[ATTUALITA']


Dimenticare Little Italy


In un convegno a Milano con il ministro degli Esteri Dini e i direttori dei maggiori giornali italiani si è parlato dell'informazione italiana per gli emigrati. Tra i relatori anche lo storico Emilio Franzina, che ha spiegato perché è finita l'ora di pensare ai nostri connazionali che vivono in un altro Paese come a dei "residui" del passato.


Un mondo variegato e del tutto sconosciuto è quello dei media e dei giornali in lingua italiana all'estero. Si tratta di una realtà cresciuta nel corso del tempo e cioè nell'arco di circa un secolo e mezzo a ridosso delle emigrazioni di massa in varie parti del mondo. C'è tutta una storia ricca di episodi e di importanti vicende a ricordare le fasi iniziali e centrali di una parabola che è giunta sino ai giorni nostri aggregando via via al mezzo tradizionale della carta stampata prima le radio e poi, più recentemente, le televisioni.

Le testate giornalistiche talora oramai bilingui che via etere o su carta provvedono ad aggiornare e ad approfondire l'informazione (non solo sull'Italia) fra le popolazioni di origine italiana all'estero sono molte centinaia e configurano una galassia senz'altro poco nota da noi. Sulla loro attività e sui collegamenti che essa potrebbe avere oppure già possiede con i sistemi di rete e con i servizi radiotelevisivi nazionali della madrepatria si sono interrogati, negli ultimi tre anni, gli operatori del settore e gli utenti "interessati". Chiamati a raccolta nelle diverse aree del pianeta dalle autorità del Ministero degli Esteri e del Consiglio Generale degli italiani all'estero essi si sono incontrati a più riprese (a New York nel maggio del 1994, a San Paolo nel dicembre dello stesso anno e a Berlino nel luglio del 1995) per discutere i problemi a volte simili, ma a volte anche divergenti delle zone anglofone, ispano-portoghesi e di varie lingue e culture europee.

Stimolati dalle iniziative dell'Unioncamere estero l'organismo che congrega e collega l'insieme delle Camere di Commercio italiane nel mondo - una realtà che coincide tendenzialmente con le comunità d'affari o business community di cui Piero Bassetti predica da tempo il coordinamento anche informatico - esperti e operatori, ma anche lettori ed utenti hanno elaborato un dossier di suggerimenti (e a tratti di rivendicazioni) che hanno formato la base di un'ulteriore tappa nel processo di modernizzazione del sistema informativo fra l'Italia e le molte Italie che in certo modo tuttora sussistono fuori dai suoi confini.

Questa tappa, dopo la peregrinatio degli anni scorsi, si è materializzata nei giorni scorsi, 11 e 12 dicembre, a Milano dove si è tentato di tracciare un bilancio e di realizzare una sintesi di molti discorsi, non solo teorici, sui problemi della comunicazione all'estero e per l'estero specie dopo l'ingresso in scena di soggetti nuovi o rinnovati come la Rai International affidata alle cure di Roberto Morrione e alla supervisione artistica di Renzo Arbore.

Tutti si sono dati appuntamento dunque nel capoluogo lombardo a quella ch'è stata chiamata un po' enfaticamente, ma non illegittimamente la prima "Conferenza mondiale per una politica dell'informazione italiana all'estero".

Il convegno ha segnato un momento importante nella storia tormentata dei rapporti fra l'Italia e le discendenze italiane nel mondo tant'è vero che paradossalmente la notizia dell'evento, eccetto un articolo del "Corsera", non ha poi fatto registrare nessun particolare servizio "personalizzato" sulla stampa quotidiana della penisola. Eppure all'incontro han preso parte non solo fior di politici e di ministri, a cominciare da quello degli Esteri Lamberto Dini, bensì pure i direttori dei maggiori giornali italiani. Una contraddizione che penso di poter spiegare.

La cifra distintiva del rapporto fra l'Italia e gli emigranti prima, ma anche fra l'Italia e le popolazioni di origine italiana nel mondo poi è stata il silenzio quand'anche non il silenzio infastidito e un poco strumentalizzatore.

