavano da davanti e venivano sostituite nottetempo con delle altre, più bieche, più materiali. Sottostanti ad un altro baricentro, diciamo. Mete più egoistiche.

La cosa che mi colpiva era che tutto questo avveniva evidentemente sotto i miei occhi, eppure io non riuscivo ad oppormi in nessun modo. Mi accorgevo solo in seguito che una certa decisione che avevo preso non poteva aver altro scopo se non un mio vantaggio personale. Eppure nel momento in cui prendevo la decisione non c'era nessuna decisione, non c'era un calcolo tra me e me, un dialogo interno, un dissidio, una scissione, tutto avveniva come se quella fosse l'unica strada. Solo dopo un po' di tempo riuscivo a vedere cos'era successo, scoprivo che c'erano altre strade che avrei potuto seguire, e che queste strade non erano strade nascoste, ma erano lì, evidenti, lì dove sempre erano state e dove sempre avevo saputo che stavano. La mia coscienza insomma era sempre in ritardo rispetto alle mie azioni. Diciamo che io inseguivo la mia vita, correvo dietro me stesso cercando di rimettermi ai comandi, e inseguendomi trovavo solo i disastri provocati, i bivi disertati, le opportunità lasciate cadere. E la distanza tra me e me era sempre la stessa.

Non so se questo succeda a tutti in un modo o nell'altro, o se solo io sia oggetto di questo fenomeno. Del resto non ha importanza.

L'arrivo della malattia cambiò molte cose. Ricordo ancora l'ultima cosa che ho pensato prima che succedesse quello che poi è successo. L'ultimo pensiero fu un commento alla notizia dell'isolamento dell'HIV da parte di Robert Gallo. Pensai: che strano. Un virus che per trasmettersi ha bisogno dello scambio di cellule umane. Mi sembra molto strano, pensai, i virus non hanno bisogno di nessuno scambio di cellule, basta anche uno starnuto, una stretta di mano, per alcuni nessun contatto, si appoggiano lì e aspettano che qualcuno li contragga. Questo fu quello che pensai. Fu l'ultimo pensiero fluttuante. Poi arrivò la corrente. Avvenne l'allineamento, vedete. Fummo come un gruppo di alghe attaccate a uno scoglio. Le nostre libere fluttuazioni ondeggianti furono sostituite da una tensione che ci rese tutte perfettamente parallele. Con i nostri corpi indicavamo tutti la stessa cosa. Eppure non riuscivamo a toccarci, non riuscivamo a parlarci, a chiederci l'un l'altro perché proprio lì, perché. Fu la corrente a farlo. I soldi.

I giorni migliori per me, professore, sono quelli in cui piove. La pioggia tiene i bambini chiusi in casa, li manda via dal cortile. E Olifea non guida mai quando piove, quindi non può venire qui. Rimane il telefono, ma spesso lo stacco.

Il problema, professore, è che gli appunti che scrivo quando sono nella stanza mentale nascosta spesso mi risultano incomprensibili una volta che li rileggo a freddo. Dovrei sforzarmi di scrivere procedure concrete, che abbiano una rilevanza pratica, che io possa verificare meccanicamente, anche se non ne capisco più il meccanismo. Ma non è così semplice. Ogni volta che riesco a entrare mi sembra tutto talmente chiaro che mi lascio sviare e nei miei appunti presuppongo lo stato. Non so come facciano gli altri.

Ricordo il giorno che ho scoperto la stanza. E' stato dopo l'incidente. Ci fu una trasfusione, ricordo, e ne ebbi delle conseguenze dopo qualche anno. Mi fu prescritta una cura. Non so, probabilmente doveva esserci qualche scompenso laterale. So che in una specie di dormiveglia ho cominciato a vedere le mie idee, le vedevo aleggiare sospese, cioè, non solo le mie, anche quelle degli altri, anche quelle di nessuno, le vedevo come una sostanza palpabile. No, non so. Non so se fossero palpabili, so solo che le vedevo, mi sembravano palpabili così, alla vista. Sembravano ologrammi. Ricordo che non so perché, ho cominciato a pensare alla fotosintesi. E ho capito. Ho capito. Non so spiegarlo molto bene, ma pensando alla formula, alla semplice successione di passaggi, ho capito cosa succede veramente, il processo ora lo vedevo non più come una successione di passaggi ma come un flusso continuo, una trasformazione continua, una rifrazione, ecco, la cosa che più si avvicina all'idea è rifrazione, i raggi piovono dall'alto, colpiscono le foglie e rimbalzano, ma quando rimbalzano non sono più neutri, ma verdi. Da quel momento, la simbologia mentale che in me viene evocata dal termine fotosintesi non è più composta da segni grafici che indicano atomi, ma da quel flusso, appunto, un flusso che non riesco bene a riportare a parole, ma che dentro di me è chiaro e completo, ecco, completo, contiene tutti i passaggi e tutte le sfumature. E' totale in sé stesso.

In seguito, nel periodo della malattia, mi è successo altre volte. Allora ho capito che l'accesso a quello stato mentale non era un fenomeno casuale e incontrollabile, ma avveniva in modo più semplice durante la stanchezza mentale provocata da molte ore di studio ininterrotto. Allora pensavo che fosse una specie di euforia, come quella che provano i maratoneti dopo diverse ore di corsa, quando la mente si stacca dal corpo e il corpo alleggerito dal peso mentale della fatica continua a correre scorrevolmente e senza sforzo.

