[LETTURE & SCRITTURE]


Finalmente Coda!


GIOVANISSIMI NARRATORI. Doveva esserci in maggio al salone del libro di Torino, doveva esserci in ottobre alla mostra mercato dei piccoli editori di Belgioioso, e invece arriverà nelle librerie a fine novembre l'attesissimo volume Coda (ed. Transeuropa). Trattasi d'una antologia di racconti scritti da ragazzi con meno di 25 anni, curata da Silvia Ballestra e Giulio Mozzi. Il titolo del volume cita esplicitamente il celebre album "postumo" dei Led Zeppelin e in effetti, in termini musicali, la "coda" è quella parte di un pezzo che viene dopo la logica conclusione del discorso musicale. Il volume Coda è anche un omaggio alla memoria di Pier Vittorio Tondelli che tra il 1985 e il 1990 confezionò, sempre per l'editore Transeuropa, ben tre antologie Under 25: dalle quali, tra l'altro, saltarono fuori gli scrittori più interessanti della generazione presente: Silvia Ballestra, Romolo Bugaro, Claudio Camarca, Andrea Canobbio, Giuseppe Culicchia, Andrea Demarchi, Gabriele Romagnoli ecc. Coda non è e non vuole essere tuttavia (per esplicita dichiarazione dei curatori e dell'editore) né una ripresa né una continuazione del progetto tondelliano.

DA TUTT'ITALIA. Il volume raccoglie testi di undici persone, dieci ragazzi e una ragazza: Simone Battig di Treviso, Davide Bregola di Sermide (Mantova), Alberto Fassina e Alessandro Lise di Padova, Marco Mancassola di Lonigo (Vicenza), Giovanni Mascia di Bologna, Giulio Milani di Massa, Nicola Montenz di Piacenza, Roberta Schiavon di Ronchi (Padova), Lorenzo Taddei di Lama (Perugia), Massimiliano Zambetta di Bari. E' un po' tutta l'Italia della provincia che si ritrova in queste pagine, e difatti fu quasi esclusivamente dalla provincia che alla redazione di Transeuropa arrivò materiale, un anno fa, quando fu lanciata la campagna di raccolta. Anche la presenza di una sola ragazza è proporzionale: i dattiloscritti di ragazze arrivati a Transeuropa non saranno stati più di una decina in tutto. Presentiamo, come anteprima del volume, il racconto Ragazze di Marco Mancassola, forse il più compiuto dell'intera raccolta.


Ragazze

Un racconto di Marco Mancassola

Tendo l'orecchio. Di notte, la stazione di Venezia è animata da uno strano suono, una specie di fruscio lontano come quello del nastro vuoto, quand'è finita la canzone. Ed è fredda: faccio il giro di tutte le panchine e di tutti i gradini dell'atrio, e ogni volta un gelo umido mi raggiunge la pelle, lento lento attraverso i jeans. Alla fine resto in piedi, appoggiato alla saracinesca dell'edicola.

Dall'altra parte del salone c'è un vecchietto smilzo vestito di grigio, che fa lunghi giri intorno a testa bassa. Cammina a passi discontinui, ora lunghi ora corti, poi fa brusche svolte o si ferma all'improvviso, quasi trafelato. Dapprincipio mi pare che cammini a caso, o forse seguendo un qualche disegno sul pavimento. Ma poi mi rendo conto che sta seguendo il tracciato ideale di varie figure geometriche: cerchi, quadrati, rettangoli, trapezi. Li circoscrive nel perimetro del grande atrio vuoto, con esattezza, come se qualcuno lo stesse guidando dall'alto. Ma lui non sembra soddisfatto, e alla fine di ogni figura ne disegna un'altra, sopra quella precedente.

