Ragazze
Un racconto di Marco Mancassola
Tendo l'orecchio. Di notte, la stazione di Venezia è animata
da uno strano suono, una specie di fruscio lontano come quello
del nastro vuoto, quand'è finita la canzone. Ed è
fredda: faccio il giro di tutte le panchine e di tutti i gradini
dell'atrio, e ogni volta un gelo umido mi raggiunge la pelle,
lento lento attraverso i jeans. Alla fine resto in piedi, appoggiato
alla saracinesca dell'edicola.
Dall'altra parte del salone c'è un vecchietto smilzo vestito
di grigio, che fa lunghi giri intorno a testa bassa. Cammina a
passi discontinui, ora lunghi ora corti, poi fa brusche svolte
o si ferma all'improvviso, quasi trafelato. Dapprincipio mi pare
che cammini a caso, o forse seguendo un qualche disegno sul pavimento.
Ma poi mi rendo conto che sta seguendo il tracciato ideale di
varie figure geometriche: cerchi, quadrati, rettangoli, trapezi.
Li circoscrive nel perimetro del grande atrio vuoto, con esattezza,
come se qualcuno lo stesse guidando dall'alto. Ma lui non sembra
soddisfatto, e alla fine di ogni figura ne disegna un'altra, sopra
quella precedente.
E c'è una ragazza, tra me e il vecchio. Avrà vent'anni,
e indossa una vecchia giacca di pelle, fuori moda, di quelle che
le mamme conservano negli armadi perché non vogliono buttarle.
Sopra il bavero della giacca le cadono i capelli biondicci, che
hanno l'aria leggera dei capelli appena lavati, ancora un po'
umidi, magari odorosi di shampoo. Da quando sono qui, e cioè
da quasi un'ora, la ragazza sta in piedi davanti a un telefono
pubblico. Ferma, immobile, a volte alitandosi sulle mani per scaldarle.
Poi d'un tratto si scuote e solleva la cornetta. Infila una scheda
telefonica. Compone un numero, aspetta.
"Ciao, sono io." Ha una voce esile, quasi tremante,
che pure riempie la stazione deserta.
"Sì, lo so."
"Sì va bene, è piena notte."
"No, è che non riuscivo a dormire."
"Ho fatto una passeggiata, poi ho visto il telefono..."
"Senti, io non ce la faccio."
"No, davvero non ci resisto, ho bisogno di te..."
Poi resta in silenzio, con un'aria incredula. Fissa la cornetta
come se non ricordasse più a cosa serve. Riappende. Andandosene,
mi lancia un'occhiata forse ostile, forse spaventata. Certo adesso
sa che io conosco di lei cose essenziali: che è innamorata,
che è stata lasciata, che non sa rassegnarsi. Che il dolore
e la solitudine pervadono le sue notti lasciandola insonne. Lei
invece non può saper nulla di me. Non sa cosa ci faccio
qui, a due ore di distanza da ogni treno in arrivo o in partenza,
non conosce il mio nome, non sa cosa voglio.
Esce dalla stazione. La seguo fin sulla porta a vetri, e da lì
la guardo che si allontana giù per i gradini, verso il
Ponte degli Scalzi. Ha lasciato una traccia di shampoo nell'aria,
ma forse la sto immaginando. Di colpo, come un bambino invidioso,
ho anch'io una gran voglia di telefonare. Sarebbe bello, adesso,
chiamare qualcuno senza paura di disturbarlo. Dirgli: "sono
qui, nella stazione deserta." Dirgli: "c'è qualcosa
di gigante nel mio petto, ma non so bene cosa".
Emozione, nostalgia, fame, forse paura.
Si mette a piovere, un'acquerugiola gelida, quasi neve. La ragazza
triste si bagnerà.
No, mi sono sbagliato: anche lei di sicuro sa qualcosa di me,
qualcosa di altrettanto essenziale. Sa che, in questa notte, anch'io
come lei sono solo.
Per tutta la notte ho cercato l'abbraccio di Paola sotto le coperte,
volevo stringerla in pieno, sentire l'aderenza del suo seno sul
mio petto. Ma ogni volta che eravamo accanto e ci premevamo l'uno
contro l'altra, sdraiati sul fianco, ecco che restava l'ostacolo
di un mio o di un suo braccio, o di entrambi, che non sapevamo
dove mettere. Ci siamo girati e rigirati ma sempre restavano quei
due intrusi tra i nostri corpi, come parti estranee. Allora mi
sono sdraiato sopra di lei, e finalmente il nostro abbraccio è
stato libero e totale; ma in quella posizione lei ha creduto che
volessi fare l'amore e così, nel buio, l'ho penetrata con
un vago senso di oppressione.