Mi vengono da pensare cose strane, a questo proposito. Io non so precisamente da dove escano le cose che penso. Io credo che ognuno di noi si porta dentro un bagaglio di risposte, apprese in maniera indiretta attraverso l'osservazione e l'esperienza, e a seconda delle circostanze uno tira fuori la risposta più adatta. Difficilmente questo modo, che è poi il modo naturale di pensare, porta a cose nuove. Sono semplicemente ripetizioni già viste vivere in altre persone.

Ad esempio uno scrittore. Generalmente chi scrive lo fa in seguito al fatto di aver letto molti libri. Questi libri creano una specie di utensileria di frasi già pronte, situazioni già lette, un retromagazzino, insomma. Dopo aver scritto la prima frase lo scrittore pesca nel suo repertorio, nella sua memoria una seconda frase che gli sembra adatta a seguire lo spirito della prima. Poi una terza frase, e così via. Tutto viene da sé. Se quello che scrive a noi può sembrare originale è solamente perché noi non abbiamo accumulato le stesse esperienze, non abbiamo lo stesso vocabolario di situazioni, nella nostra infanzia non abbiamo letto gli stessi libri. Se avessimo letto esattamente gli stessi libri che ha letto lo scrittore, e avessimo avuto più o meno le stesse esperienze, ecco che il libro ci sembrerebbe completamente inutile, completamente non aggiuntivo di niente. La comunicazione ha senso solo se lo scambio avviene tra persone che non hanno lo stesso vocabolario. I vasi comunicanti, per comunicare, devono essere posti a livelli diversi.

Ecco, questo avviene anche nella ricerca, in un certo senso. Gli anni di scuola e di università servono più che altro a delimitare i campi nei quali cercare, a creare delle risposte automatiche che ci traggano d'impaccio. Ma nella stanza, nella stanza nascosta che ho trovato nel mio cervello, lì no. Le normali leggi che regolano l'immaginazione là dentro non regolano niente. Le leggi di gravità che determinano il modo in cui le idee vengono normalmente costruite ammassandone una su di un'altra, spingendole verso terra lì dentro non hanno nessun vigore. Extraterritorialità. Ecco.

Forse quando tutti, ogni persona al mondo potrà accedere alla sua stanza, allora quello che ho fatto sembrerà banale, sembrerà alla portata di tutti. Ma io sarò stato il primo, professore.

Una volta vidi Robert Gallo, era venuto in Italia ad un convegno sulla prevenzione. Nessuno metteva in discussione quello che diceva. I suoi soldi, moltiplicati dal nulla erano lì ad indicare quanto avesse ragione.

Non che i soldi all'inizio fossero molti, per noi. Ma erano precisamente indirizzati, ci permettevano di fare certe cose, potevano essere spesi solo in alcuni modi ben precisi e non in altri.

Non è che improvvisamente tutti abbiamo cominciato a pensare allo stesso modo, no. Ognuno aveva i suoi dubbi, manteneva le sue ipotesi mentali, era convinto che alcune cose fossero giuste ed altre sbagliate. Diciamo che tutti, insomma, sicuramente io e qualche altro, continuavamo a pensare abbastanza liberamente alle ipotesi sulla malattia. Ma nello stesso tempo le nostre azioni, le nostre azioni concrete, le provette spostate, gli esperimenti sulle colture, quelle erano perfettamente allineate. Eravamo una specie di succursale dello staff di Robert Gallo. Ad esempio durante i corsi all'università, spiegando ai miei studenti i tre requisiti minimali che un parassita deve avere per essere considerato patogeno, dev'essere biochimicamente attivo, dicevo loro, deve colpire o intossicare un maggior numero di cellule dell'ospite di quante l'ospite non sia in grado di rigenerare, l'ospite deve accettare l'agente patogeno, i ragazzi più svegli quando scrivevo alla lavagne queste cose mi chiedevano perché allora l'HIV fosse considerato il virus che provoca la malattia pur non rispondendo a uno solo di questi requisiti. Allora cominciavo a parlare di latenza, di meccanismi indiretti di uccisione delle cellule, tanto per farli stare zitti, l'avevo visto fare a Gallo con i giornalisti e io facevo lo stesso. Ma non è che dentro di me avessi smesso di avere dei dubbi. Solo che questi dubbi non scalfivano le mie azioni esterne, ecco. Poi gli esperimenti, le ricerche, le tesi di laurea assegnate. Vedete, a questo punto devo spiegare l'importanza che una cosa come la statistica descrittiva ha per noi ricercatori. Anche ammettendo che i dati di partenza siano esatti, nel momento in cui questi dati vengono riassunti in indici, ecco, vedete, esiste una tale gamma di indici che si possono usare, indici non univoci, discordanti tra loro, un po' come i sistemi elettorali, è del tutto agevole dare ai dati l'inclinazione che ci serve per dimostrare quello che ci eravamo ripromessi di dimostrare. La statistica descrittiva è il mezzo attraverso il quale fenomeni assolutamente oggettivi come liste di cifre, diciamo fenomeni che non potrebbero essere interpretati soggettivamente, vengono espressi attraverso indicatori sintetici che di oggettivo hanno solo la loro estrema manipolabilità.

Fu in questo periodo che cominciai ad avere dei dubbi sul libero arbitrio, in senso filosofico. Ho cominciato a pensare che il tempo non esistesse così come noi comunemente lo intendiamo. Decisi di considerare il tempo come una scansione laterale dell'attenzione, una costruzione sequenziale dell'attenzione, una ricostruzione a posteriori del mondo esterno, solo uno dei possibili modi nei quali la realtà più essere interpretata e letta. Letta. Ecco. La lettura. Il tempo è solo uno sguardo che scivola, un fascio di luce che illumina un punto alla volta e si sposta lentamente e continuamente a illuminare altri punti, ma i punti esistono già tutti fin dal principio. La lettura. E' come quando si legge un libro, si comincia dall'inizio, ma questo non toglie che il libro esista già tutto, non toglie che esistano già anche le ultime pagine, ogni singola riga esisteva già prima che noi prendessimo per la prima volta il libro in mano.