E c'è una ragazza, tra me e il vecchio. Avrà vent'anni, e indossa una vecchia giacca di pelle, fuori moda, di quelle che le mamme conservano negli armadi perché non vogliono buttarle. Sopra il bavero della giacca le cadono i capelli biondicci, che hanno l'aria leggera dei capelli appena lavati, ancora un po' umidi, magari odorosi di shampoo. Da quando sono qui, e cioè da quasi un'ora, la ragazza sta in piedi davanti a un telefono pubblico. Ferma, immobile, a volte alitandosi sulle mani per scaldarle.

Poi d'un tratto si scuote e solleva la cornetta. Infila una scheda telefonica. Compone un numero, aspetta.

"Ciao, sono io." Ha una voce esile, quasi tremante, che pure riempie la stazione deserta. "Sì, lo so." "Sì va bene, è piena notte." "No, è che non riuscivo a dormire." "Ho fatto una passeggiata, poi ho visto il telefono..." "Senti, io non ce la faccio." "No, davvero non ci resisto, ho bisogno di te..."

Poi resta in silenzio, con un'aria incredula. Fissa la cornetta come se non ricordasse più a cosa serve. Riappende. Andandosene, mi lancia un'occhiata forse ostile, forse spaventata. Certo adesso sa che io conosco di lei cose essenziali: che è innamorata, che è stata lasciata, che non sa rassegnarsi. Che il dolore e la solitudine pervadono le sue notti lasciandola insonne. Lei invece non può saper nulla di me. Non sa cosa ci faccio qui, a due ore di distanza da ogni treno in arrivo o in partenza, non conosce il mio nome, non sa cosa voglio.

Esce dalla stazione. La seguo fin sulla porta a vetri, e da lì la guardo che si allontana giù per i gradini, verso il Ponte degli Scalzi. Ha lasciato una traccia di shampoo nell'aria, ma forse la sto immaginando. Di colpo, come un bambino invidioso, ho anch'io una gran voglia di telefonare. Sarebbe bello, adesso, chiamare qualcuno senza paura di disturbarlo. Dirgli: "sono qui, nella stazione deserta." Dirgli: "c'è qualcosa di gigante nel mio petto, ma non so bene cosa".

Emozione, nostalgia, fame, forse paura.

Si mette a piovere, un'acquerugiola gelida, quasi neve. La ragazza triste si bagnerà.

No, mi sono sbagliato: anche lei di sicuro sa qualcosa di me, qualcosa di altrettanto essenziale. Sa che, in questa notte, anch'io come lei sono solo.

Per tutta la notte ho cercato l'abbraccio di Paola sotto le coperte, volevo stringerla in pieno, sentire l'aderenza del suo seno sul mio petto. Ma ogni volta che eravamo accanto e ci premevamo l'uno contro l'altra, sdraiati sul fianco, ecco che restava l'ostacolo di un mio o di un suo braccio, o di entrambi, che non sapevamo dove mettere. Ci siamo girati e rigirati ma sempre restavano quei due intrusi tra i nostri corpi, come parti estranee. Allora mi sono sdraiato sopra di lei, e finalmente il nostro abbraccio è stato libero e totale; ma in quella posizione lei ha creduto che volessi fare l'amore e così, nel buio, l'ho penetrata con un vago senso di oppressione.

Percorro vari vagoni del treno alla ricerca di un posto, ma è tutto occupato. C'è gente seduta anche sui seggiolini del corridoio, e per passare senza disturbare devo contorcermi in mille modi. Ogni volta che guardo dentro uno scompartimento, le persone che lo occupano mi rimandano uno sguardo che sembra di scherno, quasi che ognuno di loro mi dica: "Brutto stronzo, io sono seduto e tu no."

Oppure si vanta del tipo: "Io sono furbo e tu no".

E io no.

Poi d'un tratto, inaspettatamente, uno scompartimento vuoto tranne che per un uomo accanto al finestrino. Entro e mi siedo. Fuori, nel pomeriggio che imbrunisce, inizia a nevicare leggermente; ma nel vagone fa caldo e il sedile è comodo, mi rilasso contento. Prendo un libro dallo zaino e inizio a leggere.