L'esatto contrario quindi della comunicazione e dei suoi principi ispiratori.

L'alta cultura e il mondo parlamentare e politico, con poche eccezioni, hanno incoraggiato invece sino alla timida svolta culminata alcuni anni fa nella formazione del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all'Estero) e di una ancora incompleta anagrafe degli italiani all'estero, la cristallizzazione di abitudini e di pratiche concrete e di governo che di tutto evocano fuorchè una seria volontà di mantenere contatti e relazioni. L'emigrazione prima, mentre si venne svolgendo, e la nascita quindi ci comunità italiane e infine di discendenze italiane di vastissime proporzioni non sembra che siano mai riuscite a interessare più di tanto la opinione pubblica ufficiale del paese di partenza, contribuendo anzi a rendere più problematici i già non agevoli tramiti del collegamento e di una ipotetica o auspicata interazione fra cittadinanze di dentro e di fuori, fra la cosiddetta madrepatria e le popolazioni di origine italiana sparse per il pianeta. Per questo a volte appare improprio parlare di una nostra diaspora e infatti se dovessi affidarmi soltanto alla mia esperienza di studioso dovrei chiudere in fretta il discorso argomentando l'impossibilità di addivenire in breve alla soluzione di un problema ingigantito dgli anni e dal malvolere degli uomini.

La nostra letteratura e i nostri scrittori, in sostanza, hanno taciuto, i nostri politici e le macrostrutture governative come poi, sino a pochissimo tempo addietro, gli apparati informativi pubblici si sono limitati a parlare il minimo indispensabile e la nostra politica estera, infine, non sempre è riuscita a svolgere un compito elementare ancorchè, bisogna ammetterlo, difficilissimo e dispendioso, di raccordo.

Oggi siamo arrivati a un punto cruciale e, io credo, di non ritorno.

Pur avendo ben presenti la varietà delle situazioni e le diversità esistenti tra i paesi anglofoni e latini, fra le due Americhe e l'Europa, fra contesti generali e rigenerati da successive ondate d'emigrazione e contesti in cui, per motivi di periodizzazione emigratoria, la presenza italiana legata all'andamento ei flussi postbellici tuttora resiste con l'apporto di italiani nati in Italia oppure già comincia a perdere essa stessa alcuni dei suoi connotati essenziali pur senza abbandonare del tutto identità e radici italiane, un dato comune e di fatto s'impone e deve essere posto in relazione con i problemi dll'informazione e con la domanda rinnovata e crescente di avere sull'Italia (e di far pervenire, di sè, in Italia) notizie attendibili e in grado di riattivare un circuito di relazioni, culturali e linguistiche, economiche e commerciali sin qui trascurato nelle sue immense potenzialità.

Tale dato comune e di fatto è la nascita e l'esistenza all'estero di complesse realtà non più paragonabili, io credo, a quelle che furono maggioritarie in passato. In altri termini non è tramontata solo la stagione delle grandi comunità dotate di organi d'informazione propri e tuttavia costantemente rivolti con lo sguardo all'Italia come il "Progresso Italo-Americano", il " Fanfulla ", la "Patria degli Italiani" ecc., ma anche ormai la stagione della miriade d'iniziative autogestite dei micromedia che certo continuano e continueranno ad avere un loro ruolo e che tuttavia si dovranno misurare con progetti globali d'informazione bidirezionale.

E' evidente che le strategie di intervento della Rai e della Rai International per fare un solo esempio oppure, per altri versi, le politiche volte a favorire la diffusione di un immagine non stereotipata dell'Italia su impulso del MAE o della Presidenza del Consiglio dei Ministri dovranno fare i conti esse stesse, non meno che le molte altre iniziative prese da soggetti non istituzionali come le agenzie di stampa, i grandi giornali e le emittente private, con la metamorfosi in atto in seno alle più o meno antiche comunità.

Esse, quantunque io sappia che sentirlo non farà piacere a chi crede all'Italia e agli italiani nel mondo come a una specie di corpo mistico lacerato solo a causa d'interessi di parte e fazioni, ma in definitiva ricomponibile sempre, si sono trasformate e sopravvivono, come tali, solo in una fattispecie associativa a forte sfondo simbolico mentre gli italiani e i loro figli e nipoti si sono disseminati ovunque, in varie situazioni geografiche e sociali, e costituiscono ormai la vera massa critica dei circa 60 milioni di americani o di europei di origine italiana.