Il libero arbitrio, dicevo. Be', c'era anche il fatto che come dicevo prima mi accorgevo di aver preso delle decisioni solo dopo averle prese, che inseguivo me stesso. Così pensai che il libero arbitrio non esiste per nessuno, o forse no. Forse esiste un tempo zero, o un punto al di fuori del tempo all'interno del quale tutte le decisioni vengono prese, e poi queste vengono distribuite man mano nel corso della vita.

Non so. Più che altro ero stanco, molto stanco di inseguire me stesso, e cercavo teorie che giustificassero il fatto di stare rallentando.

Ci fu un periodo, però, limitato a qualche mese, non di più, durante il quale ebbi l'illusione di non essere un semplice lettore, ma uno scrittore a tutti gli affetti. Pensavo di essere riuscito a riprendere il comando. Non so se fu effettivamente così. Avvenne quando lessi in un articolo la relazione di un medico di New York, Stephen Caiazza.

Caiazza si era occupato per molto tempo di malattie veneree. Assieme a Joan McKenna era stato in Germania a trovare l'équipe di Dierig e Waldthaler. Caiazza era convinto di una cosa. La malattia non esisteva. O meglio esisteva da molto tempo. Esisteva da sempre. La malattia non era altro che sifilide terziaria.

Caiazza aveva circa un centinaio di pazienti in cura. Trattava i malati con dosi massicce di penicillina, ma non del comune tipo benzathina, dato che questa non penetra negli occhi e nel cervello e lascia che i microrganismi si riproducano continuamente.

In sostanza si poteva dire che i morti attribuiti alla malattia erano aumentati quando casi clinici che precedentemente all'isolamento dell'HIV sarebbero stati diagnosticati da qualsiasi medico come sifilide, e curati di conseguenza, hanno invece, a seguito dei test per l'HIV appunto, cominciato a essere trattati con chemioterapia e AZT. I morti sono stati provocati dalle cure per una malattia che non esisteva e dalla mancanza di cure per una malattia che invece esisteva.

C'era una cosa che la relazione non riportava, ma che io venni a sapere in seguito. Caiazza era positivo ai test dell'HIV. Si era punto accidentalmente molte volte con aghi infetti. Si ammalò, e per curarsi si autoprescrisse delle endovenose di penicillina. E guarì. E dopo di lui guarirono i suoi pazienti, uno dopo l'altro.

La ditta da cui Caiazza comprava la penicillina per il trattamento era una di quelle case farmaceutiche che producono AZT. Caiazza chiese al responsabile della ricerca di essere aiutato nei suoi esperimenti. Il responsabile della ricerca rispose no. Ma perché? chiese Caiazza, se con circa duecento dollari di penicillina posso fare quello che prima richiedeva diecimila dollari di AZT.

Appunto, rispose il responsabile della ricerca.

All'inizio pensavo che tutto questo lo avrei utilizzato per fare la tesi. Avevo scelto anche il professore, mi sembrava un tipo a posto. Gli ho spiegato cosa intendevo fare, in termini molto generici, lui ha detto si può fare, può buttare giù qualche pagina e portarla al mio assistente. E' quello che ho fatto. Dopo qualche giorno sono tornato per sentire cosa avevano deciso. L'assistente appena mi ha visto è scoppiato a ridere, ha detto, venga, venga qua, quelle pagine che ci aveva lasciato, sono assolutamente spassose, io e il professore abbiamo riso a crepapelle, le giuro, non avevamo idea che potesse esistere una comicità degli elementi chimici, capisce, veramente innovativo. Il professore la vuole conoscere, ma lei è così divertente anche quando parla?

Insomma, ci volle un po' di tempo per riuscire a convincerli che facevo sul serio. Non volevano proprio crederci. Alla fine hanno capito. Allora sono tornati seri, a malincuore, e hanno scosso tutti e due la testa, il professore ha detto no, no, guardi, sarebbe ingegnoso ma molto probabilmente non si può fare.

Ma io ho capito. Il fatto è che non se la sentiva di rischiare.

Questa faccenda mi ha molto depresso, all'inizio, poi invece ho pensato che è stato meglio così. Il continuo contatto con l'ambiente accademico forse mi avrebbe impregnato dei limiti mentali che restringono quelle aule, ecco. L'essere appoggiato da un professore, essere seguito passo per passo da un assistente mi avrebbe certamente condizionato.

Poi non so, forse la ricerca istituzionalizzata è una contraddizione in termini. Ogni volta che qualche scoperta viene effettuata in un laboratorio di una università io mi stupisco. Mi sembra sempre molto strano. Non so. Il fatto è che sono molto presuntuoso e diffidente, ecco.

Ad esempio penso che nessuno troverà mai una cura per il cancro. Con tutti quei miliardi che piovono continuamente per chi si occupa della ricerca sarebbe come darsi la zappa sui piedi. Anzi, secondo me le ricerche che vengono effettuate hanno lo scopo precisamente opposto, cioè impedire che una cura effettiva venga alla luce. Probabilmente esiste una cura già da anni. O forse no, non so. Forse è una specie di strategia della tensione, nessuno ha il coraggio di rompere l'omertà per primo.