"Tu hai accendere?" chiede l'uomo con voce impastata. Lo guardo e mi accorgo che è straniero, forse slavo, e visibilmente ubriaco. "No, non fumo." "Oh." Torno a leggere, sperando che mi lasci in pace. Ma invece: "Io profugo di Sarajevo" dice. "Ah", e non riesco ad aggiungere altro.

Mi guarda fisso, come studiandomi con gli occhi acquosi. "Mia moglie morta. Miei figli morti. Miei fratelli morti. Tutti morti."

Parla a voce alta, stonata. Fuori, le persone sedute sui seggiolini mi osservano in un modo strano, forse divertito: lo stesso modo con cui si guarda qualcuno preso di mira da un matto.

"Tutti morti", e grosse lacrime gli rotolano sulle guance. Dal mio sedile sento il puzzo del suo fiato, che sa di alcol e di cibo cattivo. Lui parla, racconta, impreca e ancora piange. Io capisco appena un quarto delle sue parole, mi sta dicendo di sua moglie e di quant'era bella, e del giorno in cui l'ha trovata morta con una patata in bocca, nuda. E del posto dove vive adesso, una specie di campo nomadi dalle parti di Treviso. Io annuisco e ogni tanto provo a sorridergli. Quando si alza per scendere gli allungo diecimila lire, senza che me le avesse chieste. Poi gli tendo la mano. Lui anziché stringerla me la bacia, umilmente: "tu buono" dice. Raccoglie i suoi fagotti e se ne va, tirando su col naso.

Tu buono: per diecimila lire?

In realtà, mi sentivo molto cinico nei miei pensieri, mentre mi parlava: sempre consapevole e convinto che quello che stava narrando era lo sfascio della sua vita, della sua terra; che le lacrime che stava piangendo erano quelle del suo dolore.

Noi, noi possiamo provare pena, e comprensione, e desiderare il bene altrui; ma non possiamo renderci realmente partecipi del dolore di un altro, siamo già convinti di averne a sufficienza di nostro. A ognuno il suo dolore. E in mezzo, la solitudine.

E' strano incontrarlo così, dopo anni che non lo vedevo, sui gradini della stazione. Subito ci guardiamo perplessi, come per riconoscerci: ha un po' di barba adesso, e io non ho più i capelli lunghi. "Ciao!", mi fa. "Ciao! Quanto tempo, dov'eri finito?" "Ma, sempre qui a Venezia. E tu?" "Anch'io, sempre stato qui."

Ci guardiamo, felici e imbarazzati. E per un attimo, un attimo soltanto, mi balena un dubbio: è davvero lui? Quello che per l'intera adolescenza è stato il mio migliore amico? Magari è solo qualcuno che gli somiglia e che non ha nulla da spartire con me. "Prendi il treno?" gli chiedo. "No, deve arrivare mia cugina." "Ah." "E tu da dove vieni?", indicando la mia borsa. "Da Milano, c'è la mia ragazza là." "Ah. Sempre così eh?, si parte e si ritorna." "E qualche volta ci si incontra." "Già." "Già." "Perché non ci vediamo una sera?", dice. "Sì certo, chiamami." "Va bene." "Va bene."

Resta un sospeso silenzio: e in quell'istante sento, con chiarezza e con rammarico, che certi incontri non servono a niente.

I week-end a Milano con Paola ci lasciano sempre un po' storditi e sospesi, mai veramente completi. E poi, quando la domenica verso sera ci salutiamo, sono ben conscio che all'indomani lei inizierà un'ennesima settimana comune, dove io non sarò altro che uno sporadico pensiero. Una settimana tipo alzarsi ogni mattino per andare in ufficio e ascoltare il telegiornale alla radio, e poi magari fare colazione al bar e civettare col cameriere carino, che la guarda tra un cappuccino e l'altro. Tipo otto ore in ufficio poi la lezione di danza poi la cena riscaldata nel microonde, poi la tele o forse un cinema con qualche amica; e tutto questo per cinque giorni, l'uno dopo l'altro. E simile sarà anche la mia settimana grosso modo, le mattinate a Ca' Foscari navigando in Internet dai terminali della facoltà anziché seguire le lezioni, le ore in biblioteca e i pasti con mia madre e tutte queste cose, tranne forse il mio vagabondare tra i turisti davanti alla stazione Santa Lucia, qualche sera prima di cena, o qualche notte solitaria; osservando e scrutando alla ricerca di qualcosa, di un pensiero o di uno sguardo.

