[LETTURE & SCRITTURE]


Recensioni, Schede e Notizie

AVVISO AI NAVIGANTI. Gli editori che volessero proporre volumi o riviste per recensione devono inviarli al seguente indirizzo: Nautilus, Ashmultimedia, via Fra' Paolo Sarpi 16, 36100 Vicenza, all'attenzione di Giulio Mozzi.

RECENSIONI E SCHEDE

  • LETTERATURA E AMMINISTRAZIONE. Libero Poverelli (pseud. di Giorgio Voghera), Come far carriera nelle grandi amministrazioni, Lint, pp. 36, L.10.000; Giorgio Voghera, Il Direttore Generale, Mgs Press, pp. 80, L.10.000, introduzione di Elvio Guagnini
  • LETTERATURA E COMBATTIMENTO. Antonio Franchini, Quando vi ucciderete, maestro?, Marsilio, pp. 167, L.20.000
  • LETTERATURA E VERITA'. Maria Zambrano, Verso un sapere dell'anima, Raffaello Cortina, pp. 188, L.24.000, a cura di Rosella Prezzo
  • LETTERATURA ESTREMA. Georges Perec, Tentativo di esaurire un luogo parigino, Baskerville, pp. 170, L.22.000, con testo francese a fronte, a cura di Eileen Romano
  • OLTRE LE BUONE MANIERE. Giovanna Axia, Elogio della cortesia, Il Mulino, pp. 133, L.18.000
  • IL RITORNO DI ALFABETA. Alfabeta 1979-1988: anatologia della rivista, a cura di Rossana Bossaglia, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Clelia Martignoni, con una premessa di Maria Corti, Bompiani, pp. 575, L.28.000

NOTIZIE

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LETTERATURA E AMMINISTRAZIONE. Libero Poverelli (pseud. di Giorgio Voghera), Come far carriera nelle grandi amministrazioni, Lint, pp. 36, L. 10.000; Giorgio Voghera, Il Direttore Generale, introduzione di Elvio Guagnini, Mgs Press, pp. 80, L. 10.000

Ecco due capolavori ignorati. Stampato nel 1959 a spese dell'autore (celatosi sotto lo pseudonimo di Libero Poverelli) e con felice intuizione ristampato anastaticamente dalle edizioni Lint (Trieste, via di Romagna 20, 040-360421), il Come far carriera nelle grandi amministrazioni di Giorgio Voghera è un libretto che dovrebbe stare in ogni biblioteca tra le Istruzioni alla servitù di Jonathan Swift e le opere complete di Franz Kafka. E' un libretto crudelmente delizioso, magnificamente scritto, quasi intollerabilmente veritiero. Ha l'aspetto, la forma, la lingua e la sintassi dei saggi di riflessione morale: e propone invece (ma mostrandone nel contempo la vanità) le più ciniche scelte. All'impiegato desideroso di far carriera si consiglia di "sviluppare tutta una tecnica della superficialità". Egli dovrà "saper parlare a lungo e brillantemente di qualsiasi questione, senza conoscerne la vera sostanza; eludere le domande precise dei superiori, approfittando della loro ignoranza, e quelle degli inferiori, facendosi scudo della propria autorità; (...) evitare possibilmente di impegnarsi in ogni concreta azione, che potrebbe mettere in luce la sua incapacità, ed impedire nello stesso tempo ai subordinati di svolgere un'azione autonoma" (p. 17). Giorgio Voghera, impiegato in società di assicurazioni dal 1926 al 1962 (con l'interruzione di otto anni, essendo egli ebreo, dovuta alle leggi razziali), sa bene di che cosa parla. Molti paragrafi cominciano con la frase-ritornello: "Potrebbe essere nell'interesse dell'amministrazione...", alla quale seguono inesorabilmente il ma e l'invece. "L'interesse delle amministrazioni vorrebbe spesso che si chiarissero le questioni fino in fondo, che si esaminassero e discutessero tutte le eventualità, che si mettessero quanto possibile i puntini sulle i. Per accattivarsi l'animo dei superiori bisogna invece non affaticarli, irritarli ed annoiarli con questioni troppo complesse. (...) Le lettere ed i rapporti dovranno (...) essere tenuti quanto possibile in un tono di genericità non impegnativa, anche se di ciò qualcuno si potrebbe avvalere a danno dell'amministrazione" (p. 20). Né bisogna farsi scrupolo, nell'agire in tal modo, dell'eventuale danno per l'amministrazione. Infatti "nelle grandi amministrazioni, il semplice impiegato ed il funzionario di grado inferiore non decidono di nulla e non hanno alcuna indipendenza. Essi possono quindi giovare poco o nulla alla propria amministrazione, comportandosi in un modo piuttosto che in un altro. Sarebbe assurdo perciò che, per scrupolo di fare danno, rinunciassero a quel comportamento, che è il più utile per la loro carriera" (pp. 19-20). E tra l'altro, insinua coccodrillescamente Voghera, "se gli impiegati vogliono far carriera, ciò non è solo per migliorare la loro posizione economica e sociale, ma anche per il desiderio di rendersi più utili all'organizzazione da cui ricevono il sostentamento" (p. 19). Quindi: siate servili oggi per fare carriera ed occupare domani il posto di chi oggi impone il servilismo come unico modo di far carriera; dove è evidente, ma accuratamente non detto, che il nostro giovane in carriera è destinato, quando il posto di dirigente sarà suo, a replicare esattamente i comportamenti dei superiori attuali.