Dopo aver letto la relazione di Caiazza, segretamente cominciai a consigliare l'uso della penicillina in soggetti che avevano contratto la malattia. Fui scoperto abbastanza presto, perché io non ho uno studio medico dove ricevo miei pazienti, quindi i medici che avevano in cura queste persone si accorsero della cosa ed ebbi dei fastidi. Allora chiesi se era possibile fare un esperimento, trattando un certo numero di pazienti con la penicillina, ma nessuno sembrava competente ad autorizzare una cosa del genere. L'unica cura accettata era quella dell'AZT. La malattia è una grande drago, mi dissero, non dobbiamo disperdere le forze in mille direzioni, dobbiamo attaccarlo tutti insieme in modo da sconfiggerlo una volta per tutte. Io so, so per certo che dentro di loro, che sotto, che dietro le loro facce, che all'interno del loro cranio, che una parziale parte di loro mi dava ragione. Ma questa parziale parte di loro non aveva nessuna capacità di controllo riguardo ai movimenti fisici. Quella parziale parte di loro era completamente impotente, non poteva controllare niente di quel corpo che la conteneva.

Così il mio esperimento si ridusse all'osservazione effettuata in segreto del campione composto da un solo paziente. Aveva contratto la malattia a seguito di una trasfusione dopo un incidente stradale. In quel caso ero riuscito a falsificare i risultati del test per l'HIV e a nasconderne la positività. Nemmeno il paziente ha mai saputo di avere la malattia. Lo curai come se fosse stato un normale malato di sifilide terziaria, con dosi molto pesanti di penicillina. Dopo qualche mese però dovetti interrompere. Diciamo che non ero più molto convinto, non degli effetti della cura, fino a quel momento erano del tutto incoraggianti, ma della possibilità di mantenere il segreto ancora a lungo, e specialmente della valenza dimostrativa praticamente nulla di quell'esperimento, le condizioni della cui esistenza erano state da me create attraverso una massiccia falsificazione di referti a priori.

Tutt'al più la cosa poteva avere un significato personale. Lasciai perdere anche per un altro motivo. Se l'esperimento avesse avuto successo sarebbe stata la dimostrazione che tutto quello che si stava facendo era sbagliato. E l'esperimento come ho detto non era in grado di dimostrare niente. Diciamo che era in grado di convincere me solo, nessun altro, cosicché sarei stato costretto a continuare a fare per anni le stesse cose, pur essendo assolutamente certo della loro inutilità. Ecco, io ebbi paura che questo succedesse. Be', c'era la vita di quel ragazzo, mi direte. Lasciai perdere anche quella.

Poi il flusso dei soldi lentamente stava aumentando, impacciando, bloccando tutti i nostri movimenti. Non facevamo in tempo a imparare ad usare un macchinario che subito ne arrivava un altro, e un accumularsi di persone, ognuno arrivava, diceva la sua, intascava assegni, le stanze erano sempre più piene, anche semplicemente fare cose in quella direzione, anche fosse stata la direzione giusta, non si sarebbe più riuscito, era come se i laboratori fossero allagati da un'ondata di piena, era come cercare cose in una stanza che si stava allagando, gli strumenti, le cose che servivano restavano sul fondo e il livello continuava a salire e più saliva più noi ci allontanavamo dagli strumenti, ecco.

Non era questione di essere avidi o no, onesti, ambizioni, queste cose non c'entravano niente, era il flusso, la corrente, il livello si alzava comunque e comunque ti spostava dagli strumenti. Era impossibile lavorare in quel modo.

Raschio il fondo delle teche di vetro. Facendo attenzione a non far scappare le mosche. Ammucchio su un vetrino da microscopio. Poi cerco elementi, faccio analisi, scaldo le mie beute, normalizzo, osservo il colore della fiamma, mescolo acidi, cerco proteine.

E' un'idea molto semplice la mia, professore. Forse troppo semplice perché possa essere accettata facilmente. Non so. Penso che ci saranno pesanti conseguenze sul sistema economico, molte cose dovranno essere riorganizzate. Non so, le industrie alimentari saranno le più interessate. Non so se l'industria alimentare sopravviverà. Non so immaginare le conseguenze sull'assetto produttivo di tutto questo. Una cosa è certa. Il giuramento di Rossella O'Hara non avrà più molto senso. Nessuno soffrirà più la fame.

I soldi. Non so. Può darsi che quelli sopravvivano. I soldi sopravvivono sempre. Sopravvivono a qualsiasi cosa.

Ad esempio io non li ho mai voluti i soldi, eppure non riuscivo lo stesso a fare quello che volevo fare. Maturare significa rinunciare, lasciare perdere un sacco di cose. Ma io non ero così. Quando ho scelto medicina, l'ho fatto in base ad alcune idee ben precise.

Mi è tornato in mente la prima volta che ho ricevuto una di queste cassette. C'è incisa la voce di un uomo, si direbbe un ragazzo. Pare che stia studiando qualcosa, nel campo della chimica. Evidentemente mi conosce, anche se la sua voce non mi fa tornare in mente niente.

Ma sono le cose che dice che mi ricordano una persona. Quella persona è me stesso, tanto tempo fa. Un me stesso che si è spento gradualmente ma inesorabilmente. O forse non si è spento, è stato immobilizzato dentro di me, è stato reso innocuo, non so come. Ma queste cassette, anche se devo dire la verità, molte volte fatico a seguire il filo del discorso, queste cassette possiedono una specie di codice di accesso verso me stessi sepolti da anni. E' un po' come ascoltare una canzone di allora, una canzone dimenticata da un sacco di tempo.