C'è una ragazza magrissima seduta davanti a me, sembra anoressica, e per tutto il viaggio non fa che guardare fuori dal finestrino e mangiare. Disinvolta, con molta calma, estrae dal sacchetto di plastica che tiene in grembo ogni genere di cibo, patatine biscotti panini cioccolatini pasticcini tramezzini, li tiene un po' in mano come soppesandoli, poi li studia socchiudendo gli occhi, li porta lentamente alla bocca e mastica, mastica, incessantemente mastica mentre torna a guardare fuori. Poi, quando finalmente inghiottisce, chiude gli occhi. Ogni tanto beve lunghe sorsate da una bottigliona di Cocacola che ha accanto, quindi riprende a mangiare, senza mai sfiorare il mio sguardo. La sua faccia non è allegra né triste. Poi, poco prima di arrivare a Milano, si alza e va via. Ritorna dopo alcuni minuti e si accascia sul sedile, pallida nella sua tuta da ginnastica. Finalmente mi guarda, uno sguardo duro e distante; ma soprattutto stanco.

I militari che tornano a casa sono allegri, chiassosi, si lanciano battute volgari da uno scompartimento all'altro. Qualcuno di loro mi rivolge ogni tanto un'occhiata curiosa, vedono che ho più o meno la loro età. Eh no miei cari, vorrei dire loro, io la naia l'ho finita già da dieci mesi.

E ricordo bene la sensazione del ritorno a casa, dopo il congedo. Facevo quel tragitto consueto, percorso e ripercorso ad ogni licenza, e lo trovavo d'un tratto diverso, sorprendente, dal treno vedevo montagne mai notate prima, e al mio interno sentivo emozioni nuove, sconosciute. Eccomi d'un tratto al momento tanto atteso, quello che mai avrei creduto di raggiungere, quello che un anno prima, quando contemplavo la prigionia infinita davanti a me, immaginavo remoto e impossibile. Invece eccomi libero: era finita. Ma la fine delle cose arriva all'improvviso, colpendoti forte, anche quando la aspettavi da tempo; la prevedi, ma poi tutto d'un tratto è lì, e non sai come sia giunta, non capisci dove siano scorsi i giorni, non sai. Forse per questo, anche se era una fine agognata, non puoi fare a meno di sentirti triste.

Mia madre non ha fiducia in me. Glielo leggo negli occhi, quando a cena mi rivolge certe domande a voce bassa: "Darai un esame alla prossima sessione?".

"Ehm... sì, forse."

Mi aspetto che lei replichi qualcosa, ma si concentra sulla tivù.

Oppure ieri sera: "Perché non fai mai venire qui Paola, invece di andare sempre tu a Milano?"

Ho mormorato qualcosa di vago, non ricordo neppure cosa. E' una domanda che mi sono posto io stesso più volte, e credo se la ponga anche Paola. Forse è per quella manciata di anni che lei ha più di me, che temo scandalizzerebbero mia madre.

Mia madre che, di certo, immaginerà che Paola sia una poco di buono, visto che non gliela faccio conoscere. Mia madre che, certe sere vedendomi uscire, si concede un unico, sempre uguale commento: "Mi sembra che la tua vita, invece di procedere, sia un continuo andare all'indietro." E prima che io possa rispondere, si rivolge allo spettacolo tivù.

Ma no. Si comportano tutti come si dovesse per forza andare sempre avanti, avanti con l'esperienza e con la consapevolezza e col sentimento, e tutto il resto. In realtà non credo che ci siano un avanti e un indietro verso cui muovere, solo un vagare casualmente intorno, sperando di incappare in qualcosa di bello.