Percorro vari vagoni del treno alla ricerca di un posto, ma è
tutto occupato. C'è gente seduta anche sui seggiolini del
corridoio, e per passare senza disturbare devo contorcermi in
mille modi. Ogni volta che guardo dentro uno scompartimento, le
persone che lo occupano mi rimandano uno sguardo che sembra di
scherno, quasi che ognuno di loro mi dica: "Brutto stronzo,
io sono seduto e tu no."
Oppure si vanta del tipo: "Io sono furbo e tu no".
E io no.
Poi d'un tratto, inaspettatamente, uno scompartimento vuoto tranne
che per un uomo accanto al finestrino. Entro e mi siedo. Fuori,
nel pomeriggio che imbrunisce, inizia a nevicare leggermente;
ma nel vagone fa caldo e il sedile è comodo, mi rilasso
contento. Prendo un libro dallo zaino e inizio a leggere.
"Tu hai accendere?" chiede l'uomo con voce impastata.
Lo guardo e mi accorgo che è straniero, forse slavo, e
visibilmente ubriaco.
"No, non fumo."
"Oh."
Torno a leggere, sperando che mi lasci in pace.
Ma invece: "Io profugo di Sarajevo" dice.
"Ah", e non riesco ad aggiungere altro.
Mi guarda fisso, come studiandomi con gli occhi acquosi. "Mia
moglie morta. Miei figli morti. Miei fratelli morti. Tutti morti."
Parla a voce alta, stonata. Fuori, le persone sedute sui seggiolini
mi osservano in un modo strano, forse divertito: lo stesso modo
con cui si guarda qualcuno preso di mira da un matto.
"Tutti morti", e grosse lacrime gli rotolano sulle guance.
Dal mio sedile sento il puzzo del suo fiato, che sa di alcol e
di cibo cattivo. Lui parla, racconta, impreca e ancora piange.
Io capisco appena un quarto delle sue parole, mi sta dicendo di
sua moglie e di quant'era bella, e del giorno in cui l'ha trovata
morta con una patata in bocca, nuda. E del posto dove vive adesso,
una specie di campo nomadi dalle parti di Treviso. Io annuisco
e ogni tanto provo a sorridergli. Quando si alza per scendere
gli allungo diecimila lire, senza che me le avesse chieste. Poi
gli tendo la mano. Lui anziché stringerla me la bacia,
umilmente: "tu buono" dice. Raccoglie i suoi fagotti
e se ne va, tirando su col naso.
Tu buono: per diecimila lire?
In realtà, mi sentivo molto cinico nei miei pensieri, mentre
mi parlava: sempre consapevole e convinto che quello che stava
narrando era lo sfascio della sua vita, della sua
terra; che le lacrime che stava piangendo erano quelle del
suo dolore.
Noi, noi possiamo provare pena, e comprensione, e desiderare il
bene altrui; ma non possiamo renderci realmente partecipi del
dolore di un altro, siamo già convinti di averne a sufficienza
di nostro. A ognuno il suo dolore. E in mezzo, la solitudine.
E' strano incontrarlo così, dopo anni che non lo vedevo,
sui gradini della stazione. Subito ci guardiamo perplessi, come
per riconoscerci: ha un po' di barba adesso, e io non ho più
i capelli lunghi. "Ciao!", mi fa.
"Ciao! Quanto tempo, dov'eri finito?"
"Ma, sempre qui a Venezia. E tu?"
"Anch'io, sempre stato qui."
Ci guardiamo, felici e imbarazzati. E per un attimo, un attimo
soltanto, mi balena un dubbio: è davvero lui? Quello che
per l'intera adolescenza è stato il mio migliore amico?
Magari è solo qualcuno che gli somiglia e che non ha nulla
da spartire con me.
"Prendi il treno?" gli chiedo.
"No, deve arrivare mia cugina."
"Ah."
"E tu da dove vieni?", indicando la mia borsa.
"Da Milano, c'è la mia ragazza là."
"Ah. Sempre così eh?, si parte e si ritorna."
"E qualche volta ci si incontra."