Ogni sera prima di andare a dormire, sera per modo di dire, poiché come il poeta amava dire 'Solo ho amica la notte' e la maggior parte delle volte mi corico all'alba, comunque al momento di andare a dormire spesse volte mi metto a pregare. Prego che arrivi la pioggia e mi aiuti a finire il mio lavoro. Mi è sempre più difficile entrare nella stanza, me ne sto accorgendo. E' come se lo spiraglio attraverso il quale passo si restringesse ogni giorno di più. Non so a cosa attribuire tutto questo. So solo che il tempo scarseggia e che la pioggia mi è necessaria.

La stanza nascosta mi ha rivelato comunque molte cose. Lei crede che io non sappia, professore. Invece ho sempre saputo. Nella stanza molte cose sono chiare. E la cosa più chiara di tutte che aleggia nella stanza è la cosa che lei ha fatto per me. A volte penso che la stanza sia un effetto collaterale della penicillina.

C'è solo questo. Cancellare. Strappare via pagine e ricominciare. Dimostrare che la mia vita non è una continua lettura di cose già scritte. E' questo quello che avevo rinunciato a fare. Maturare significa smettere di scrivere e limitarsi a leggere. E' questo che i soldi provocano, provocano una sovrabbondanza di scritti già pronti, utilizzabili, i soldi scavano la via, scavano il solco nel fondo del quale siamo costretti a vivere. Ma io non voglio più farlo. Voglio riprendere in mano la penna che sta scrivendo la mia vita, voglio essere io, io di nuovo.

Vieni dolce pioggia ad attutire tutti i rumori. Venite nuvole nere. Scioglietevi in lacrime, piangete, e che il vostro pianto tenga in casa i bambini, li rinchiuda dietro la finestra a guardare il cortile bagnato. Tenete Olifea lontana. E avvicinatemi alla mia idea.

Un'idea così semplice, vede, professore. Tutto parte dalla fotosintesi, tutto è cominciato la prima volta che ho messo piede nella stanza. Noi respiriamo. Ci prendiamo l'ossigeno dall'aria, ed emettiamo anidride. Le piante si prendono l'anidride ed emettono ossigeno. La materia si muove in circolo, capisce? Tutta la materia, tutte le molecole, gli atomi.

Noi ci prendiamo il cibo. Ed emettiamo sterco.

Le mosche si prendono lo sterco. Ed emettono?

Affronterò il drago grande. Saremo lui e io, e sarà un corpo a corpo. Il drago che uccide persone, ma non persone qualsiasi, no, un drago che sceglie le sue vittime tra omosessuali e drogati, un drago fascista che si mangia le puttane e i loro clienti. Persone che danno fastidio a chiunque. Io sconfiggerò il drago. Io salverò queste persone. Questa gente è mia. Questa gente è la mia gente. Voi tornate pure alle vostre liposuzioni, a raddrizzare nasi, tornate a fare lifting, ad allungare uccelli e lasciatemi solo con lui.

Ci sono avvertimenti sopra le provette. Provette nel frigo. Ci sono avvertimenti, avvertimenti, avvertimenti. Ci sono corridoi, porte, luci al neon. C'è un carrello spinto via. C'è un infermiere. Ci sono siringhe. C'è una siringa. Siringa. Ci sono sacchetti di sangue dentro al frigo, sono come confezioni di termoisolante. Sono freddi. Sono rossi. Aspiro. Espiro.

E ricomincio a scrivere. E' la mia vita. La penna è questa. Una siringa. L'inchiostro è questo. Sangue infetto.

Matteo Galiazzo

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Le avventure di Al Cultman: Winona Ryder

Oggetti di culto degli adolescenti d'oggi: libri, film, fumetti...

di Alberto Fassina

Perché Winona la prima volta che Al l'ha vista è stato in "Edward..." ma li non valeva, cioè era bionda

e ad Al, Al Cultman la Winona piace castana.

Però per la cronaca la prima volta che l'ha incontrata era su quel lenzuolo bianco del vecchio cinema Esperia.

E lì sul lenzuolo bianco tra le braccia del povero Edward Al la guardava.

E poi l'ha rincontrata anche su una foto in bianco e nero su un CIAK di settembre.

E da lì non l'ha più dimenticata, che lei era vestita da ballerina col tutù e la foto spettacolare era in bianco e nero.

E Al non scorda.

E poi le ha rapito il cuore in "Schegge di follia", perché lì era perfetta, e stava bene anche con le calze azzurre.

E per star bene con le calze azzurre bisogna proprio essere speciali.

e lei lo è.

Perché è si una stella dello spettacolo, cioè è una di quelle ragazze che esistono per quella frazione di fotogramma, per la bellezza impressa nei misteri della sensibile celluloide.

E' si una di quelle, ma nei suoi film, nelle sue parti ha delimitato un personaggio coerente,

che ad ogni pellicola aggiunge e precisa qualcosa di se stessa.

Perché Al, poi per la Winona proprio ha una fissa, perché lei ha i capelli castani.

perché lei ha i capelli sia lunghi che corti

che basta mettere nel video "Reality bites" che ce li ha corti

oppure "Schegge di follia" che le tornano di nuovo i capelli lunghi.

Che Al desidera di annusare dopo la doccia.

Che Winona è quella bellezza che Al cerca quando è in autobus.

Che Winona è quegli occhi che cerca di incrociare in quelle ragazze che camminano un po' con la testa china e pensano a

Che Winona ha l'altezza giusta che Al desidera perché è così fatta da stringere

è così fatta da baciarle il collo

con la sua pelle chiara, senza abbronzatura.