In qualcosa che, qualunque cosa sia, si fa sempre più raro.

Nella ressa di un concerto, sabato notte al Leoncavallo, io e Paola ci siamo persi; mi ero allontanato un attimo per comprare del fumo, e non l'ho più trovata.

Quando il concerto è finito, ho seguito la gente che se ne andava e l'ho aspettata fuori. E ad un tratto, dall'altra parte del serpentone di gente, l'ho vista che cercava il mio viso fra tutti quelli che uscivano dal portone. Aveva un'aria smarrita e indifesa. Si stringeva le braccia attorno alla vita per il freddo, e sotto il lampione la sua pelle era chiarissima, fragile.

Invece di chiamarla, attraverso la ressa di sconosciuti sono rimasto a lungo a spiarla, osservando la paura dipinta sulla sua faccia.

A volte l'odore della sua vagina mi si stampa tenace sulle dita, e durante il viaggio di ritorno mi stendo sul sedile e lo annuso, chiudendo gli occhi: un po' con rimpianto, un po' con disprezzo. Così, con le dita attaccate alle narici, mi lascio cullare dal moto del treno.

Mi risveglio a Venezia, sgomento per aver dormito quasi tutto il viaggio. Il suo odore è scomparso. Afferro la mia borsa e scendo dal treno, con quel lieve capogiro di quando ci si è appena svegliati. E mi dico: bene, un altro week-end è andato. E visto che ho dormito durante il tragitto, non riuscirò più a prendere sonno stasera, figurarsi.

Quest'inarrestabile rotolare di giorni, che non si ferma e mi lascia confuso e tremante al centro di ogni notte...

A Padova, salgono due donne nel mio scompartimento: madre e figlia, credo. Si sistemano di fronte a me, mentre io sono assorto nella lettura del Visconte dimezzato. Il convoglio riparte, e fin da subito mi sento addosso lo sguardo della ragazza. Alzo gli occhi: è carina, con un viso dolce e chiaro, una spilla dell'Agesci appuntata sulla maglia. Avrà diciassette anni. Mi sbircia timida. Mentre la madre guarda altrove, le sorrido. Anche lei sorride. Ma poi torno a leggere, e non sollevo più lo sguardo fino a Vicenza, dove scendono. Dal treno che riparte, la guardo sul marciapiede. Attraverso il finestrino, ha un aspetto limpido e lontano.

Anche stanotte Paola ha tentato in ogni modo di rimanere sveglia il più a lungo possibile, sapendo che io mi sarei addormentato molto più tardi di lei. Mentre leggevo alla luce della lampada, con la coda dell'occhio ho osservato le sue battaglie per tenere gli occhi aperti, l'ho vista scuotersi di colpo ogni volta che stava per cedere. Poi, quando ormai non poteva più reggere, ha deciso di dirmi qualcosa. "Marco..." ha sussurrato. Ma il sonno d'improvviso l'ha sopraffatta, e la frase le è morta in gola.

C'è un uomo seduto di fronte a me, un quarantenne incravattato che sonnecchia. Credo stia facendo un bel sogno, perché ha un poderoso gonfiore sotto i pantaloni. Quando si sveglia, sospira e si alza di scatto, uscendo dallo scompartimento. Dopo un po' ritorna e riprende a dormire.

Ha una macchia sulla coscia adesso, chiara sul blu dei pantaloni. Resto a contemplarla tra lo schifato e l'affascinato. Penso al resto del suo sperma scaraventato sulle rotaie attraverso il buco del cesso, lo penso abbandonato in un punto imprecisato del tragitto, una massa gelatinosa che si secca al sole, come una medusa che muore sulla sabbia.