Di seguito a questo gioiello della letteratura di satira si può leggere, sempre di Giorgio Voghera, il racconto Il Direttore Generale oggi riedito dalla Mgs Press (via Sara Davis 101, Trieste, 040-44968; originariamente il racconto era incluso nel volume Carcere a Giaffa, Edizioni Studio Tesi, fuori commercio). In esso si traccia il ritratto appunto del direttore generale d'una compagnia d'assicurazioni, dal punto di vita del giovane impiegato (evidentemente Voghera stesso) intelligente, attivo, moralmente sano, ancora insicuro di sé. Il giovane impiegato vede il direttore generale come una sorta di piccolo dio e quasi un padre. "Quando i miei occhi si posarono su di lui, vidi solo un cranio allungato, completamente calvo, chino su delle carte: il cranio di mio padre! E fui preso per un attimo da quel senso di tenerezza... Poi il Direttore Generale sollevò il viso. L'incanto si dileguò: non assomigliava punto a mio padre..." (pp. 32-33). Il direttore generale appare come l'unica persona proba (assieme al giovane impiegato) di tutta l'organizzazione, "circondato da gente ambiziosa ed avida di danaro fino all'ossessione" (p. 66). Tutto in lui è misterioso e vagamente divino, e misterioso più d'ogni altra cosa è il suo essere, oltre che direttore generale, anche persona umana con sentimenti complessi. Ad esempio l'avere sposato una donna la quale, corteggiata da lui, lo aveva respinto per fidanzarsi con un altro uomo, morto tuttavia prima del matrimonio. "Alla morte del fidanzato, il Direttore Generale l'aveva nuovamente cercata e l'aveva sposata. Veniva pure raccontato il particolare patetico dei due coniugi che, anche da anziani, si recavano periodicamente alla tomba del giovine" (pp. 39-40). La parola chiave è, forse, devozione. Il giovane impiegato si rispecchia nella devozione del direttore generale all'azienda, devozione che si mostra nelle virtù più semplici: l'operosità, l'ascolto, la riflessione, la capacità di commuoversi. Questa devozione porterà addirittura il direttore generale, anch'egli ebreo, a non voler abbandonare la carica anche durante gli anni della guerra e dell'occupazione tedesca, esponendosi così a maggiori rischi. Miracolosamente si salvò, racconta Voghera, e visse abbastanza per vedere che la compagnia si riprendeva dalla catastrofe della guerra; "e benché egli avesse certamente la coscienza che ciò sarebbe avvenuto anche senza di lui (questi grandi organismi vivono, nel mondo di oggi, quasi di vita propria e, se non c'è qualche tarlo interno, o qualche forza politica esterna che li uccide di proposito, si rimettono bene o male da qualsiasi crisi), egli poteva compiacersi legittimamente con se stesso di ciò che aveva fatto per rendere il processo più rapido e più deciso" (p. 79). E in questa chiusa del racconto sta tutto lo straordinario, e garbatamente inquietante, nichilismo impiegatizio di Giorgio Voghera.