"Già."
"Già."
"Perché non ci vediamo una sera?", dice.
"Sì certo, chiamami."
"Va bene."
"Va bene."
Resta un sospeso silenzio: e in quell'istante sento, con chiarezza
e con rammarico, che certi incontri non servono a niente.
I week-end a Milano con Paola ci lasciano sempre un po' storditi
e sospesi, mai veramente completi. E poi, quando la domenica verso
sera ci salutiamo, sono ben conscio che all'indomani lei inizierà
un'ennesima settimana comune, dove io non sarò altro che
uno sporadico pensiero. Una settimana tipo alzarsi ogni mattino
per andare in ufficio e ascoltare il telegiornale alla radio,
e poi magari fare colazione al bar e civettare col cameriere carino,
che la guarda tra un cappuccino e l'altro. Tipo otto ore in ufficio
poi la lezione di danza poi la cena riscaldata nel microonde,
poi la tele o forse un cinema con qualche amica; e tutto questo
per cinque giorni, l'uno dopo l'altro. E simile sarà anche
la mia settimana grosso modo, le mattinate a Ca' Foscari navigando
in Internet dai terminali della facoltà anziché
seguire le lezioni, le ore in biblioteca e i pasti con mia madre
e tutte queste cose, tranne forse il mio vagabondare tra i turisti
davanti alla stazione Santa Lucia, qualche sera prima di cena,
o qualche notte solitaria; osservando e scrutando alla ricerca
di qualcosa, di un pensiero o di uno sguardo.
C'è una ragazza magrissima seduta davanti a me, sembra
anoressica, e per tutto il viaggio non fa che guardare fuori dal
finestrino e mangiare. Disinvolta, con molta calma, estrae dal
sacchetto di plastica che tiene in grembo ogni genere di cibo,
patatine biscotti panini cioccolatini pasticcini tramezzini, li
tiene un po' in mano come soppesandoli, poi li studia socchiudendo
gli occhi, li porta lentamente alla bocca e mastica, mastica,
incessantemente mastica mentre torna a guardare fuori. Poi, quando
finalmente inghiottisce, chiude gli occhi. Ogni tanto beve lunghe
sorsate da una bottigliona di Cocacola che ha accanto, quindi
riprende a mangiare, senza mai sfiorare il mio sguardo. La sua
faccia non è allegra né triste. Poi, poco prima
di arrivare a Milano, si alza e va via. Ritorna dopo alcuni minuti
e si accascia sul sedile, pallida nella sua tuta da ginnastica.
Finalmente mi guarda, uno sguardo duro e distante; ma soprattutto
stanco.
I militari che tornano a casa sono allegri, chiassosi, si lanciano
battute volgari da uno scompartimento all'altro. Qualcuno di loro
mi rivolge ogni tanto un'occhiata curiosa, vedono che ho più
o meno la loro età. Eh no miei cari, vorrei dire loro,
io la naia l'ho finita già da dieci mesi.
E ricordo bene la sensazione del ritorno a casa, dopo il congedo.
Facevo quel tragitto consueto, percorso e ripercorso ad ogni licenza,
e lo trovavo d'un tratto diverso, sorprendente, dal treno vedevo
montagne mai notate prima, e al mio interno sentivo emozioni nuove,
sconosciute. Eccomi d'un tratto al momento tanto atteso, quello
che mai avrei creduto di raggiungere, quello che un anno prima,
quando contemplavo la prigionia infinita davanti a me, immaginavo
remoto e impossibile. Invece eccomi libero: era finita. Ma la
fine delle cose arriva all'improvviso, colpendoti forte, anche
quando la aspettavi da tempo; la prevedi, ma poi tutto d'un tratto
è lì, e non sai come sia giunta, non capisci dove
siano scorsi i giorni, non sai. Forse per questo, anche se era
una fine agognata, non puoi fare a meno di sentirti triste.
Mia madre non ha fiducia in me. Glielo leggo negli occhi, quando
a cena mi rivolge certe domande a voce bassa: "Darai un esame
alla prossima sessione?".
"Ehm... sì, forse."
Mi aspetto che lei replichi qualcosa, ma si concentra sulla tivù.
Oppure ieri sera: "Perché non fai mai venire qui Paola,
invece di andare sempre tu a Milano?"