Il treno ha rallentato e ho scorto un albero fiorito, splendido. Ho ricordato di un altro viaggio, quand'ero bambino: forse andavo a Firenze, ero con mia madre. Anche allora dal treno vedemmo un albero in fiore, e lei disse che quell'albero così bello, così poetico, la convinceva dell'intimo disegno della natura, rafforzava in lei la convinzione che ci fosse un senso: semplicemente, le diceva l'esistenza di Dio. Io annuivo convinto. Ma stavolta quell'albero non mi ha fatto pensare a Dio, solo alla bellezza e al contrasto, la sublime suggestione di certi spettacoli, di certi fatti, e il lacerante squallore di altri.

Prima che io salissi sul treno, Paola mi ha sfiorato le labbra con un dito e ha detto "a che ora vieni sabato prossimo?" Il gelo della sera le aveva arrossato gli zigomi e inumidito gli occhi. Ho raccolto tutto il mio coraggio e ho risposto "non vengo, sabato prossimo. "Mi ha guardato sorpresa, ma in fondo non tanto. "Perché?" L'altoparlante ha annunciato la partenza. Sono salito e, dalla porta, le ho detto "non verrò più, mi dispiace." Senza aspettare la sua reazione, sono entrato nel vagone e sono andato a sedermi. Avevo quasi paura che salisse sul treno per avere dei chiarimenti, ma non lo ha fatto. Lentamente, il treno è partito.

Ma poi, quando già abbiamo superato Mestre e il treno si inoltra nella laguna buia, all'improvviso si ferma. Da un lato, in lontananza, Marghera con le torri illuminate e le ciminiere sputafuoco; dall'altro la sagoma di qualche scoglio alberato, e radi battelli, e un accenno di luna tra le nuvole. Tutto silenzioso. Perché ci siamo fermati, a pochi minuti da Venezia? Questa sosta mi innervosisce. L'uomo che divide lo scompartimento con me, invece, ronfa forte fin da Milano e a tratti russa. E' sempre così: c'è gente che vive con ansia le sue pause, e altra invece che resta impassibile, eternamente remota.

Un palloncino fatto a testa di Pinocchio vaga semisgonfio per la stazione vuota. Si solleva a stento seguendo una corrente d'aria, poi precipita sbattendo il naso a terra; si trascina qua e là derelitto, addossato alle pareti e agli sportelli delle biglietterie chiuse, come cercando la mano del bambino che l'ha abbandonato.

Immobile, resto a guardare la sua agonia. Poi, d'un tratto, mi accorgo che qualcun altro lo sta osservando dall'altro lato dell'atrio: è la ragazza triste di quella notte lontana. Pallida, si stringe nelle braccia con espressione cupa, e mi ricorda Paola quella volta fuori dal Leoncavallo. Il palloncino si accascia al suolo e non si rialza più. La ragazza solleva lo sguardo e lo affonda nel mio. Chissà se mi riconosce; chissà se è sempre lo stesso amore non corrisposto, che la costringe a vagare senza pace, e approdare alla stazione nel culmine della notte. Forse dovrei avvicinarmi, chiacchierarci, cercare di consolarla per il suo amore perduto. Dirle che è così che va; che tutti noi abbiamo perso qualcuno, che tutti perdono continuamente qualcuno, un amante, un amico, a volte se stessi. Dirle che sempre, in ogni luogo, la perdita è il fulcro e la misura della nostra vita. Ma lei, credo, queste cose le sa già.

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Le avventure di Al Cultman

Oggetti di culto degli adolescenti d'oggi: libri, film, fumetti...

di Alberto Fassina

Eternamente pieni ed eternamente vuoti

Che quando Al, Al Cultman sempre inteso che quando Al era entrato in libreria e aveva chiesto di quel tipo, quando Al fece scomodare il commesso perché proprio non sapeva da che parte cominciare a cercare quando poi Al lesse quelle pagine non si sarebbe mai potuto immaginare quante cose sarebbero state diverse.

Perché in fin dei conti un racconto è sempre un racconto, cioè parole scritte o a voce, però uno sguardo è uno sguardo, e non è cosa da poco.