E Al non sa cosa darebbe per aspirare un po' di odore di pelle di Winona, l'odore del rosa chiaro della sua schiena,

Al sa che la Winona forse ha particolare importanza per lui perché quel giorno che ha deciso di cominciare la sua storiasenzaagettiviperchénonservono, quando Al ha deciso, per calmare l'attesa della risposta si è rinchiuso nella sala del cinematografo con la Winona in cerca di lavoro da ammirare.

E al suo fianco aveva il Beo che anche a lui piace la Winona, è che lui ha dice che per le attrici superato un certo livello non gli fa differenza, invece ad Al fa la differenza perché Winona è la migliore

Che che ne dica il Beo che per lui tra Demi Moore, la Nicole Kidman, e la Winona fa lo stesso e fa decidere ad Al.

Lo stesso un bel niente, per Al c'è la Winona e basta.

Si e quindi trascinato in una sala buia per trovare qualcos'altro a cui pensare, il Cultman aveva deciso di affidare i suoi pensieri alla Winona.

Che le parole, e gli sguardi della Winona quella sera avrebbero avuto la meglio sulla paura che quell'altra ragazza vera dicesse che forse non era il caso.

Al si affidava alla compagnia del Beo, e all'immagine della Winona per passare una sera tranquilla di cinema e pizza margherita consumata fuori dalla pizzeria al taglio seduto sulla vespa del Beo.

E la pizza quella sera scottava, e quando Al si è messo sotto al lenzuolo di metà giugno la Winona ha avuto la meglio.

e il sonno si è agganciato a quella foto di Winona ballerina.

Ma la pizza la notte fa venire sete

e Al bevendo l'acqua fresca del frigo che illuminava la cucina

Al capiva, che quella sera Winona aveva per la prima volta fallito

perché Al con l'attesa che seccava la gola

non ha più ripreso il sonno

Alberto Fassina

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Dal nostro inviato in libreria

MENTRE LOU REED SI APPISOLA

di Simone Battig

Treviso, libreria Canova, 22 novembre 1996. Guardo Jay McInerney mentre legge, rigorosamente in inglese, un brano inedito dal libro che ha in preparazione. Dal vivo Jay McInerney sembra di gomma. Guardo la foto della quarta di copertina del suo libro, appena uscito in Italia, L'ultimo dei Savage. Nella foto McInerney sembra più giovane.

Comunque legge bene. Tutti noi che lo stiamo ad ascoltare capiamo sì o no una frase ogni cinque, ma lo ascoltiamo e godiamo della sua lettura espressiva, quasi teatrale. Prima di tutto ciò Fernanda Pivano ha letto una scheda di presentazione su Jay McInerney, ha elogiato per diversi minuti lo stile perfetto, la prosa elegante... Non è stato molto interessante.

McInerney continua a leggere. Alla sua sinistra, due sedie più in là, Lou Reed si è appisolato. Sarà il fuso orario, sarà che è Lou Reed, sarà il vino italiano traditore, saranno le droghe, ma si è proprio appisolato. Lou Reed non doveva partecipare a questa serata in libreria, ma si è aggregato al gruppo essendo appena arrivato dall'America. Lou Reed. A non più di due metri. Fantastico.

McInerney finisce la sua lettura, tutti applaudono, lui sorride (in fondo è simpatico, anche se è di gomma), Lou Reed si desta di colpo e applaude, Fernanda Pivano si sistema sulla seggiola. Io ho caldo.

Fernanda Pivano legge ora la scheda di un altro autore presente questa sera: Mark Leyner. Dice che è stato scoperto da McInerney, che ha un linguaggio rutilante e futuristico, che è già autore di culto in America e profeta degli anni Novanta. Lou Reed si appisola.

Quando Mark Leyner prende la parola, con l'aiuto di una traduttrice, confessa di aver cercato di comportarsi con contegno a tavola con Lou Reed. Ma quando sarà a casa impazzirà e racconterà a tutti di aver conosciuto Lou Reed. Dice che leggerà dei brani dal suo libro Mio cugino, il mio gastroenterologo e che, successivamente, la traduttrice leggerà i brani dall'edizione italiana del libro.

Leyner legge. Legge con il ritmo frenetico che richiede la sua scrittura, si capisce una frase ogni dieci, ma già così mi sembra bello quello che legge, mi sembra coinvolgente.

Nel silenzio della sala, ad una frase di Leyner che nessuno ha colto, Lou Reed scoppia in una risata isterica piegandosi in avanti. Tutti noi sogghigniamo nel vederlo sbottare così. Lou Reed ci guarda, nota la nostra espressione catatonica e si ricompone.

Leyner legge stupendamente un brano che parla di supposte anfetaminiche. Ogni tanto Lou Reed ride sguaiatamente nel silenzio assoluto, si asciuga le lacrime, si contorce, si ricompone guardandoci e fissandoci improvvisamente serio. Al sesto passaggio finalmente anche noi capiamo una battuta e ridiamo insieme a Lou Reed.

Scrosciano applausi alla fine del brano, per Mark Leyner ma anche per Lou Reed. La traduttrice comincia subito a leggere in italiano. L'impressione che avevo avuta sulla qualità della carica innovativa di Leyner è confermata da quello che sento.

"Sto mettendomi in contatto con il Galles, Colorado, Vladivostok, Altamont, Barnes & Noble, Norimberga, Biafra. Rimescolo un boccale di Martini Tanqueray con una mano e col piede faccio scivolare nel forno un vassoio di vongole all'origano surgelate. Ho una dozzina di sigarette che vanno simultaneamente in cenere in tutto l'appartamento. Dio, queste supposte anfetaminiche che mi ha dato Yogi Vilthaldas sono buone! Mentre stiro un paio di pantaloncini da tennis detto al registratore un haiku e sturo il lavello del bagno e mi sparo tre minuti di cyclette prima di fare un origami di una mantide religiosa e leggere un articolo della rivista High Fidelity mentre rigiro il coq au vin. Queste supposte anfetaminiche che mi ha dato Yogi Vilthaldas sono fantastiche!"