Giorgio Voghera ha pubblicato presso le edizioni Studio Tesi: Gli anni della psicanalisi (1980), Nostra Signora Morte (1983), Carcere a Giaffa (1985), Quaderno d'Israele (1986). Di lui alcuni dicono che sia l'autore del romanzo Il segreto, pubblicato nel 1961 da Einaudi come romanzo di "anonimo triestino" (con prefazione di Linuccia Saba); Giorgio Voghera ha sempre smentito, sostenendo che l'autore di tale romanzo è in realtà suo padre Guido Voghera. [Per completare il labirinto: l'unica opera ufficialmente edita di Guido Voghera è Pamphlet postumo: Etica e Politica da Hegel ai Grandi Dittatori, con una biografia scritta da Giorgio e una presentazione di Aurelia Gruber Benco (Edizioni Umana, 1967).]

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LETTERATURA E COMBATTIMENTO. Antonio Franchini, Quando vi ucciderete, maestro?, Marsilio, pp. 167, L. 20.000

Questo libro di Antonio Franchini (che porta il sottotitolo: La letteratura e il combattimento) è indescrivibile: non è un saggio, non è una narrazione, non è un manuale: che cos'è? In primis diremo che è senz'altro un bel libro, forse molto bello, e senz'altro un libro interessante, forse importante. Ne caviamo qualche frase: "Forse è illusorio (...) credere che imparare a scrivere significhi attingere a una forma superiore dell'essere umano piuttosto che a un'abilità, a una forma di perizia come tante" (p. 23). "Che fino a un certo punto il desiderio di dedicarsi alle discipline del combattimento, come quello di volgersi alla letteratura, nasca da qualche frustrazione che può placarsi solo nell'esercitare un dominio è un fatto scontato" (p. 35). [cf. per l'uso della parola dominio la recensione a Zambrano, Verso un sapere dell'anima, in questo stesso NAUTILUS]"Sono certo che tra l'involucro di carne di un uomo e i suoi pensieri debba esistere un legame molto stretto e indifeso. Indifeso perché è molto difficile avere un pieno, contemporaneo controllo sulle apparenze e sulle esibizioni sia del corpo che della mente. Da qualche parte ci dobbiamo tradire" (p. 103).

Ecco, forse da queste citazioni abbiamo la temperatura di questo libro, e forse adesso sappiamo dire che razza di libro è: è un saggio morale simile a quelli di Montaigne, nel quale si mescolano riflessione pura, meditazione dell'esperienza, narrazione; e nel quale la divagazione, intesa come libertà di connettere cose nel ragionamento in quanto si è sperimentata la loro connessione nell'esperienza, diventa uno strumento d'indagine. Antonio Franchini, nato nel 1958 (dice il risvolto di copertina), pratica da anni diverse arti marziali. "La prima volta che mi fu mostrata la possibilità di un rapporto diretto tra la letteratura e le arti marziali, partecipavo a una lezione di jeet kune do" (p. 27). Il jeet kune do è una tecnica (o uno stile) di combattimento inventato da Bruce Lee (sì, quello dei film) e consisteva nella mescolanza (opportunistica, anti-scolastica) delle tecniche più efficaci delle varie scuole di combattimento, boxe inclusa. "Il maestro (...) martellava il corpo dell'allievo con una progressione di colpi che partivano dalla lunga distanza, poi si appressavano, ogni tecnica annodandosi alla precedente: una leva che seguiva a una gomitata e una ginocchiata, fino alle prese di strangolamento a terra, quando il corpo della vittima era crollato. Di ogni tecnica il maestro sottolineava l'intercambiabilità" (p. 29). "Insomma, è come quando scrivete - continuò il maestro, imbarcandosi in un'analogia inaspettata - io v'insegno dei colpi che sono dei vocaboli, poi bisogna inserirli in concatenazioni che sono le frasi, la grammatica, ma quando diventerete più capaci, sarete voi a comporre le vostre frasi, cambiando, a vostra scelta, come quando scrivete..." (pp. 29-30).