La fraseologia cara ai ricercatori della Fondazione G. Agnelli non cela fini politici discriminatori che peraltro, come sappiamo, sussistono in rapporto alla questione irrisolta del voto agli italiani che nel mondo ne abbiano, teoricamente sin qui, diritto.

Non entro nel merito di una polemica antica e dolorosa quanto spesso male impostata da molte parti ma non si possono trascurare le conseguenze derivanti dall'incertezza che regna tuttora in tale materia.

Non mi intratterrò neanche sui temi della business community e degli intrecci camerali bene illustrati a New York da Piero Bassetti e rinvigoriti nella pratica da una prima rete Internet fra produttori coordinata da Emilio Fontana da Los Angeles. Essa comunque dà un'idea di quale tipo di domanda prevalga oggi tra gli operatori d'origine italiana (dove semmai ci sarebbe da chiedersi se e come simili iniziative possano armonizzarsi e integrarsi con le preesistenti competenze dell'ICE e degli uffici commerciali delle ambasciate): pare sintomatico, però, che Sabato 7 dicembre ossia appena qualche giorno fa, i festeggiamenti per il nuovo debutto di Rai International negli USA con Renzo Arbore e Roberto Morrione si siano svolti a una cena di gala al Marriot Marquis di New York su invito della locale Camera di Commercio Italo-Americana!

E d'altro canto, sempre per segnalare eventi quasi freschi di giornata, sembra proprio che Internet e Rai International si accingano a collaudare la proverbiale sinergia e flessibilità del mezzo attraverso progetti di alta divulgazione come quello presentato alcuni giorni fa a Roma sotto il nome di Italica, l'Università virtuale dotata di corsi di Lingua, di Storia dell'Arte Italiana, di Archeologia, di Storia della Filosofia, del Design, del Restauro, del Cinema e del Teatro, ma, piuttosto stranamente, non di Storia Contemporanea o di Storia dell'emigrazione o di Storia delle comunità italiane all'estero.

A parte questa lacuna Italica vorrebbe essere un servizio reso non solo agli italiani che vivono il mondo e ai loro discendenti, ma anche ad organismi strutturati e non sempre e non dovunque efficienti come i nostri Istituti di Cultura.

Opportunamente, a mio avviso, una tale servizio che se riuscirà a sopravvivere e a sostenersi viene già incontro ad alcune richieste formulate a New York, San Paolo e Berlino, si avvarrà del bilinguismo italo-inglese e potrà incidere, da questo punto di vista, anche nel campo più vasto delle relazioni culturali internazionali e della circolazione di notizie tra i più ampi pubblici dei paesi ospiti.

Si tratta di una scelta matura e ineludibile che andava fatta e che dovrebbe alla lunga riguardare anche potenziali bacini di utenza dell'America Latina con l'abbinamento dell'italiano allo spagnolo e al portoghese come esplicitamente era stato indicato da più parti a San Paolo.

Certo si apre a questo punto un'altra questione piuttosto intrigante com'è quella del nesso fra lingua e cultura del ruolo promozionale che nei confronti della prima i sistemi di informazione dovrebbero essere in grado di svolgere a sostegno di una tradizione italiana tante altre volte trascurata o non più sufficientemente difesa dalla rete oggi qua e là anche in disarmo degli istituti italiani di cultura, delle sezioni della "Dante" e così via.

Intervengo su tale aspetto per richiamare l'attenzione sulla promozione dell'italianità e sulla tutela dei patrimoni linguistici regionali (esempio il veneto del Rio Grande do Sul) e sia per sottolineare quanto complessa appaia una simile operazione all'atto di affidarsi agli strumenti informatici e telematici nei quali e per i quali l'interazione finisce di essere una chimera per diventare infine una possibilità ed anzi una opzione concreta.