Ho mormorato qualcosa di vago, non ricordo neppure cosa. E' una
domanda che mi sono posto io stesso più volte, e credo
se la ponga anche Paola. Forse è per quella manciata di
anni che lei ha più di me, che temo scandalizzerebbero
mia madre.
Mia madre che, di certo, immaginerà che Paola sia una poco
di buono, visto che non gliela faccio conoscere. Mia madre che,
certe sere vedendomi uscire, si concede un unico, sempre uguale
commento: "Mi sembra che la tua vita, invece di procedere,
sia un continuo andare all'indietro." E prima che io possa
rispondere, si rivolge allo spettacolo tivù.
Ma no. Si comportano tutti come si dovesse per forza andare sempre
avanti, avanti con l'esperienza e con la consapevolezza e col
sentimento, e tutto il resto. In realtà non credo che ci
siano un avanti e un indietro verso cui muovere, solo un vagare
casualmente intorno, sperando di incappare in qualcosa di bello.
In qualcosa che, qualunque cosa sia, si fa sempre più raro.
Nella ressa di un concerto, sabato notte al Leoncavallo, io e
Paola ci siamo persi; mi ero allontanato un attimo per comprare
del fumo, e non l'ho più trovata.
Quando il concerto è finito, ho seguito la gente che se
ne andava e l'ho aspettata fuori. E ad un tratto, dall'altra parte
del serpentone di gente, l'ho vista che cercava il mio viso fra
tutti quelli che uscivano dal portone. Aveva un'aria smarrita
e indifesa. Si stringeva le braccia attorno alla vita per il freddo,
e sotto il lampione la sua pelle era chiarissima, fragile.
Invece di chiamarla, attraverso la ressa di sconosciuti sono rimasto
a lungo a spiarla, osservando la paura dipinta sulla sua faccia.
A volte l'odore della sua vagina mi si stampa tenace sulle dita,
e durante il viaggio di ritorno mi stendo sul sedile e lo annuso,
chiudendo gli occhi: un po' con rimpianto, un po' con disprezzo.
Così, con le dita attaccate alle narici, mi lascio cullare
dal moto del treno.
Mi risveglio a Venezia, sgomento per aver dormito quasi tutto
il viaggio. Il suo odore è scomparso. Afferro la mia borsa
e scendo dal treno, con quel lieve capogiro di quando ci si è
appena svegliati. E mi dico: bene, un altro week-end è
andato. E visto che ho dormito durante il tragitto, non riuscirò
più a prendere sonno stasera, figurarsi.
Quest'inarrestabile rotolare di giorni, che non si ferma e mi
lascia confuso e tremante al centro di ogni notte...
A Padova, salgono due donne nel mio scompartimento: madre e figlia,
credo. Si sistemano di fronte a me, mentre io sono assorto nella
lettura del Visconte dimezzato. Il convoglio riparte, e
fin da subito mi sento addosso lo sguardo della ragazza. Alzo
gli occhi: è carina, con un viso dolce e chiaro, una spilla
dell'Agesci appuntata sulla maglia. Avrà diciassette anni.
Mi sbircia timida. Mentre la madre guarda altrove, le sorrido.
Anche lei sorride. Ma poi torno a leggere, e non sollevo più
lo sguardo fino a Vicenza, dove scendono. Dal treno che riparte,
la guardo sul marciapiede. Attraverso il finestrino, ha un aspetto
limpido e lontano.
Anche stanotte Paola ha tentato in ogni modo di rimanere sveglia
il più a lungo possibile, sapendo che io mi sarei addormentato
molto più tardi di lei. Mentre leggevo alla luce della
lampada, con la coda dell'occhio ho osservato le sue battaglie
per tenere gli occhi aperti, l'ho vista scuotersi di colpo ogni
volta che stava per cedere. Poi, quando ormai non poteva più
reggere, ha deciso di dirmi qualcosa. "Marco..." ha
sussurrato. Ma il sonno d'improvviso l'ha sopraffatta, e la frase
le è morta in gola.
C'è un uomo seduto di fronte a me, un quarantenne incravattato
che sonnecchia. Credo stia facendo un bel sogno, perché
ha un poderoso gonfiore sotto i pantaloni. Quando si sveglia,
sospira e si alza di scatto, uscendo dallo scompartimento. Dopo
un po' ritorna e riprende a dormire.
Ha una macchia sulla coscia adesso, chiara sul blu dei pantaloni.