Ma il combattimento del quale questo libro parla non è solo il combattimento alla fin fine fittizio che avviene nelle palestre e nelle esibizioni; è anche il combattimento occidentale per eccellenza, la guerra. E lo fa ripercorrendo alcuni avvenimenti della vita familiare: la morte in combattimento dello zio Antonio (lui pure) Franchini, della quale fu testimone un amico di famiglia, Alfonso Casati (figlio di quell'Alessandro Casati che fu ministro della guerra nel primo governo "badogliano"), lui pure ucciso pochi giorni dopo. Alfonso scriveva a casa tutti i giorni (anche due lettere al giorno), e nelle lettere le notizie della guerra si alternano alle notizie sugli studi senza transizioni, con passaggi improvvisi: "«Che pena l'aver notizia degli edifici colpiti nell'ultima incursione su Milano. Tutte quelle mura, tutte quelle costruzioni mi erano care al ricordo. Qui nulla di nuovo. Leggo le Operette morali del Leopardi. Oggi ho gustato il racconto di Barbey d'Aurevilly»" (p. 81). La figura che sembra apparire, tanto nelle pagine dedicate allo zio Antonio (giovine pittore che "pensava solo alla pittura") quanto in quelle dedicate alle arti marziali (e, dentro queste, a Mishima), è quella dell'ossessione. E un'altra figura che appare di continuo è quella della finzione del combattimento. Come il combattimento eseguito secondo le regole delle arti marziali (di una qualunque arte marziale) è essenzialmente finto, cioè privo dello scopo che sarebbe proprio e originario del combattimento (la salvezza di sé, l'uccisione dell'avversario), così lo scrivere è un'attività che si confronta continuamente con "qualcosa" (con la morte, sembra accennare Franchini a più riprese) ma sempre ineluttabilmente per finta. E pertanto lo scrivere in sé, non lo scrivere in quanto scrivere fiction ma lo scrivere in sé, appare come un'attività fittizia: non, quindi, l'attingere a "una forma superiore dell'essere umano", ma piuttosto l'esercitare "un'abilità, una forma di perizia come tante".

Quando vi ucciderete, maestro? contiene un insegnamento difficile da rinchiudere in una formula. E' un libro che educa invitando all'acquisizione di "una forma di perizia", una fra le tante. La modestia dell'approccio si rivela, a libro chiuso, come una più alta ambizione - oggi, in un tempo di facili superomismi massmediali, questo è un libro utile.

Antonio Franchini è nato a Napoli nel 1958. E' autore di numerosi saggi di letteratura contemporanea. Ha pubblicato: Camerati, quattro novelle sul diventare grandi (Leonardo, 1991) e Quando scriviamo da giovani (Sottotraccia, 1996). Lavora come editor presso Mondadori.

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LETTERATURA E VERITA'. Marìa Zambrano, Verso un sapere dell'anima, Raffaello Cortina, pp. 188, L. 24.000, a cura di Rosella Prezzo

Nella "Nota" a questo libro solo oggi tradotto in Italia ma pubblicato originariamente nel 1950 (e contenente scritti di tutto il quinquennio precedente), Marìa Zambrano scrive: "Si danno qui, nel loro germinare, le due forme di ragione - quella mediatrice e quella poetica - che hanno guidato tutta la mia attività filosofica" (p. 3). Per ragioni di competenza ci limiteremo a riferire (anche perché danno un'idea precisa di tutto il procedere di Marìa Zambrano) di alcune pagine nelle quali si affronta la ragione poetica, e in particolare del breve saggio intitolato "Perché si scrive?" (pp. 23-31). Questo saggio merita di essere letto perché è uno dei testi più sfrontati che si siano mai letti sull'argomento. "Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova: è un'azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile (...). E' una solitudine, però che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione." La scrittura, sostiene Zambrano, non è una sorta di prosecuzione con altri mezzi della parola parlata, bensì un'attività che si fa contro la parola parlata: che è improvvisata, ampiamente irresponsabile, sempre eseguita in risposta a sollecitazioni esterne: ed è perciò, inevitabilmente, una sconfitta. "La vittoria, del resto, può darsi solo dove si è subita la sconfitta, nelle stesse parole." "C'è nello scrivere un trattenere le parole (...). Scrivendo si trattengono le parole, le si fanno proprie, soggette a ritmo, contrassegnate dal dominio umano di chi in questo modo le maneggia." [cf. per l'uso della parola dominio la recensione a Franchini, Quando vi ucciderete, maestro?, in questo stesso NAUTILUS]. Qui si riciclano in maniera evidente alcuni luoghi comuni sullo scrivere letterario: la solitudine, lo stile "che è l'uomo" ecc.; ma notiamo che Marìa Zambrano riusa questi luoghi comuni con innovazioni importanti che ne fanno, così ci sembra, addirittura parole nuove. Basta un aggettivo: "una solitudine comunicabile": ecco una formula che, ci giureremmo, molti tra coloro che hanno riflettuto sulla scrittura in questo secolo hanno inseguita invano; e ci pare che dica tutto. Parole "contrassegnate dal dominio umano di chi in questo modo le maneggia": qui non siamo al semplice concetto di stile; il concetto di stile nella sua accezione oggi corrente (ossia tardottocentesca) è un concetto intriso di onnipotenza; Marìa Zambrano invece parla di "dominio umano" e l'aggettivo è limitante, ossia s'intenda: un dominio quale è possibile a un uomo. Notiamo che la frase, pur usando l'aggettivo umano come limitante, non contiene alcun rinvio ad altro che all'uomo.