E allora Al, che a quei tempi andava ancora a scuola con l'autobus, si trovava attaccato ad una sbarra di ferro smaltata di nero del bus, attaccato con una mano o anche tutto il braccio, attaccato e con l'altra mano a tenere quell'edizione economica fatta apposta per situazioni come questa.

E non capiva, veramente non capiva come l'autobus potesse diventare così caldo, così con odori di una cucina, così con sapori di birra e fumo che nell'autobus tralaltro non si può neanche fumare.

E una corsa in autobus per andare a scuola era della giusta lunghezza di quei racconti che Carver aveva scritto.

C'è della difficoltà a parlare di lui.

Cultman un giorno era preso dallo studio di una struttura quaternaria che si chiamava emoglobina.

E questa struttura aveva il compito di portare l'ossigeno, perché si sa che senza ossigeno si combina poco.

E poi è successo che quella tipa che aveva le sue foto aveva suonato il campanello proprio perché doveva restituirgliele.

E lui scendendo le scale con il maglione e la sciarpa lunga intorno al collo era contento che un buon motivo lo avesse distolto da quella struttura quaternaria che tanto non sarebbe sicuramente cambiata nei prossimi dieci minuti.

E così con la sciarpa al collo e la tipa che proprio non si aspettava di vedere si fumò una sigaretta.

Ed era buono il fumo che entrava e usciva dalla bocca, ed era buio vicino al cancello e tirando la sigaretta il rosso del tabacco illuminava un po' quel cancello.

E il rosso della sigaretta faceva anche il rumore di carta che brucia.

E il solito Al si godeva di parole e fumo che quella sera non si aspettava.

E i dieci minuti passavano, ma lei era difficile da salutare, e poi le parole di tutti gli argomenti erano così tranquille e lui aspirava il fumo e dolcezza quasi come se quella sigaretta fosse di cioccolato come quelle dei bambini.

E lui era un po' bambino a godersi della sorpresa dei discorsi del fascino di una ragazza, capelli castani e lunghi, e la voce bella.

E poi le sigarette andavano e lei aveva freddo alle mani e lui gliele scaldava, e non credeva che l'emoglobina avesse un ruolo così importante, perché era ora che ne sentiva il bisogno, di ossigeno perché tenerle le mani era veramente tanto.

In casa poi sotto alla luce della lampada con l'emoglobina che richiedeva il suo sguardo lui pensava, pensava a quello che le aveva detto approposito di quell'autore americano che si chiama Carver, mi pare.

Lui le aveva detto poco prima:

"Sai ti piace la letteratura francese"

"si e allora"lei aveva risposto

"E allora dici che ti piacciono le grandi storie d'amore, i tradimenti, le grandi liriche" e buttava fuori il fumo "Be'! sai che c'è uno scrittore che riesce a rendere grande anche quello che c'è di più piccolo, sai che c'è uno così" le parlava sotto voce "Lui renderebbe un racconto questa sera qui con te e me che parliamo al cancello, con io che sono contento a scaldarti le mani, con te che fumi e mi parli" "Lui sa fare questo e le sue storie sono eternamente piene perché sa guardare quello che della vita è comune a tutti, ma sono anche eternamente vuote proprio perché purtroppo è l'essere comune che le confonde in uno sfondo troppo uguale" "Carver dice che c'è un panettiere solo che fa il pane e dà da mangiare alla gente, che questo panettiere ha dei forni, e questi forni che vanno in continuazione sono eternamente pieni ed eternamente vuoti, ma poi aggiungo io pensando sono forni che fanno il pane e il pane lo mangiano tutti, alcuni poco e alcuni troppo ma il pane raggiunge tutti.

E viene fatto in un forno eternamente pieno ed eternamente vuoto ma sempre acceso e sempre caldo.

Ecco lui è così, e noi potremmo essere una sua storia, basta avere lo sguardo e rendersene conto.

Che questa sera è una bella sera."

La luce illuminava la struttura quaternaria

e in tanto lui, sempre Al, aveva aperto la finestra

anche se faceva freddo

aveva aperto la finestra per guardare dall'alto il cancello di casa.

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