Forse Leyner non sarà mai un autore straordinario per ciò che racconta. Ma il suo linguaggio, il suo stile, la sua tenuta vanno a comporre un modo di scrivere originalissimo, forse unico.

Ci si avvicina al termine dell'incontro. Qualcuno chiede quali siano le caratteristiche della generazione di scrittori come McInerney. Lou Reed si riappisola.

McInerney e Leyner rispondono esponendo le loro teorie. Io sto pensando che avrei dovuto studiare più inglese a scuola. E ascolto attentamente la traduttrice. Ho caldo. McInerney, Leyner e Lou Reed, che si ridesta per l'occasione, si accendono una sigaretta. Ora ho caldo e ho voglia di fumare.

Un giornalista chiede insistentemente a Lou Reed come sia possibile che lui abbia dichiarato di apprezzare molto James Ellroy e invece Ellroy abbia detto di odiare il rock e in particolare Lou Reed e i Velvet Underground.

Lou Reed lo guarda con i suoi occhi a fessura e gli dice, giustamente, che non capisce quale sia la domanda. Il giornalista ripete lo stesso discorso per due o tre volte, fino a che Lou Reed lo fissa e, in un inglese che capisco perfino io, gli dice: "Non me ne frega niente. Ho detto che mi piace leggere James Ellroy e non che voglio andarci a letto."

Tutti ridono. McInerney ride, ma sono sempre più convinto che sia un androide di gomma costruito da Mark Leyner per farsi scoprire.

Simone Battig


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DA TRADURRE: Ecstasy, di Irvine Welsh

di Monica Benucci

          

[Irvine Welsh è diventato famoso di colpo dopo la pubblicazione del romanzo Trainspotting (in italiano da Guanda, pp. 361, L.26.000, trad. Giuliana Zeuli). Nella primavera 1997 sarà tradotto in Italia, e sempre pubblicato da Guanda, il successivo Ecstasy: Three Tales of Chemical Romance. Lo presentiamo in anteprima. L'edizione inglese è distribuita in Italia da Messaggerie Internazionali.]

Se non avessi avuto l'incarico di terminare Ecstasy, dopo il primo quarto d'ora avrei abbandonato l'opera alla sua sorte. Non è il mio genere. Magari l'anno prossimo, per pura curiosità, avrei dato un'occhiata in libreria alla traduzione italiana, come ho fatto con il primo libro di Irvine Welsh, Trainspotting, finalista al Booker Prize.

Dunque, dopo le prime pagine di Ecstasy mi sono detta che probabilmente si trattava dell'ennesimo Ecclesiaste niente-di-nuovo-sotto-il-sole, camuffato da novità delle novità. Con questo non intendo dire che Welsh sia un narratore mediocre, tutt'altro. Quest'ultimo libro mi pare ben scritto e ben confezionato. Però, fin dall'inizio, c'era qualcosa che proprio non mi tornava.

Come recita il sottotitolo, Ecstasy è composto di tre storie d'amore "chimiche" (Three Tales of Chemical Romance), nel senso che l'omonima droga, E-4-ecstasy appunto, è in qualche modo il filo conduttore. Ma il termine estasi sta anche per l'estasi d'amore, nonostante tutto questo sembri un'interpretazione forzata finché non si arriva all'ultimo racconto.

In "Lorraine goes to Livingston", la prima storia, c'è ben poca estasi, in entrambi i sensi. Si racconta di una scrittrice bulimica di romanzi rosa, Rebecca Navarro, che scopre di aver sposato un uomo dalla sessualità perversa, che non la ama affatto e la sfrutta per il suo denaro. Già in questa prima parte veniamo aggrediti da una materia di sicuro impatto. Tanto per fare un esempio, c'è un presentatore televisivo, dal forte accento scozzese, appassionato di necrofilia: il suo passatempo preferito, tra una ripresa e l'altra, consiste nel recarsi in un ospedale di fiducia per farsi qualche morto.

Mi dico che forse il racconto successivo mi chiarirà il significato di quello precedente, che per il momento mi sfugge, e quindi procedo risoluta verso "Fortune's Always Hiding" (la fortuna si nasconde sempre). Scopro subito che questa storia è davvero tuta un'altra storia, ma solo nel senso che non c'entra nulla con la prima dal punto di vista della trama. Cambiano i personaggi e le vicende, eppure il tono è sempre lo stesso. Si parla in abbondanza di sesso, violenza, perversioni e simili, senza indulgere ad alcun eufemismo. Altre somiglianze tra i primi due racconti sono la suddivisione in brevi capitoletti, da prendersi tipo pastiglie, e il metodo narrativo dell'accostare all'inizio personaggi apparentemente irrelati, per poi ricostruire gradualmente le connessioni.

Noto una novità: la prima persona. Dopo il prologo che introduce "Fortune's Always Hiding", il primo capitolo è narrato dalla viva voce gergale di Dave, in puro slang. Questo tipo ne fa di tutti i colori, finché s'innamora di una ragazza che ha perso le braccia a causa di un farmaco, e grazie a lei trova la sua vera vocazione: da semplice teppista passa all'omicidio premeditato.