Il centro di tutto, comunque, è quest'idea della solitudine comunicabile. Lo scrittore scrive comunicando la propria solitudine e quanto in essa trova; mentre scrive realizza una "comunanza il suo pubblico". Comunanza che è tutt'altra cosa dal successo e cose simili, e infatti "non si forma dopo che il pubblico ha letto l'opera pubblicata, bensì prima, nell'atto stesso in cui lo scrittore scrive la sua opera", e precisamente nel momento in cui "si rende manifesto il segreto". Lo scrittore infatti "vuole dire il segreto, ciò che non si può dire a voce perché troppo vero" (ancora: la scrittura contro la parola parlata), e il segreto non è affatto una conoscenza dello scrittore: lo scrittore non lo conosce ma, al massimo, lo sa: è in grado di mostrarlo, non di interpretarlo. Allora il dominio che lo scrittore esercita sulle parole è solo quel tanto di controllo che basti a far passare in queste parole (anzi: a far essere queste parole) il segreto che lo scrittore può manifestare.

Siamo in un'epoca nella quale si scontrano duramente due teorie della scrittura. Una teoria è quella dei poeti (qui si parla approssimativamente, sia chiaro) ed è sostanzialmente spacciata: si teorizza infatti una totale separatezza della scrittura dal mondo, addirittura la poesia come forma di conoscenza autonoma e separata (concetti non nuovissimi, tra l'altro), la poesia come appartenente ai poeti, intendendosi con l'espressione "i poeti" una categoria sociologica. Quanto abbia già perso questa teoria è dimostrato dalle vendite dei libri di poesia: praticamente nulle. L'altra teoria è quella che ha già vinto, quella della scrittura come intrattenimento, nella quale ciò che conta è la capacità di penetrazione (nel mercato) e questa capacità si raggiunge con lo spiegamento dell'armamentario tecnico [quanto differente, questo tecnicismo sfrenato, dalla perizia di cui si parla nel citato libro di Franchini], diciamo à la Baricco. Entrambe queste posizioni soffrono di delirio d'onnipotenza. La proposta di Marìa Zambrano è, ci sembra, un pensare la scrittura come attività naturalmente comunicante, che esiste per comunicare; e un pensare la comunicazione come un trovare un luogo comune, un luogo dove gli uomini possano stare con atteggiamento trattenuto e disponibile. Una proposta che nel cosiddetto dibattito culturale italiano, benché venga dalla traduzione di un libro del 1950, suona come innovativa [ma cf. la recensione a Ronchi, Luogo comune. Verso un'etica della scrittura, in NAUTILUS settembre 1996].

Ciò detto, si può aggiungere che tutto il libro, come d'altra parte tutti i libri di Marìa Zambrano finora tradotti in Italia, è molto bello e interessante e merita la lettura. Benché sia un libro piuttosto tosto è accessibilissimo anche ai non specialisti, e forse specialmente consigliabile a loro.

Marìa Zambrano (1904-1991), filosofa spagnola, all'instaurarsi della dittatura franchista prese la via di un lungo esilio; nel 1984 tornò in patria. Disponibili in Italia: Chiari del bosco (ed. ital. 1991), I beati (ed. ital. 1992), La tomba di Antigone (ed. ital. 1995), tutti editi da Feltrinelli.

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LETTERATURA ESTREMA. Georges Perec, Tentativo di esaurire un luogo parigino, Baskerville, pp. 170, L. 22.000, con testo francese a fronte, a cura di Eileen Romano

