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Guai al capitalismo
senza Stato Sociale

Lo Stato Sociale ha portato ad un aumento della vita media e ad un maggior benessere generale. E' vero che questo strumento va ripensato, ma chiunque volesse arrivare al suo smantellamento inconsulto, dovrebbe poi pagare un costo elevatissimo. Come succede nei paesi del terzo mondo dove la società è spaccata per mancanza di ammortizzatori sociali.

Si stava meglio quando si stava peggio? Ecco una domanda sempre buona che si potrebbe applicare al caso della crisi che in tutto l'Occidente attanaglia le politiche assistenziali e previdenziali tipiche del Welfare State.

Pensate solo, per non andare più indietro, agli inizi del secolo quando in Italia non la speranza di vita, ma la durata media della vita non oltrepassava i quarant'anni. Oggi deteniamo il record della longevità e recenti statistiche (é un modo di dire ma giuro che stavolta è vero: i dati sono quelli dell'ISTAT ottobre 1996) hanno appurato che c'è stato, rispetto a dieci anni or sono, un ulteriore incremento. Nel 1981 i maschi italiani vivevano in media 71 anni e sono oggi arrivati a 74, mentre le femmine, penalizzate forse in altri aspetti della vecchiaia, sono balzate da 74 a 80 anni.

Si tratta, a detta degli esperti, di uno dei tanti effetti dell'entrata in vigore negli ultimi cinquant'anni delle politiche preventive e curative non solo, bensì pure dell'azione a largo raggio dello stato sociale. Una migliore alimentazione, l'uso degli antibiotici, la tutela del lavoro e la garanzia di una pensione esaurito il ciclo lavorativo pluridecennale, tutte conquiste del XX secolo, sono fortemente correlati al buon funzionamento, almeno per tali apsetti, di un sistema oggi ( ma non solo da oggi) in ambasce e la cui legittimità è revocata in forse anche da molti di coloro che ne hanno più di altri beneficiato.

I ceti medi in crisi, quelli che protestano contro le tasse eccessive e contro il cattivo uso del danaro pubblico individuano nella spesa pubblica appunto la grande sperperatrice delle risorse necessarie in partenza a finanziare le provvidenze sociali di interesse collettivo ( sistemi sanitari nazionali, regolamentazione dei fitti e disponibilità degli alloggi, di nuovo pensioni di invalidità, di anzianità, di riscontro assicurativo e così via), sono anche quelli, secondo Ralf Dahrendorf che si sentono minacciati dal permanere dello stato sociale e dai suoi costi. Sono anche però, paradossalmente, tra coloro che più si troveranno a soffrire del suo auspicato ridimensionamento o smantellamento.

Invocato dai neo liberisti e dai fautori della società dei due terzi, già manifesta negli USA ma in progresso continuo anche da noi con le sue frazioni crescenti di marginali, di esclusi, di nuovi poveri ecc. , tale smantellamento o ridimensionamento costituisce l'oggetto di aspre polemiche da almeno vent'anni.

Non vorrei adesso andare troppo indietro nel tempo, ma ritengo giusto ricordare come sin dal 1978 vari istituti di ricerca europei, in Italia ad esempio la Fondazione Agnelli di Torino, avessero dato l'allarme su una situazione che sin d'allora pareva aver toccato quei livelli gi guardia che oggi, per altri, sarebbero addirittura stati superati.

Il "pozzo senza fondo delle spese sociali" si stava rivelando il frutto in realtà, di una minore disponibilità di risorse economiche e di un aumento esponenziale dei costi nei servizi legato in parte ai processi inflattivi (poi ripresi sotto controllo) ma soprattutto alla logica degli sprechi e dei mancati controlli.

Facevano il resto la complessità e le mille rigidità burocratiche, grandissima croce ed assai scarsa delizia del meccanismo usuale di funzionamento del Welfare State un po' dappertutto (e quindi anche nei paesi anglosassoni e in quelli scandinavi così a lungo all'avanguardia in tale settore, ma ora in ritirata anch'essi). In Italia è andata anche peggio perchè qui ai difetti e ai rischi congeniti nella logica burocratico assistenziale si sono sommati a lungo i limiti del carattere morale nazionale e le sciagure del clientelismo sociale e politico ( con l'abuso da parte di molti nella richiesta e nell'ottenimento di prestazioni non legittime, con l'erogazione non controllata da parte dello Stato di pensioni fasulle, specie d'invalidità, con la corrività e la compartecipazione di vaste schiere di beneficiati indiretti e silenti quali gli evasori fiscali grandi e piccini!).

A guardar bene, tuttavia, non è che rispetto al prodotto interno lordo lo Stato sociale costi nel bel paese più che altrove.