E' chiaro infatti che lo spostamento dell'angolo di visuale e l'adozione di un punto di vista non più imperniato solo su il nesso centro-periferia, ma tutt'al contrario, come vengono ormai chiedendo molti italiani e discendenti di italiani nel mondo, anche su un nesso paritetico e bidirezionale, segnalano entrambi una inversione di marcia.

Tanto nel rapporto con gli interlocutori istituzionali quanto in quello con gli operatori privati emerge chiaramente la consapevolezza e direi quasi l'orgoglio dei discendenti degli italiani all'estero di essere portatori di una nuova e specifica identità legata certo alla tradizione e alla storia italiana, ma frutto altresì di una chiara autonomia e più che in grado di garantire, con l'antica madrepatria, quel dialogo a distanza da cui tanti benefici per tutti potrebbero scaturire.

La presa di coscienza di questo stato di cose costituisce il tratto caratterizzante della fase che, nell'informazione, stiamo attraversando.

Gli italiani e i discendenti degli italiani nel mondo ci chiamano e non esprimono più soltanto nostalgia o dispetto per il conto modesto in cui sono stati troppo a lungo tenuti.

E quantunque la citazione rammenti un poco anche le vicissitudini passate oltreoceano qualche anno addietro da moltissimi acquirenti di antenne o di parabole rivelatesi poi inutilizzabili, non sono più come "gli Italiani d'Argentina" di cui ci parlavano le canzoni di Ivano Fossati o di Francesco Guccini.

"Ci sentite voi di là" oggi vuol dire domandare attenzione e rispetto per quello che gli eredi degli emigranti son diventati, vuol dire domandare chiarezza sui modi in cui sarà gestito il business dell'informazione attraverso il quale sarà possibile d'ora in avanti dialogare e interagire con l'Italia da parte di quell'altra Italia che, all'estero, non sempre si recò controvoglia e che lì ha finito per moltiplicarsi e fissare nuove radici.

Quelle vecchie e comuni vanno tutelate nel convincimento che in futuro esse potranno ancora garantire alla cultura italiana, al made in Italy e, in genere, all'immagine del nostro paese nel mondo, un vantaggio che in reciprocità d'intenti bisognerà riconoscere, in tutte le sedi e forme possibili, anche alle popolazioni di origine italiana.

A patto, naturalmente, che non si pretenda di individuare in esse un qualcosa di estraneo o immaturo, un interlocutore minore insomma, da trattare con la condiscendenza pelosa che spesso in passato fu usata nei confronti degli emigranti scambiati, per così dire, per dei "bambini" quando in verità erano, già loro, le avanguardie intraprendenti e coraggiose della modernità in cammino e non solo i reietti cacciati dalla fame e dal bisogno.

Il mondo che essi forse non più, ma i loro eredi certo vivono e che hanno contribuito tutti a costruire è infinitamente più ricco e complesso.

Sarebbe dannoso, oltre che sbagliato e immorale, continuare a spacciare per tradizione italiana comune, ad esempio, cose o paccottiglie (musiche, spettacoli, servizi e così via) che non hanno più corso in Italia da almeno 50 anni. Sarebbe come proporre ad altri solo perchè sono lontani e non li conosciamo granchè bene, magari spacciandoli per abiti italian-style certi vestiti vecchi che abbiamo smesso da una vita e che nessuno di noi si sognerebbe più di indossare in Italia.

Se questo è quello che è successo e che ancora qua e là succede, si pensi solo al mercato canzonettistico della nostalgia che ha un senso se rivolto agli ultrasessantenni, ma anche lì, ormai, con più di una riserva, bisognerà sbarazzarsi in fretta dei nostri pregiudizi e prendere atto che gli italiani e i loro discendenti, sul piano dell'informazione, della cultura e dell'intrattenimento, non chiedono poi la luna, ma qualcosa di molto più semplice e banale: di essere trattati da " adulti " da persone normali venendo considerati soggetti di uno scambio culturale vero da cui coloro che potrebbero uscire più avvantaggiati continueremmo, in fin dei conti, ad essere noi e, con noi, la lingua, la cultura e l'immagine "buona" dell'Italia.

Emilio Franzina - Storico Università di Verona