Sono tornati in libreria, dopo lungo esilio, alcuni importanti volumi della casa editrice Baskerville di Bologna; e vale la pena di segnalarli. Non è tornato in libreria Biglietti agli amici di Pier Vittorio Tondelli (ma è annunciata una nuova edizione, presso Bompiani, per gennaio 1997, a cura di Fulvio Panzeri), ma ben si trova l'importante Tentativo di esaurire un luogo parigino di Georges Perec. Si tratta di un testo piuttosto corto (una settantina di pagine ben spaziate), originariamente (nel 1975) pubblicato in rivista, e per certi versi sostanzialmente illeggibile. Perec si piazza a un tavolino di bar in piazza Saint-Sulpice, a Parigi, e prende appunti. "Ci sono molte cose, in place Saint-Sulpice, ad esempio: un municipio, un ufficio delle tasse, un commissariato di polizia... (...) Molte, se non la maggior parte di queste cose, sono state descritte, inventariate, fotografate, raccontate o censite. Il mio proposito nelle pagine che seguono è stato piuttosto quello di descrivere il resto: ciò che generalmente non si nota, non viene ricordato, ciò che non ha importanza: quello che accade quando non accade niente, se non il passare del tempo, delle macchine e delle nuvole" (pp. 9-11). E questo effettivamente fa Perec: annota diligente per un certo tempo il passaggio di signore con la borsa con la spesa, di autobus ("Passa un 96. Passa un 86. Passa un 87. Passa un 63", p. 35), di automobili di vari colori ecc.; annota i cambiamenti del tempo ("La pioggia è finita molto presto; per qualche secondo c'è anche stato un vago raggio di sole", p. 95); e così via. Torna il giorno dopo, cambia caffè e tavolino, e ricomincia.

Il Tentativo è un testo che, nei progetti di Perec, doveva appartenere a un volume abbastanza cospicuo: si trattava di "descrivere il divenire, nell'arco di dodici anni, di dodici luoghi parigini ai quali, per una ragione o per l'altra, sono particolarmente legato" (cit. da E. Romano, pp. 155-156). Noi quindi abbiamo davanti solo un frammento: comunque di per sé significativo. Dicevamo che questo testo è per certi versi illeggibile; così come la realtà della quale ci parla è, per certi versi, inguardabile. La bellezza del testo, infatti, non è tanto nelle sue qualità letterarie o nella bella scrittura (anche se la bella scrittura arguta non manca: "Passa un uomo che cammina col naso per aria, seguito da un altro uomo che guarda per terra", p. 125; "Una vecchia signora con una bellissima redingote impermeabile stile Sherlock Holmes", p. 127) quanto nel fatto che ci costringe a pensare: e se noi facessimo lo stesso? che cosa vedremmo se ci mettessimo a guardare un luogo (un luogo al quale ci sentiamo particolarmente legati) con uno sguardo di questo genere? In somma, per quanto banale sia dirlo così, il Tentativo è effettivamente un testo che apprende a guardare in un modo inconsueto. E pertanto, se dalla letteratura ci aspettiamo non solo intrattenimento o azione o contenuto civile ecc., ma anche una modificazione dello sguardo, non possiamo non passare almeno in libreria a sfogliarlo.

Georges Perec nasce il 7 marzo 1936 a Parigi da genitori ebrei esuli dalla Polonia. Il padre muore in guerra quattro anni più tardi e la madre, internata ad Auschwitz, non ne farà ritorno. Di Georges si occuperanno gli zii, che gli permetteranno di portare a termine il liceo. Nel 1954 inizia gli studi universitari a indirizzo umanistico per abbandonarli dopo pochissimo tempo. Nel 1957-61 è militare, paracadutista. Nel 1960 si sposa con Paulette Pétras. Il debutto letterario è nel 1965 con il romanzo Les choses (Le cose, Mondadori). Un anno dopo aderisce all'Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle, Officina di letteratura potenziale), nel cui ambito conosce, tra gli altri, Raymond Queneau e Italo Calvino. Lavora come documentalista per un centro di ricerca medica, nonché come realizzatore di cruciverba. Nel 1978 pubblica La vie mode d'emploi (La vita: istruzioni per l'uso, Rizzoli), vince il premio Médicis e si dà alla scrittura a tempo pieno. Muore il 3 marzo 1982, a Ivry, per tumore polmonare. Altre sue opere in italiano: Specie di spazi, Mi ricordo e L'infraordinario, Bollati Boringhieri; Pensare / Classificare e 53 giorni (postumo e non finito), Rizzoli; Ellis Island, storie di erranza e di speranza, Archinto.

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OLTRE LE BUONE MANIERE. Giovanna Axia, Elogio della cortesia, Il Mulino, pp. 133, L. 18.000.

