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Il risvolto di copertina sostiene che Brizzi avrebbe "
vinto alla grande la scommessa di confermare il talento mostrato
in Jack Frusciante è uscito dal gruppo, con una
tensione creativa straniante e magistrale". A noi pare invece
che le parti più belle di questo libro (che sono effettivamente
molto belle) siano quelle nelle quali si parla di infanzia, di
prima adolescenza: quelle più (apparentemente, mica siamo
nati ieri) candide e disarmate. "Da cuccioli tiravamo i calci
di rigore col pallone supertele. La porta, era disegnata sul muro
a vernice bianca col beneplacito del papà di di Dietrich.
E il suo apporto tecnico anche: da soli avevamo provato più
volte, ma quella veniva tutta storta, ché a parare li in
mezzo invece di portiere bellissimo e ragno nero ci si sarebbe
immaginato giusto uno storpio dell'istituto degli infelici. Poi,
bontà immensa e grida altisuono di ringraziamento da parte
di noi cuccioli, il genitore ci introdusse ai miracoli del filo
di piombo, indispensabile per disegnare dritti i pali" (p.136).
E in una delle pagine finali (pp. 180-183) il personaggio narratore,
Ermanno, torna tra i pali ("due mucchietti di camicie e maglioni")
in piazza, richiamato da un gruppo di bambini ai quali manca il
portiere per parare un rigore difficile.
Ora, non è che per principio respingiamo
il Brizzi-pulp (pulp per modo di dire: usiamo la parola per spiegarci
alla grossa) e accettiamo il Brizzi-Jack Frusciante: Di più:
è apprezzabile il coraggio con cui Brizzi ha scritto un
libro che difficilmente piacerà ai più recenti antropofagi
e pure difficilmente piacerà al pubblico che si è
creato con Jack Frusciante. Checché se ne pensi,
questo è un libro progettato a tavolino per l'insuccesso.
Ma ci pare che Brizzi dia il meglio di sé nelle pagine
ascetiche, e dia molto meno del meglio nelle pagine nelle quali
fa "l'artista abbastanza celebre che parla come un tossicomane".
Certo: la scommessa del libro è quella di descrivere una
sorta di ascetismo alla rovescia: se l'asceta è colui che
si perde in Dio (che è un disumanizzarsi), i personaggi
di Bastogne vivono nel tentativo continuo di "perdere
le sembianze umane residue" (p86) a forza di droghe ed altro.
Ma questo semplicemente non funziona: non tiene narrativamente,
non è quasi mai credibile (benché ci siano scene
e personaggi anche molto belli, come la straziante e commovente
morte di un tossico detto "il Cinghiale", pp. 158-159).
Il nichilismo non si addice a Brizzi; il nichilismo non può
essere una scelta di genere come le altre.
Alcune note sulla lingua: E' interessante,
come ci si aspettava, e se non altro il libro sta in piedi come
gigantesco esercizio di stile. Colpiscono dei difetti: l'abuso
della parola "meravigliose" (sostantivo) veramente invasiva;
dell'aggettivo (in realtà tipico di De Carlo, quasi un
marchio: fa uno strano effetto) e del verbo "danneggiato"
e "danneggiare" ("danneggiata com'è",
p. 178; "uno straccio di ragazza ormai danneggiata"
e "la danneggiata, questa mezza troia, la punisco",
p. 18, a otto righe di distanza); e così via. Tuttavia,
per dare un'idea di quanto forte è il controllo stilistico
che Brizzi esibisce, basti vedere le pagine (42-50), dove, per
presentare il luogo dei fatti (una Nizza totalmente inventata)
incorpora senza battere ciglio brani da guida turistica: "Nizza,
la nostra piccola patria, era una città della Francia meridionale,
capoluogo del dipartimento delle alpi marittime. (...) Di aspetto
prevalentemente moderno" eccetera, fino a: "...mentre
la presenza dei complessi industriali a tecnologia avanzata e
di istituzioni culturali aveva determinato una fulgida presenza
giovanile". Quell'aggettivo, fulgida, messo lì,
è magistrale.
Per finire: Bastogne è un libro
per esperti. I palati raffinati ne godranno le bellezze e ne perdoneranno
(probabilmente) le cadute. Da non mettere in mano agli adolescenti.
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