In realtà qualcosa di simile al racconto in prima persona c'era già in "Lorraine goes to Livingston", dove vengono riportati brani dai romanzi rosa scritti da Rebecca, seguendo i mutamenti improvvisi del suo estro creativo man mano che lei scopre la doppia vita del marito. Questo espediente del racconto nel racconto ha una precisa funzione narrativa, ma in ogni caso è una prima persona "scritta", mentre la voce di Dave Thornton è quanto di più vicino al parlato si possa immaginare. Accanto a questi monologhi, sopravvive comunque la terza persona del narratore, che domina interi capitoli.

Giunta al termine della seconda storia, la mia prima impressione resta inalterata: non è il mio genere e non capisco dove si voglia andare a parare. Leggo l'ultima frase, che riporta le parole di una canzone degli ABC intitolata "Poison Arrow" (freccia avvelenata), dall'album preferito di Dave, Lexicon of Love (il lessico dell'amore):

"I'm forever blowing bubbles...

pretty

bubbles

in

the..."

(faccio sempre bolle di sapone... belle bolle nell'...).

Da brava lettrice, concludo io stessa il discorso, decidendo di andare a prendermi un po' d'aria nella speranza che quella parola mancante, "air", sia una promessa per l'ultimo racconto.

Quando riprendo in mano il libro, mi auguro che con "The Undefeated" (che significa letteralmente "gli imbattuti"), riuscirò a tirare il fiato e a capirci qualcosa, ma in realtà ci spero poco. Il sottotitolo recita: "An Acid House Romance", traducibile più o meno come "Un romanzo da discoteca". Di droga se n'è vista ancora poca, quindi suppongo che a questo punto irromperanno dosi massicce di ecstasy.

Effettivamente, non solo la famigerata E diventa protagonista, ma l'orizzonte si rischiara, non tanto perché si raccontino storielle meno mozzafiato, quanto piuttosto perché comincio a scorgere il senso dell'intera operazione. Il metodo seguito nel montaggio delle tre storie sembra essere, ancora una volta, quello del graduale svelamento delle connessioni.

In "The Undefeated" compare solo la prima persona, il narratore in terza persona è scomparso, si limita a giustapporre i discorsi dei due protagonisti, Heather, un'impiegata di 26 anni sposata con un uomo che non ama più, e Lloyd, 31 anni, spacciatore e consumatore di droghe varie. E' chiaro che i due, nonostante conducano esistenze molto diverse, prima o poi s'incontreranno. Difatti, dopo un certo quantitativo di capitoli-pillole ecco comparire l'estasi d'amore con la E maiuscola: Heater e Lloyd si conoscono in un club e s'innamorano. L'amore diventa per entrambi un'energia rigenerante, una forza creativa che permette di trasformare in positivo le loro esistenze. Anche il sesso, che per Lloyd consisteva nell'avere a disposizione un "buco" tutte le notti, meglio se appartenente a donne diverse, si trasfigura in un'esperienza quasi-mistica.

Leggendo le pagine finali mi viene in mente lo stato nascente descritto da Alberoni (!). Questa è l'ultima frase: "We turned our backs on the chaos and headed downstairs" (Volgendo le spalle al caos, ci dirigemmo giù per le scale). Prima persona plurale: non più io, ma noi. Adesso mi sembra chiaro che le prime due storie narravano incontri imperfetti, mentre questa descrive l'incontro perfetto, l'estasi appunto.

Quest'ultimo racconto io lo trovo più divertente degli altri due, più piacevole a leggersi, e anche ben costruito per quanto riguarda la verosimiglianza psicologica delle trasformazioni che coinvolgono Heater e Lloyd. L'innamoramento finale, l'incontro perfetto, viene preparato gradualmente seguendo la ricerca di "significato" e di esperienze autentiche dei protagonisti.

D'accordo, penso a questo punto, qualche significato l'ho trovato anch'io, alla fine il quadro è ricomposto e Welsh mi sembra un tenace assertore dei valori umani universali, a dispetto di tutte le mostruosità che ci sono nel mondo. Il racconto ben orchestrato e senza mezze misure del caos contemporaneo sembra giustificarsi per il fatto che il narratore, andando a pescare nel più torbido, scopre in fine un diamante, proprio là dove mai ci saremmo aspettati di trovarlo.

Leggo la seconda di copertina. Si promettono emozioni senza pari, accelerazioni cardiache e cose del genere. Sarà... A me, più che stimolare l'adrenalina, questa lettura ha prodotto spesso un senso di nausea, ma forse è perché la settimana scorsa non stavo bene, e difatti oggi ho l'influenza. Che sia l'effetto hangover, il malessere del dopo-ecstasy?

Ci penso un po' sopra e respingo decisamente l'idea: è inutile che me la racconti, l'intera operazione non mi torna e non mi convince perché pare una furbata escogitata da Welsh per fare soldi, con la carta stampata prima e la celluloide poi. Già m'immagino il film, anche perché il libro è di per sé una mezza sceneggiatura. Quanto alla sua qualità come romanzo, ho l'impressione che sia un prodotto tradizionale e convenzionale, nonostante il contenuto: una novel in piena regola, con tante storie legate alla vita contemporanea, che fanno presa facilmente sul lettore in cerca di novità piccanti.

Adesso vi racconto cosa c'è in giro per il mondo di questi tempi, sembra dire Welsh, roba da non credere. Però io, ragazzi, aggiunge alla fine, credo come voi nell'amore e nei buoni sentimenti. Allora siamo intesi, ci si rivede alla prossima estasi! E qui l'autore fa l'occhiolino, anzi no, una linguaccia, e compare la scritta: THE END.

Monica Benucci


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