Innanzitutto: non si tratta di un manuale di buone maniere, stile Lina Sotis. Giovanna Axia è docente di Tecniche di osservazione del comportamento infantile nella facoltà di Psicologia dell'Università di Padova; e la sua perizia nell'osservazione costituisce forse uno dei pregi di questo libretto. "La cortesia", scrive Giovanna Axia, "è qualche cosa di così sfuggente da farsi notare molto più per la sua assenza che per la sua presenza" (p. 9). Pertanto il lettore viene guidato, per mezzo di un buon assortimento di esempi, ad osservare la presenza della cortesia. Molti esempi sono tratti dal comportamento infantile (questo non li rende meno interessanti per il lettore adulto) e fanno vedere come il comportamento cortese consista essenzialmente nel far accadere cose per mezzo di parole (definite atti - cioè azioni - linguistici). "Esiste una stretta relazione tra parole, contesto e azioni sociali, compiute con le parole stesse. Si tratta di una relazione così basilare e primitiva che spesso ci sfugge." (p. 23). Mentre i primi due capitoli del libretto ("Fatti o parole?" e "La cortesia") puntano soprattutto alla definizione dell'oggetto (ed è divertente come, nel secondo capitolo, Giovanna Axia attinga gran parte dei suoi esempi dal Nome della rosa di Umberto Eco), il centro del libro sta nel capitolo intitolato "Le regole del mondo" (titolo suggerito dalla frase di un bambino di sette anni, Paolo: per essere cortesi "basta essere gentili e rispettare le regole del mondo", p. 13), dove Giovanna Axia si muove tra i concetti di "convenzione" e di "morale". "Il nucleo centrale della cortesia può essere molto primitivo e profondo: è la capacità di voler bene, di provare affetto per le altre persone e di desiderare di farle star bene. E' questa la vera base morale della cortesia" (p. 77). Che poi l'attuazione di questo desiderio morale passi attraverso le formule (magari ogni tanto un po' assurde, come dimostra il confronto tra le formule di diverse culture, p. 73) delle buone maniere, questa è la parte di convenzione. L'ultimo capitolo, astutamente intitolato "Intelligenza e cortesia", comincia con la considerazione che i problemi di relazioni sociali sono caratterizzati da: a. una certa indeterminatezza ("Nessuno è in grado di prevedere con assoluta certezza il futuro comportamento di un'altra persona", p. 104); b. soluzioni dotate di una certa logica. La persona intelligentemente cortese svilupperà un certo numero di abilità: avrà un repertorio di comportamenti e di atti linguistici cortesi; sarà consapevole dell'esistenza di una minaccia (per quanto lieve) ai sentimenti (anche superficiali) dell'altro; capirà le caratteristiche personali dell'altro; comprenderà le circostanze sociali regolate dai rapporti di potere, di familiarità ecc.; proverà simpatia, ossia desidererà (per il comune e per il proprio vantaggio, naturalmente) promuovere il benessere emotivo altrui (p. 104). Le ultime venti pagine sono proprio dedicate alla definizione di una strategia della cortesia, fondata sull'osservazione (o, più cortesemente, sul riconoscimento) dell'altra persona e sulla mediazione tra l'esigenza di ottenere da questa persona ciò che si desidera e il desiderio di promuovere il "benessere emotivo" non tanto dell'altra persona quanto della relazione in sé.

Giovanna Axia insegna Tecniche di osservazione del comportamento infantile nella facoltà di Psicologia dell'Università di Padova e Psicologia clinica nella scuola di specializzazione in Neuropsicologia infantile della stessa università.

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IL RITORNO DI ALFABETA. Alfabeta 1979-1988: antologia della rivista, a cura di Rossana Bossaglia, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Clelia Martignoni, con una premessa di Maria Corti, Bompiani, pp. 575, L. 28.000

E' una bellissima cosa che l'editore Bompiani abbia voluto, con questo volume (non propriamente economico, benché pubblicato nella collana "Saggi tascabili"; ma la spesa vale l'oggetto) riproporre e salvare a futura memoria quella straordinaria esperienza culturale che fu il mensile Alfabeta; per di più se si tien conto che proprio in questi mesi quell'area culturale e più precisamente quel gruppo che diede vita alla rivista sta subendo attacchi su attacchi. L'accusa di aver "occupato la cultura italiana" (e l'università, naturalmente) rimbomba di continuo nelle cosiddette pagine culturali dei giornali italiani, nonché in svariate trasmissioni televisive. Eppure non si può dimenticare che negli anni Ottanta quell'area culturale e più precisamente quel gruppo di intellettuali furono gli unici a sapersi organizzare, a saper parlare con forza e chiarezza, a saper estendere la loro pratica a tutti (o quasi) i campi della cultura e dell'arte. La cultura italiana fu effettivamente colonizzata da costoro: ma quanto ciò fu dovuto alla debolezza intellettuale e culturale degli altri? Ci sembra parecchio.