Resto a contemplarla tra lo schifato e l'affascinato. Penso al
resto del suo sperma scaraventato sulle rotaie attraverso il buco
del cesso, lo penso abbandonato in un punto imprecisato del tragitto,
una massa gelatinosa che si secca al sole, come una medusa che
muore sulla sabbia.
Il treno ha rallentato e ho scorto un albero fiorito, splendido.
Ho ricordato di un altro viaggio, quand'ero bambino: forse andavo
a Firenze, ero con mia madre. Anche allora dal treno vedemmo un
albero in fiore, e lei disse che quell'albero così bello,
così poetico, la convinceva dell'intimo disegno della natura,
rafforzava in lei la convinzione che ci fosse un senso: semplicemente,
le diceva l'esistenza di Dio. Io annuivo convinto. Ma stavolta
quell'albero non mi ha fatto pensare a Dio, solo alla bellezza
e al contrasto, la sublime suggestione di certi spettacoli, di
certi fatti, e il lacerante squallore di altri.
Prima che io salissi sul treno, Paola mi ha sfiorato le labbra
con un dito e ha detto "a che ora vieni sabato prossimo?"
Il gelo della sera le aveva arrossato gli zigomi e inumidito gli
occhi. Ho raccolto tutto il mio coraggio e ho risposto "non
vengo, sabato prossimo. "Mi ha guardato sorpresa, ma in fondo
non tanto. "Perché?" L'altoparlante ha annunciato
la partenza. Sono salito e, dalla porta, le ho detto "non
verrò più, mi dispiace." Senza aspettare la
sua reazione, sono entrato nel vagone e sono andato a sedermi.
Avevo quasi paura che salisse sul treno per avere dei chiarimenti,
ma non lo ha fatto. Lentamente, il treno è partito.
Ma poi, quando già abbiamo superato Mestre e il treno si
inoltra nella laguna buia, all'improvviso si ferma. Da un lato,
in lontananza, Marghera con le torri illuminate e le ciminiere
sputafuoco; dall'altro la sagoma di qualche scoglio alberato,
e radi battelli, e un accenno di luna tra le nuvole. Tutto silenzioso.
Perché ci siamo fermati, a pochi minuti da Venezia? Questa
sosta mi innervosisce. L'uomo che divide lo scompartimento con
me, invece, ronfa forte fin da Milano e a tratti russa. E' sempre
così: c'è gente che vive con ansia le sue pause,
e altra invece che resta impassibile, eternamente remota.
Un palloncino fatto a testa di Pinocchio vaga semisgonfio per
la stazione vuota. Si solleva a stento seguendo una corrente d'aria,
poi precipita sbattendo il naso a terra; si trascina qua e là
derelitto, addossato alle pareti e agli sportelli delle biglietterie
chiuse, come cercando la mano del bambino che l'ha abbandonato.
Immobile, resto a guardare la sua agonia. Poi, d'un tratto, mi
accorgo che qualcun altro lo sta osservando dall'altro lato dell'atrio:
è la ragazza triste di quella notte lontana. Pallida, si
stringe nelle braccia con espressione cupa, e mi ricorda Paola
quella volta fuori dal Leoncavallo. Il palloncino si accascia
al suolo e non si rialza più. La ragazza solleva lo sguardo
e lo affonda nel mio. Chissà se mi riconosce; chissà
se è sempre lo stesso amore non corrisposto, che la costringe
a vagare senza pace, e approdare alla stazione nel culmine della
notte. Forse dovrei avvicinarmi, chiacchierarci, cercare di consolarla
per il suo amore perduto. Dirle che è così che va;
che tutti noi abbiamo perso qualcuno, che tutti perdono continuamente
qualcuno, un amante, un amico, a volte se stessi. Dirle che sempre,
in ogni luogo, la perdita è il fulcro e la misura della
nostra vita. Ma lei, credo, queste cose le sa già.
Le avventure di Al Cultman
Oggetti di culto degli adolescenti d'oggi: libri, film, fumetti...
di Alberto Fassina
Eternamente pieni ed eternamente vuoti
Che quando Al, Al Cultman sempre inteso che quando Al era entrato
in libreria e aveva chiesto di quel tipo, quando Al fece scomodare
il commesso perché proprio non sapeva da che parte cominciare
a cercare quando poi Al lesse quelle pagine non si sarebbe mai
potuto immaginare quante cose sarebbero state diverse.