La Germania e la Francia, anzi, investono grosso modo il 18% del PIL in forme di assistenza e di previdenza quando invece noi siamo appena sopra al 15%. In Italia, semmai, esistono evidenti squilibri relativamente alle pensioni e non si attuano politiche di sostegno alla famiglia e alla disoccupazione, il terreno cioè su cui si concentra lo sforzo degli altri paesi. Di qui, in una prospettiva di riforma e di cambiamento, ma non, come vedremo, di abolizione quali quanti sciagurati ed interessati vengono reclamando, la necessità di intervenire compiendo scelte di priorità e fissando una scala gerarchica di valori. In testa ad essa potrebbe (dovrebbe?) senz'altro rimanere il servizio sanitario nazionale, beninteso depurato dalle attuali malformazioni e storture, ma per altri versi dovrebbe essere meglio chiarita ed esplicitata la natura "pattizia" che regge l'impalcatura di ogni politica di welfare. Mi spiego: tale impalcatura si sostiene da sempre su accordi e convenzioni nelle quali emerge il lato anche politico e quindi non solo immediatamente economico della questione. L'alternativa neoliberista e le smanie di smantellamento, infatti, non tengono conto di questo carattere di grande patto sociale tra le varie componenti appunto delle società "avanzate" che il welfare ha rappresentato dai suoi albori in avanti.

Torniamo per un momento al passato remoto e alla grande paura borghese dilagata in Europa dopo la Comune di Parigi del 1870/71. Fu allora che nacquero in Italia e in Germania (anzi prima qui che da noi) i movimenti di riforma ispirati al cosidetto socialismo della cattedra da cui avrebbero tratto spunto le legislazioni previdenziali e di tutela del lavoro operaio, minorile, femminile ecc. Più tardi l'incedere le progresso tecnologico e senz'altro il keinesismo, ma anche le stesse ideologie corporativistiche dei regimi fascista e nazista rinnovarono, ciascuna a modo proprio e sempre sotto il pungolo di un concorrente venuto poi a mancare alias l'URSS , condussero lo stato sociale alla sua massima e più moderna espressione con il New Deal roosveltiano e con le sue riprese europee postbelliche. E qui si comincia a capire, a parte i non pochi sbagli e le molte mostruosità di cui si macchiò, una funzione dimenticata del grande fratello d'antan o se si preferisce del grande nemico ora defunto. Il comunismo realizzato e il collettivismo di Stato sovietico ebbero, finchè durarono in vita, il compito preterintenzionale di tenere sul chi vive i propri antagonisti, l'interfaccia quasi, del mondo capitalista. E tenere sul chi vive, come si è detto, significò in effetti allungare il corso medio della vita e la qualità della sua condizione per milioni e milioni di uomini e di donne. Oggi che l'alternativa sembra non esserci o ridursi alla elementare e banale richiesta di abolizione tout court uno dei grando problemi riguarda le prospettive che si schiuderebbero a tutto l'Occidente nel caso di chiusura per fallimento dello Stato sociale. Se si pensa che quelle che pur rimangono uno dei migliori risultati nella storia del novecento e di tutta l'umanità debbano essere conquiste a termine e cancellabili a costo (anche economico) zero ci si sbaglia di gran lunga. Non entro nel merito oggi dei costi morali e delle motivazioni altre (tra cui si vede campeggiare da molti anni l'uso alternativo del volontariato civile religioso, ma anche laico con funzioni supplettive dei compiti statali in certi settori). Quello che vorrei far rilevare è che esisterebbe un costo elevatissimo di tipo materiale e finanziario per qualunque stato che si mettesse sulla via dello smantellamento inconsulto delle provvidenze e dlle previdenze ancora compatibili con lo sviluppo capitalistico di fine millennio: ricoveri di mendicità, caserme di polizia carceri e luoghi di rinchiudimento e forme di difesa paramilitare della parte affluente e ricca delle società si renderebbero presto inderogabili un po' come si vede accadere in certi paesi come il Brasile, per citarne uno che ben conosco, in cui le spaccature sociali e la conflittualità raggiungono livelli incredibili a causa della mancanza di reti protettive e di camere di compensazione.

Se è questo ciò che si vuole occorre dirlo.

Se invece a essere messa in questione è piuttosto un ' intera filosofia, allora il discorso si fa diverso, ma anche troppo lungo perchè lo porti avanti io qui e adesso. In una prossima occasione sarà più facile occuparsi della "nazionalizzazione del sociale" come la vengono predicando in Francia alcuni critici: per il momento mi accontento di suggerire a chi legge di prolungare altrove lo sforzo e di procurarsi, perchè se ne possa poi ragionare insieme con cognizione di causa, il libro assai stimolante di Pierre Rosanvallon su La nouvelle question social. Repenser l'Etat-providence (Paris Editions du Seuil,1995). Sarà un buon punto di partenza o, come oggi si dice anche nel calcio, di ripartenza per prendere in contropiede i miopi avversari di una maniera di vivere e di far vivere più a lungo che ha qualificato e nobilitato l'intero secolo XX giunto oggi mestamente, con questi contraccolpi, al suo capolinea.

Emilio Franzina