Ciò detto, descriviamo il volume. E' diviso in quattro parti, dedicate ciascuna al dibattito politico, letterario, artistico e filosofico. Non vi si trova forse (oggi) niente di particolarmente nuovo (tra l'altro, molti degli articoli pubblicati sono poi stati riediti dagli in raccolte di saggi o rifusi in volumi di più ampio respiro), tuttavia è interessante, ad esempio, vedere come si sia costruito, attraverso interventi di Vattimo, Eco, Rovatti ed altri, il ragionamento attorno al cosiddetto "pensiero debole"; così come è interessante misurare la distanza tra l'attuale (e rumoroso e futile) dibattito sulla letteratura, e i confronti allora in atto tra Guglielmi, Volponi, Calvino, Porta e Manganelli. Come scrive Maria Corti nella premessa, "la virtù di un periodico bene realizzato è tale che ai singoli interventi, articoli e saggi dei molti collaboratori, esso aggiunge una propria compiutezza di messaggio organico, la presenza come congenita conoscenza di un momento culturale. E' questo che mantiene viva una rivista anche parecchi anni dopo la sua fine". E l'orgoglio che si espone in questa affermazione è assolutamente legittimo.

Il volume è completato da un minuzioso indice generale (quasi 150 pagine) della rivista, curato da Anna Longoni, comprendente anche i pezzi non firmati, i "taccuini", i "cfr." e i testi letterari ospitati.

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Notizie


CHE COSA FACCIAMO STASERA? L'Arci Nuova Associazione bandisce un concorso per racconti inediti in lingua italiana. L'argomento proposto è: "Che cosa facciamo questa sera? Racconta una serata in solitudine o in compagnia, in casa o a ballare o a bere, al cinema o a girare in Vespa. Racconta la tua serata o la serata di un amico/a, oppure invéntati una serata come l'hai sempre sognata e non l'hai avuta mai." Regolamento: I racconti, non più lunghi di 18.000 caratteri, vanno inviati ad: Arci Nuova Associazione, viale IV novembre 19, 35100 Padova. La partecipazione è gratuita. Va spedita una sola copia; nella prima pagina vanno scritti: nome, cognome, indirizzo e telefono. Saranno presi in considerazione i racconti spediti entro il 31 marzo 1997. I racconti saranno esaminati da una commissione che deciderà insindacabilmente quali pubblicare. I racconti scelti dalla commissione saranno pubblicati in volume entro il 31 luglio 1997. Il concorso ha il patrocinio della Provincia di Padova e l'attivo sostegno del quotidiano Il mattino di Padova.

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NUOVI NARRATORI A CONVEGNO. Venerdì 6 e sabato 7 dicembre a Fermo (in provincia di Ascoli Piceno) i nuovi narratori d'Italia si riuniranno a convegno. Parteciperanno Silvia Ballestra, Romolo Bugaro, Andrea Canobbio, Andrea Carraro, Mauro Covacich, Luigi di Ruscio, Angelo Ferracuti, Roberto Ferrucci, Marco Franzoso, Marco Lodoli, Giulio Mozzi, Claudio Piersanti, Tiziano Scarpa, Gilberto Severini, Alessandro Tamburini. Nella giornata di venerdì (inizio alle 9.30, ripresa alle 16.00) ciascuno scrittore presenterà un proprio testo e una "dichiarazione di poetica". Il sabato, invece (stessi orari) prenderanno la parola i critici e i cronisti letterari: Renato Barilli, Andrea Cavalletti, Angelo Guglielmi, Filippo La Porta, Fulvio Panzeri, Pietro Pedace, Silvio Perrella, Generoso Picone, Massimo Raffaeli, Marino Sinibaldi, Pietro Spirito. Il convegno, intitolato "Scrivere oggi", si tiene presso il centro congressi San Martino ed avviene nell'ambito di "Paesaggi italiani", una rassegna di nuova scrittura giunta alla quinta edizione e organizzata dal comune di Fermo, dalla provincia di Ascoli Piceno e dall'associazione culturale Mouse. Per informazioni: segreteria organizzativa, sig. Paolo De Paolis, 0734-676630 o (cell.) 0336-632568; servizi culturali del comune di Fermo, signora Del Bigio, 0734-284282 (dalle 10.000 alle 13.000).

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