Perché in fin dei conti un racconto è sempre un
racconto, cioè parole scritte o a voce, però uno
sguardo è uno sguardo, e non è cosa da poco.
E allora Al, che a quei tempi andava ancora a scuola con l'autobus,
si trovava attaccato ad una sbarra di ferro smaltata di nero del
bus, attaccato con una mano o anche tutto il braccio, attaccato
e con l'altra mano a tenere quell'edizione economica fatta apposta
per situazioni come questa.
E non capiva, veramente non capiva come l'autobus potesse diventare
così caldo, così con odori di una cucina, così
con sapori di birra e fumo che nell'autobus tralaltro non si può
neanche fumare.
E una corsa in autobus per andare a scuola era della giusta lunghezza
di quei racconti che Carver aveva scritto.
C'è della difficoltà a parlare di lui.
Cultman un giorno era preso dallo studio di una struttura quaternaria
che si chiamava emoglobina.
E questa struttura aveva il compito di portare l'ossigeno, perché
si sa che senza ossigeno si combina poco.
E poi è successo che quella tipa che aveva le sue foto
aveva suonato il campanello proprio perché doveva restituirgliele.
E lui scendendo le scale con il maglione e la sciarpa lunga intorno
al collo era contento che un buon motivo lo avesse distolto da
quella struttura quaternaria che tanto non sarebbe sicuramente
cambiata nei prossimi dieci minuti.
E così con la sciarpa al collo e la tipa che proprio non
si aspettava di vedere si fumò una sigaretta.
Ed era buono il fumo che entrava e usciva dalla bocca, ed era
buio vicino al cancello e tirando la sigaretta il rosso del tabacco
illuminava un po' quel cancello.
E il rosso della sigaretta faceva anche il rumore di carta che
brucia.
E il solito Al si godeva di parole e fumo che quella sera non
si aspettava.
E i dieci minuti passavano, ma lei era difficile da salutare,
e poi le parole di tutti gli argomenti erano così tranquille
e lui aspirava il fumo e dolcezza quasi come se quella sigaretta
fosse di cioccolato come quelle dei bambini.
E lui era un po' bambino a godersi della sorpresa dei discorsi
del fascino di una ragazza, capelli castani e lunghi, e la voce
bella.
E poi le sigarette andavano e lei aveva freddo alle mani e lui
gliele scaldava, e non credeva che l'emoglobina avesse un ruolo
così importante, perché era ora che ne sentiva il
bisogno, di ossigeno perché tenerle le mani era veramente
tanto.
In casa poi sotto alla luce della lampada con l'emoglobina che
richiedeva il suo sguardo lui pensava, pensava a quello che le
aveva detto approposito di quell'autore americano che si chiama
Carver, mi pare.
Lui le aveva detto poco prima:
"Sai ti piace la letteratura francese"
"si e allora"lei aveva risposto
"E allora dici che ti piacciono le grandi storie d'amore,
i tradimenti, le grandi liriche" e buttava fuori il fumo
"Be'! sai che c'è uno scrittore che riesce a rendere
grande anche quello che c'è di più piccolo, sai
che c'è uno così" le parlava sotto voce "Lui
renderebbe un racconto questa sera qui con te e me che parliamo
al cancello, con io che sono contento a scaldarti le mani, con
te che fumi e mi parli" "Lui sa fare questo e le sue
storie sono eternamente piene perché sa guardare quello
che della vita è comune a tutti, ma sono anche eternamente
vuote proprio perché purtroppo è l'essere comune
che le confonde in uno sfondo troppo uguale" "Carver
dice che c'è un panettiere solo che fa il pane e dà
da mangiare alla gente, che questo panettiere ha dei forni, e
questi forni che vanno in continuazione sono eternamente pieni
ed eternamente vuoti, ma poi aggiungo io pensando sono forni che
fanno il pane e il pane lo mangiano tutti, alcuni poco e alcuni
troppo ma il pane raggiunge tutti.
E viene fatto in un forno eternamente pieno ed eternamente vuoto
ma sempre acceso e sempre caldo.
Ecco lui è così, e noi potremmo essere una sua storia,
basta avere lo sguardo e rendersene conto.
Che questa sera è una bella sera."
La luce illuminava la struttura quaternaria
e in tanto lui, sempre Al, aveva aperto la finestra
anche se faceva freddo
aveva aperto la finestra per guardare dall'alto il cancello di
casa.
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